14.8.06

Un tranquillo venerdì di oceano, uncinetto e lumachine

Zambujeira do Mar è un piccolo paese sull’oceano dominato essenzialmente da due categorie: surfisti e matrone di mezz’età che affittano loro appartamenti che hanno il profumo delle case al mare delle vecchie zie. Ci si scordi insomma l’immaginario maledetto cinematografico, ché qui gli spericolati, invero con una tendenza all’aspetto post-fricchettone fatto di magrezza e dreadlock più che di muscoli e chioma fluente, si addormentano sotto copriletti fiorati di vezzosi pizzi e merletti. A contrastare il lavoro di diritto e di rovescio delle bianche tende e dei centrini resta solo un poster col gesto a corna mignolo-pollice, hang loose brother!, appeso come un ritratto di famiglia con due chiodi, due stringhe e una cornice di legno povero.

Per quattro giorni però Zambujeira diventa anche sede dell’eterogenea accolita, per lo più portoghese, che frequenta il Festival do Sudoeste. Il primo sentore di come un paesino per surfisti, concerti di Goldfrapp e Daft Punk e un palco reggae possano attrarre un miscuglio indefinibile lo abbiamo ad Aljezur, piccola località tra Algarve e Alentejo dove eseguiamo lo scambio tra gli expressos presso una stazione degli autobus popolata in egual misura dai suddetti festivalieri e da rigorose coppie di silenti anziani. Se sei un uomo devi indossare un cappello anche se fuori ci sono trentasei gradi. Gli anziani hanno il sorriso negli occhi e secondo me pensano che quegli adolescenti (ancora) rasta hanno molto più caldo sulla testa di loro.



Arriviamo a Zambujeira senza aver prenotato niente (non si può prenotare da internet e farlo via telefono è quasi impossibile, specie se si sbaglia prefisso e si effettuano le chiamate in Lussemburgo) e senza la via di fuga del campeggio, non compreso nel biglietto giornaliero e peraltro talmente pieno che gli ultimi arrivati hanno posizionato la tenda senza riparo dal sole. Arriviamo a Zambujeira nel tardo pomeriggio del secondo giorno di festival e impieghiamo meno di cinque minuti per capire che la situazione alloggio è critica. La signora dell’ufficio turistico ci scoraggia dicendo che non è rimasto niente, iniziamo il pellegrinaggio delle pensão e soltanto la magnanima Dona Maria Fernanda della Mar-e-Sol prende a cuore la nostra causa, promettendoci un quarto se la giornalista che aveva prenotato e non confermato non fosse arrivata. Passiamo alla ricerca di quartos nelle case e ogni signora si premura di indirizzarci a una sua amica che regolarmente ha terminato le camere. Dai balconi i ragazzi stendono gli asciugamani e i costumi, i bar sono affollati e l’ufficio turistico dove abbiamo lasciato i bagagli sta per chiudere. Poi voltiamo l’angolo e la scontrosa e gentile signora del negozio di surf e pesca ci salva, evitandoci l’umido adiaccio notturno. Peggio di noi solo la fantozziana coppia che troveremo il giorno dopo davanti al negozio: non sapevano che in quel posto sperduto si stava tenendo un festival musicale.

Trovata la sistemazione, ci guardiamo intorno. Il posto è scevro da ogni minimo indie-fighettismo, semmai gli si può imputare un afrore a metà tra il balneare ed Arezzo Wave. Tre passi e siamo di fronte alla visione mozzafiato del golfo di Zambujeira, scogliere grigio-nero-verdi alte decine di metri, spiaggia sterminata conscia dell’essere succube della marea, oceano imbronciato illuminato da sole calante. Scendiamo vestiti alla costa, giusto per qualche foto e per bagnare i piedi nell’acqua freddissima, così fredda e ondosa che il giorno dopo passerò il tempo a buttarmi contro i cavalloni come non facevo da quando avevo quattordici anni. Tornando indietro sento un accento palermitano e noto che la metà del gruppetto porta ancora il braccialetto di Benicassim dell’anno scorso. Ed è strano perché sembra che in giro non ci siano altri stranieri: nessun inglese, nessun tedesco, nessun italiano, qualche spagnolo e qualche francese. Mentre i palermitani cazzeggiano, risaliamo al viale principale e, per tutti i fossili, Denver! Giusto il tempo di riprendermi con qualche pizzicotto e ci troviamo davanti a birra e babaluci, manco fossimo al Festino di Santa Rosolia. I babaluci, ovvero le lumache piccole e bianche saltate con olio, aglio, prezzemolo e pepe, qui si chiamano caracois, quasi come me. Tutti corrono via dal paese ed escono fuori gli abitanti del luogo, quiete famigliole abitanti paciose villette minimali e feng-shui-ficate poco lontano dal viale principale. Verso le undici il posto è serenamente spettrale e gli unici suoni provengono dal mercatino fastidiosamente etnico dove lo stand degli indios pompa Around The World a volume eccessivo. Andiamo a letto presto, riservando le energie per il campale giorno successivo.



(si ringrazia play-m per la prima e la quarta foto)

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