31.12.06

Il mio botto in una scatola

Ennesima operazione delle forze dell’ordine nella lotta contro botti e fuochi d’artificio illegali. Sequestrati in tutto il territorio italiano esplosivi pericolosi per il valore di svariate decine di milioni di euro che avrebbero sicuramente provocato la consueta sequela di incidenti nell’ultima notte dell’anno. Tra questi, oltre all’ormai classico pallone di Maradona e al più recente e temuto Osama Bin Laden, pare che la novità dell’anno sia il temibile e distruttivo synth di My Love di Justin Timberlake. Sono in giro diverse varianti di questa vera e propria bomba, tra le quali spiccano per violenza la versione dubstep e quella strumentale dubstep per MCs. San Silvestro si avvicina e speriamo che quest’anno il bilancio sia meno grave degli anni scorsi. Anche perché noi i botti li facciamo così.


24.12.06

Holidays days heys hiss is shhhh (ccvaalihhh!!!)

Hey you, english speaking reader! You’re probably here in search of some electro christmas tune (where’s the Nathan Fake’s Silent Night for the 2006?!) or of some fresh 2008 leak (I’m about to post the second Justice album, you know), but it’s Xmas time and everything seems to stop in front of tortellini and pandoro. During holidays you won’t probably even check this place, but if you’re here maybe you’re c-c-c-checking it out. So the Xmas present for you is a remix from an italian tune about holidays. You know there’s a moment when you and your girfliend are distant in holidays, and you want to go to a party, but she makes thou stories and you go “Hey, I wanna have fun, I’m 35 years old, ueh, I’m not old at all!”. Straight from the beloved Riotmaker remix album Riotmaker: A Medium Party here’s some real italian shiiiit. Ex-Otago. Fare Soldi. Ccvaalihhhh!


23.12.06

Ripeti e ascolta

I Chk Chk Chk, quando nel nuovo disco fanno i Chk Chk Chk, mi irritano più dei Red Hot Chili Peppers, forse anche perché prima o poi, milioni di copie o meno, tenderanno a somigliarsi. In Myth Takes allora punto il riflettore su due delle tre devianze (l’altra è una ballata da fine disco, cosa molto di moda pare nei dischi dance-rock del 2007): nella prima il cantato femminile di una nipotina di Levan e una coda di riverberi massimalisti di chitarra si innestano su un pezzo disco tutto bassi e muscoli. Nella seconda si sperimenta un dub funk eccessivo e divertito, con tanto di assolo demenziale e na-na-na-na da coro.

Heart Of Hearts - !!!
Break In Case Of Anything - !!!

21.12.06

A Natale non si regalano le palle per l’albero di Natale

In questi giorni mi interrogo un po’ sulla piega che prenderà questa storia dei blogger e dell’industria musicale. Quello che è successo a Oh My Gosh (che però pare essersi salvato dalla denuncia) e il racconto di Inkiostro su una goffaggine italiana (che fa ancora più ridere se pensate che la stessa major da Londra oggi manda ai blogger un mp3 dal disco e ne promette un altro per i primi di Gennaio) testimoniano il momento confuso e in bilico non solo tra due modi di concepire la promozione e il mercato musicale, ma tra gente che capisce o meno certi strumenti o certe dinamiche. E allora nonostante l’mp3 suddetto non mi colpisca particolarmente, trovo giusto sottolineare la schizofrenia postandolo, così magari la filiale italiana chiede di rimuoverlo e chiudiamo il cerchio.

Accanto a un nuovo pezzo di The Good The Bad And The Queen però affianco un’operazione ancora più meritevole, ovvero il cd di natale dell’etichetta di techno minimale Karmarouge. Dieci pezzi, uno zip da cento mega, proprio come nei siti ora messi sotto accusa, ora visti come speranza. E non c'è traccia di slitte, renne, presepi e panettoni.

History Song - The Good, The Bad And The Queen (sendspace)

Da Ton Sur Ton - The Karmarouge X-Mas Compilation:
Ihre persönliche Glücksmelodie (Extended Live Mix) - Gabriel Ananda (sendspace)

(update: Wittgenstein segnala un passo indietro della sezione italiana della major che per riparare rende disponibile uno zip con mezzo disco, contenente tra l'altro due pezzi che ancora non si erano sentiti come 80s Life e Three Changes. La casa madre inglese chiederà lo rimozione dello zip?)

18.12.06

Come quando rivedi due ex innamorati e pensi che non riesci a reggerli uno alla volta

(A meno che non tiri in ballo James Holden, claro)



Non voglio mica la luna, chiedo soltanto di andare (na-a-ah)

Ho sentito appena due volte il nuovo Air, quindi i giudizi non possono andare oltre l’impressione. Dunckel e Godin sono come al solito chiusi in una stanza, al solito con qualche disco vecchio in più a ossessionarli, al solito con souvenir post-esotici sul comodino. Il loro nuovo disco però sta in tasca, ripiegato su se stesso, come una cartolina sonora di quelle che quando la apri emmette una melodia rassicurante e insieme schiacciata per il poco spazio sul chip sonoro. Gli Air sono in una prigione dorata come sempre, ma hanno deciso che l’universo fuori non merita nemmeno di essere sognato.

Somewhere Between Waking And Sleeping - Air feat. Neil Hannon (sendspace)

Perritos Calientes


14.12.06

Piano, strings and trumpets (A bugged in / bugged out start of the year)

Il freddo si spalma nel circondario. Quest’anno la tendenza è ricevere/fare/farsi i regali prima di Natale. Gli Explosions In The Sky per dire hanno ricevuto un pianoforte. Tutti siete affannati a preparare i vostri primi dieci e io invece preferisco avere altri interrogativi, tipo “Cosa fare a Capodanno?”. A Bari c’è qualcosa che non sia il festacchione di Controradio? E nel resto d’Italia? Non abbiate tema a fare pubblicità nei commenti se avete qualcosa di interessante da suggerire.

Intanto mentre frotte di individui sostengono che Voglio Solo Limonare sarà il tormentone di fine anno, io sono in piena fissa tromba. Non ci fossero già il dannato Villalobos e Beirut, il signorino Alkanno ha riportato a galla il pregevole remix trombatore di Herbert in Disco 2006, il suo mix allegato a Mixmag di fine anno. (mi astengo da battute su tromba e capodanno)

Parlando di Erol Alkan, noi avevamo in progetto un weekend a Londra per assaporare, tra l’altro, due luoghi di culto come il Fabric e la serata Trash@The End. Saputo dell’interesse gli organizzatori del Trash hanno deciso di chiudere la serata dopo dieci anni e il Fabric ha pensato bene di riempire gli ultimi due weekend di Gennaio con delle robe interessanti, ma non al punto da far scattare la scintilla (una serata interamente dubstep e poi Switch, Sinden, Radio Clit etc). Ormai demoralizzati optiamo in maniera totalmente casuale per il penultimo fine settimana e cosa viene fuori stamattina? Che ci beccheremo un sontuoso Bugged Out@The End con Digitalism dal vivo, Boys Noize ed Erol Alkan. Ok, è soooooo 2006, ma mica si può vivere sempre tre mesi in anticipo. Gennaio poi è sempre un po’ vittima dell’anno precedente.

Ai primi di Gennaio aggiungeremo inoltre alla lista “Cose da fare prima di rincoglionirsi e/o morire (musicalmente)” anche la visione dal vivo a Bari di Derrick May che all’interno di un set da quattro ore suonerà Strings Of Life. A questo punto ci vorrebbe anche qualche bel concerto indie, ma stiamo parlando di Gennaio, mica di Natale.

So Long, Lonesome - Explosions In The Sky
Animal’s Claw (In Flagranti edit) mixed into Moving Like A Train (Smith N Hack remix) - Erol alkan mixes Lark into Herbert (from Mixmag Disco 2006)
Derrick May discute di Strings Of Life

12.12.06

Don’t Techno (Put Your Head For An Answer)

L’oscurità e lo splendore sono come il mostro e il fratello. Spesso coincidono e riescono solo quando arrivano inattesi. Come le streghe in un disco da ballare, come una trance ipertecnologica in un disco per fricchettoni. Se Monsters And Silly Songs di Joakim, come sosteneva bene qualcuno, è il disco dance che farebbero i Liars, allora il nuovo singolo dei Panda Bear non è altro che la techno che vorrebbe essere Brian Wilson. Qui non ci sono manopole per regolare la luminosità. La troppa luce e il buio pesto accecano allo stesso modo, quindi attenti ai comodini.

Three Legged Lantern - Joakim (sendspace)
Bro’s - Panda Bear (sendspace)

6.12.06

Comment ne pas te dire adieu

In tanti si sono lamentati del servizio dei commenti di questo blog. Commenti persi, non accettati, interpretati erroneamente come spam, presenti come numero eppure non visualizzati. A seguito di ciò ho deciso di passare all'interfaccia commenti di blogger, che ormai dovrebbe essere abbastanza stabile. I commenti ai post passati su enetation saranno comunque sempre visibili ove presenti.

4.12.06

Esiste ancora l’Argentil?


Watch The Tapes - LCD Soundsystem (sendspace)
Sound Of Silver - LCD Soundsystem (sendspace)

(file removed as requested from DFA myspace)

2.12.06

Asobi Seksu

Perché nessuno presenta i Detektivbyrån a James Holden? Perché non fanno parte della Border Community? Perché non siamo tutti quanti uniti da un abbraccio di amore cosmico, elettronico e melodico?


29.11.06

Io non so dire addio, anche se poi non ci si vede più

another bloated disco, another sniff of romance i'll forget

Gli Arab Strap sono andati via dall’Italia per l’ultima volta (fino alla reunion). Qui non si sono avuti dubbi e ci si è fermati al penultimo tour. Poi sabato sera cercavo comunque di difendere davanti a tanti insensibili la legittimità del tour dello scioglimento davanti ad accuse legate grosso modo al soldo. Tanti hanno parlato poi di questi ultimi concerti, chi più, chi meno bene. Quasi tutti però indicavano il momento chiave nella fine, in quella The Shy Retirer nuda e scarna, privata di drum machine e archi. Nessuno però che la facesse sentire a me e a chi si fosse sottratto al rituale dell’addio. Ecco, il mio saluto è qui, nell’ascolto ripetuto di quell’addio negato.


The Shy Retirer (acoustic) - Arab Strap
(sendspace alternate link)

28.11.06

Forse uno stop alle masturbazioni elettro-gitane

Continua la splendida telenovela Villalobos, mannaggia a ‘ttè. Nelle ultime sere avrò passato cinque o sei ore nella gioia tutta solitaria del Fizbeirut. Come, non sapete cos’è il Fizbeirut? Prendete Fizbeast (per i meno addentro, lo strumentale di Fizheuer Zieheuer, detta anche la maledetta marcetta con le trombette), predisponete dei loop estratti da Postcards from Italy di Beirut e in particolare la chitarrina, le trombette e il cantato e mentre scorre lo strumentale giocate con riverberi, filtri, phaser, flanger, delay e beatmash, insomma con tutte le manopole possibili e immaginabili. Una droga. Un vicolo cieco autoerotico con sorrisino scemo annesso dal quale non pensavo di poter uscire. Fino a quando poco fa mi sono capitate tra le mani le parti vocali acapella di Never Be Alone. Sarà una dura lotta.

24.11.06

Zompaggi per tinelli


Le canzoni belle spesso mi arrivano alla fine dell’anno

(oh, ma basta parlare di unz unz! Ma non ascolti più l’indirocche?!)

Ci sono dischi che non saranno mai capolavori. Sono quelli in cui le canzoni sono troppo (aggettivo) o sono poco (aggettivo). Se poi nello stesso disco succedono tutte e due le cose siamo a posto. Immaginate uno strano incrocio tra il piagnucolio fastidioso dei Muse e il pop più illuminato tipo i Phoenix, i Flaming Lips o i gruppi canadesi come Stars o Arcade Fire. Già, perché di canadesi si parla. I Malajube sono canadesi e cantano in francese come se incosciamente volessero rimandare alle origini da cui provengono. Piagnucolano in Trompe l’oeil, ma sono così musicalmente sfrenati che piagnucolano sul rap delle banlieu, sul vaudeville, sulla disco punk, sullo ska, su fraseggi emo-metal (!) e appunto sull’amato pop. Michelle, ma belle! Come dei disgraziati Broken Social Scene umoristi e surrealisti, come degli Arcade Fire a cui sarà pure morta la ragazza, ma che non cantano come se fosse morto loro il gatto. Alcuni momenti del disco sono forse davvero troppo, altri sono davvero poco, l’aggettivo lo troverete sicuramente voi. Però, in tutto questo simpatico terrorismo antiderivativo dell’indie che si appiccica alle orecchie, mi sento di confessare che da giorni canticchio i gridolini di Pâte Filo, faccio l’air guitar wah wah pah pah con il testo strambo del freddo di Monreale –40°C, tengo pose su La Russe, mangio interiora anni trenta-sessanta-novanta su Ton Plat Favori e ballo su Fille À Plumes. Mi stancherò presto, forse, ma quando tutto sarà passato resterà quella non progressione dolcenera di Étienne D'Août, così uguale a tanto altro. Così poco, così troppo.


Passati

L’ultimo appuntamento nella chiesa prevede un’accoppiata sbilenca che però ha il suo senso. I Sodastream arrivano da una specie di odissea. Non contenti di un tour italiano infinito che si estende dalle Alpi a Ortigia, piazzano la data a Bari tra due giorni a Firenze: e non dovevano avere problemi al furgone mentre si dirigevano verso la Puglia? La storia del radiatore bucato, dei pezzi di pizza e di come un contrabasso entri in una macchina a nolo la raccontano in tempo reale sul loro diario del tour (aggiornato via cellulare?). Così, con metà dell’equipaggiamento arrivano a pochi minuti dall’inizio del concerto. Soundcheck con tutto il pubblico fuori dalle porte e via, iniziano subito. Iniziano loro perché non ci sono gruppi spalla e gruppi principali, ma con quegli altri lì della coppia sbilenca forse qualcuno se ne sarebbe andato via subito. E così inizia tutto quello che mi aspetto: le ballate minime massaggiano i neuroni provati, il contrabasso oscilla come un pendolo davanti alla mia prima fila, la voce culla acuta, gli ahum austroboscaioli pure, spunta fuori la sega. Neanche loro si sottraggono al fascino del piano a coda incastrato nel colonnato, e per un attimo non sono spalla a spalla. Dicono che sarà difficile ri-suonare senza un piano ‘così grosso’. È un concerto rotondo come le tazze di thé nei pomeriggi freddi di studio universitario. Oggi che i thé del pomeriggio sono nei bicchieri di carta, sarebbe più appropriato definirli come la tisana prima di andare a dormire. Ma io non preparo quasi mai la tisana prima di andare a dormire.



I Sodastream rivedono la scaletta e cassano i bis perché a mezzanotte si chiude. Dopo di loro i Jackie-O-Motherfucker che aprono qui il tour europeo di quest’anno. Anticipati la sera precedente dal chitarrista fondatore in incognito, che ha suonato brandelli di folk introversissimo in un pub della città, si presentano a un pubblico che si ridurrà via via, con un armamentario che andrà dal giradischi del nonno a un violino cinese che riporta alla memoria i fasti di kim-ki-duk-iana memoria. Non li conosco, ma il loro post folk fatto di dilatati brandelli di tradizione trasmessi su una stazione radio che non si riesce a sintonizzare, suona alle mie orecchie più accessibile di quello dei concorrenti più giovani, sempre troppo hippie-del-cacchio per i miei gusti. Forse perché si muove nei territori di quell’altro post che ascoltavo tanto cinque o sei anni fa. In più tra facce boscaiole e secchione e un componente dei Montefiori Cocktail in incognito, spunta fuori lei, questo meraviglioso fenicotterone bruno che fa le peggiori cose che di solito odio a morte in un concerto: si toglie gli stivali, accende le candeline sul palco, si accovaccia con i piedi sulla sedia, volge le spalle al pubblico al bordo del palcoscenico e urla come una pazza senza microfono trattenendosi dal ridere, sale in piedi sulla sedia per suonare i campanelli, strimpella trentadue strumenti a caso e porta questa gonna ascellare dal taglio appartenente a chissà quale epoca che confuta le proporzioni vitruviane. Come non amare Eva ‘Inca Ore’ Salens? Per il resto, il concerto si compone di una lunga suite iniziale e di tre brani dalla durata più contenuta. Il chitarrista fondatore pare infastidito dal fatto che i tempi siano stretti e non perde occasione per ricordarlo. Tanto che alla fine spara lì un veloce ‘finito il tempo è stato bello basta ciao’ e scappa di scatto lasciando interdetto il pubblico dimezzato.


(Un set fotografico esaustivo su Sodastream, JOMF e fenicotterone lo trovate qui)


Dopo giorni di live e una pausa ieri per scrivere il post seguente, il weekend sarà all’insegna del clubbing. Per consolarmi del fatto che la prossima settimana non si parteciperà al casino della devastante serata a cinque euro (ripeto, a cinque euro!) con Mr. Oizo, Kavinski, Feadz, Uffie (eh, vi tocca) e Scuola Furano e al compleanno di Rockit in cui Violante ‘sia dannata per aver ammazzato Aldo Nove con quello lì che non voglio nemmeno nominare’ Placido farà da supporto ai dj set dei nostri beniamini Enver e Polaroid, affogherò il mio dolore stasera in un dj set di Peter Hook a cui si va (nonostante il posto che prevede la riduzione a 10 euro(!) prima di mezzanotte) solo per vedere se il resident Lillo in apertura metterà di nuovo Audion e Fizheuer Zieheur come nel dj set della prima notte di Plug In a cui non sono stato, e domani in una cosa più indie come Tigertown. Un’overdose giustificata anche dal fatto che l’unico appuntamento in vista da qui alla fine dell’anno sarà la sola Ellen Allien a metà dicembre.

20.11.06

Just Like Christmas Sugarcubes

Invidio un po’ tutti i fan di Sufjàno Santo Stefàno che già da agosto rompono le palle con l’atmosfera natalizia. Quasi quasi corro su in soffitta e insieme all’albero porto giù la canzone di Natale che i Jesus And Mary Chain tirarono fuori da Birthday dei Sugarcubes, per il compleanno del tizio che dava il nome al gruppo.

Dove la metti, sta

“Dove lo metti, sta” è un modo di dire che mi piace molto. C’è chi si fa enormenente condizionare dai luoghi e c’è chi invece cerca di tirare sempre fuori il meglio da essi, perché in fondo il dove conta, ma può essere quasi sempre in subordine al resto, al chi, al cosa o al come. Il perché lo lasciamo a quelli senza fantasia. Barbara Morgenstern è una che dove la metti, sta. Non a caso l’ho vista suonare una volta all’Old Fashion di Milano, una discoteca dove festeggiavano il compleanno le letterine quando esistevano, e l’altra ieri all’Auditorium Vallisa di Bari, una chiesa sconsacrata dove i concerti si guardano seduti e che incita al contegno più che ad un ascolto divertito. Barbara Morgenstern, sorridente come al solito, dice che è strano cantare in una chiesa ma non perde tempo a trovare il lato positivo. Indica il pianoforte a coda e coglie l’occasione per suonare con quello i pezzi del nuovo disco, accompagnata da un batterista e dalle elettroniche varie via laptop. Certo se The Grass Is Always Greener riesce benissimo nella sua calda circolarità sentimentale, altrove si rimane dalle parti del lavoro di studio oppure si scade nel tori-amos-esimo di una The Operator non troppo riuscita. I pezzi di Nicht Muss vengono risolti invece attraverso un organo simulato e delle ritmiche meno scattanti che nei precedenti live. Il piano ritornerà in uno strumentale alla Orbital dal primo disco e in una tenerissima e classica Ohne Abstand alla fine. Il pubblico apprezza rumorosamente. Barbara Morgenstern sorride e pensa a quanti posti strani e belli le sono capitati sulla strada. Che siano stati discoteche modaiole e cafone o austeri edifici (ex)religiosi.

19.11.06

The rock of impermanence

Il mio percorso musicale non è lineare. Di solito a un certo punto succede qualcosa e il futuro non è più quello del giorno prima. Anche il passato ne risente, vengono riletti i rapporti di importanza tra le cose, cambia la prospettiva, si va oltre, avanti o indietro che sia. La mia disorganicità in musica è come la pietra arenaria, un ammasso il cui senso è forse solo il tempo che compatta il tuo sbriciolarti progressivo, dandoti un’illusione vana di solidità. Fennesz è sempre stato da queste parti, a mettere in musica il mio amore per la melodia più semplice e sentimentale, quella pop a sei corde in riva alla spiaggia, con l’orecchio delle certezze infrante, di un computer programmato per andare a leggere in una zona di memoria che non esiste. Un mondo di conchiglie preistoriche e punte di selce finite per sbaglio in un museo d’arte moderna. In un auditorium forse sconsacrato verde e rosso, assorto nell’eco distorto della sovrapposizione di strati di silenzio.



Fennesz dal vivo non cerca mai un contatto visivo con l’altro essere umano: il suo sguardo gelido e malinconico fissa ora lo schermo del laptop, ora una manopola, ora le sei rette paral.lele che si incontrano solo all’infinito. Non sa comunicare che così, con un flusso di alterazioni in cui l’accordo più semplice della storia diventa il più tormentato da se stesso, in cui il rumore danza sinuoso tramutando la ruvidità in grazia. Nemmeno un’immagine sullo sfondo segna il senso del vagare e il pubblico è ammutolito. Solo tra suoni. Studio le sue mosse gravi tra computer e chitarra. Suona la chitarra in maniera molto più accessibile di quanto mi aspettassi, a tratti forse troppo, lambendo le atmosfere di certo Angelo Badalamenti. Ecco nel suo concerto ho risentito un po’ degli eccessi di chitarra elettrica distorta rispetto all’amata chitarra acustica trattata della prima produzione. Alla fine un enorme applauso non si interrompe fino a un bis secco e struggente. Lui ti guarda solo quando non suona, e accenna quel sorriso un po’ triste e diffratto che da sempre associo alle sue canzoni.

16.11.06

Tutti contro tutti (aiam aiam)

Nel wrestling il tag team è quando si lotta in coppia. Formalmente non si può stare in due insieme sul ring contro il singolo avversario, ma quando si passa la mano al compare di solito si coglie l’occasione per mazzolarlo un po’ a quattro mani, finché l’arbitro non interviene. Il passaggio di mano non è solo metaforico, si batte proprio il cinque, palmo contro palmo. Insomma, quello che è successo ieri sera quando Nanni Moretti usciva dalla sala dove aveva appena visto un film algerino-francese e io entravo per la prima nazionale di Nacho Libre. (ma dico, o cinefilo navigato, l’apparizione di Moretti è ancora un evento degno di scatenare le digitali, le strette di mano e le battute al bancone del bar?)

Nacho Libre è il tag team del regista di Napoleon Dynamite, dello sceneggiatore di School Of Rock, di Beck e Danny Elfman e di Jack Black, il Franco Franchi sovrappeso del cinema rock’n’roll. Un frate scandinavo-messicano sogna la fama dei luchadores (i lottatori del casereccio wrestling locale), la via per migliorare la condizione degli orfani del convento e per conquistare l’amore di Suor Encarnacion, una versione carina della Penelope Cruz di Tutto Su Mia Madre. La riuscita del tag team però è altalenante, tanto che sembra più un tutticontrotutti. Jared Hess confeziona un tributo all’estetica del cinema di lucha messicano degli anni Sessanta e Settanta (cfr. la serie con protagonista Santo, citata nelle interviste dallo stesso regista), ricreando perfettamente certe ambientazioni e facce (anche quando mascherate) con il tocco surreale e malinconico del precedente film. Alle trovate, visive e non, non corrisponde un pari controllo sulle altre parti: Black, quando non esagera con l’ormai solito armamentario, non copre i vuoti e i cali di interesse (soprattutto della parte centrale) suscitati da una sceneggiatura pessima, praticamente la copia carbone di School Of Rock con qualche peto in più. Il post-demenziale di Hess viene insomma sommerso e annacquato dalla convenzionalità del resto della cricca.

Persino la colonna sonora è un tag team troppo composito e vittima di scazzi: il regista vuole Beck, che si vede cassare dalla produzione alcune canzoni; la produzione chiama Danny Elfman che al posto di scrivere qualche pezzo compone una colonna sonora completa che finirà solo in parte nel film; a quel punto il regista si impunta e non vuole che Beck sia rimosso dai credits, ma altrettanto fa Elfman che chiede di non figurare più nei titoli del film (Batman-Prince-Elfman anyone?), e via così fino all’accordo finale. In più, accanto a pezzi notevoli come il tema alla Oliver Onions di Religious Man del gruppo messicano anni Settanta Mr Loco, figurano inspiegabilmente pezzi brasiliani come Irene di Caetano Veloso o una cover di Bat Macumba. Infine non manca il solito spazio per il meta-rock di Jack ‘Tenacious D’ Black, che nel pre-incontro finale intona una canzone ad Encarnacion che scatena l’ovazione della sala. E che, per carità, fa ridere ma fa anche sorgere il dubbio con tutto il film che il nuovo John Belushi stia lentamente diventando il nuovo Robin Williams.


14.11.06

I don’t love (what she’s) scioppin’

Non sono io, sono loro che mi ci mandano. Una trasferta inaspettata, coincidente guardacaso col Torino Film Festival e con due prime nazionali attese da queste parti, è anche una trasferta di tre giorni infognatissimi. Per questo mi ritrovo a correre dal lavoro al cinema, passando per il VacanzaLocanda albergo, con la speranza di trovare ancora biglietti giustificata dal fatto che qui gli sconti al cinema li fanno il lunedì. Viva la gente che lavora, viva gli snob che “ossignur la figlia di papà”, viva tutto. All’agile fila di cinque minuti per la biglietteria segue però una fila di oltre mezz’ora per entrare in sala. Tutta colpa della rivoluzione francese. Se non ci fosse stata, mi sarei evitato questa doppia sudata. (di seguito potrei dire cose che non volete sapere su una famosa regina francese, Sofia Antoniettola)

Lapo a due file dalla mia calamita la mia attenzione da quinto-e-anche-forse-sesto-stato. Passo gran parte del film chiedendomi quanto possa identificarsi con Kirsten Dunst. I volti sfatti davanti al sole del mattino, l’etichetta e i Gang Of FourFour=Sedici, i giovani e i vecchi. Io. Non. Volevo. Essere. Qui. Nemmeno io, a dire il vero. Mi rompo. Sofia Antoniettola è il Male di queste due ore. Luigi Augusto è la vittima. Luigi Augusto è un geek ante-litteram, voglio diventare anch’io un appassionato di serrature, catenacci e chiavistelli. Sofia Antoniettola si abboffa delle peggio cose e non le spunta neanche un brufolo: cos’è, Kevin Shields ora è un dolcificante con poche calorie? Sofia Antoniettola è anche la regista: Sofia Antoniettola guarda dal finestrino della carrozza con musica fika in sottofondo! Sofia Antoniettola è ripresa in controluce! Sofia Antoniettola si abbandona su un letto di merletti/fiori/erba con sguardo estasiato e/o perso! Al primo uso si pensa ad un auto-rimando alla precedente e apprezzata produzione. Al settimo finestrino si capisce che in realtà i francesi non usarono una ghigliottina, ma il primo prototipo di alzacristalli automatico.

Il film si prende gioco di tutta la teor-etica del post-moderno: Aphex Twin ha scritto quelle cose davvero nel 1780 e i Radio Dept. hanno inventato il feedback. Per il resto è tutto un capriccio di Sofia Antoniettola, mica crederete alla balla della decontestualizzazione della figura storica. Sofia Antoniettola è una regina, vuole i Cure in una scena montata alla cazzo del filmino del matrimonio e li sfuma con la zappa. Sofia Antoniettola non ha bisogno di dire cose intelligenti, ha bisogno di un altro paio di scarpe perché sta male. I Phoenix sono un paio di scarpe. Il militare svedese è un paio di scarpe. Rousseau è un paio di scarpe. Mi fa male il callo al piede che mi è venuto correndo qui con gli stivali dal lavoro. E non ho un altro paio di scarpe da mettere domani.

Forse mi annoia la piattezza dell’ennesimo orpello, un turbante di riccioli biondi con gli uccelli attacati con la coccoina, una bambolina semovente che parla inspiegabilmente francese o, chessò, un altro paio di scarpe. I collezionismi altrui sono la fiera del tedio, in fondo. Sofia Antoniettola intanto azzecca due o tre immagini (la maschera di veletta, il mattino dopo la festa, il tetro funerale filiale) e canna il resto, soprattutto la camera in movimento e gli eventi che segnano l’evoluzione della storia, trattati con la leggiadria della telenovela piemontese o di Paquito e Chiquito (Sua Maestà, il Re è morto! Sua Maestà, sua madre è morta! Sua Maesta, sua madre era la Bastiglia, ma è comunque morta!). Mi rigiro i pollici, sollazzato unicamente dal militare svedese che a un certo punto cita David Hasselhoff come miglior cantante del suo paese. Fortunatamente arriva il popolo. Anche lì però è il festival delle occasioni perse: tipo, se fossi stato io Max Antoniettcar, avrei fatto lo stage-diving sui forconi mentre in sottofondo suonava Revolution di Molella. Invece Sofia Antoniettola si inchina, come in uno di quei film con Tyrone Schneider e Romy Power che guardavano i miei genitori quand’ero piccolo. Meno male che arrivano presto i titoli di coda, non prima di un altro finestrino. In fondo, nonostante il ritorno a piedi fino in metro e un misero pezzo di focaccia ligure col salamino calabrese per cena, c’è il menù dei cuscini* che mi attende in camera.
(Prossimo episodio: Max Antoniettcar all’anteprima di Nacho Libre)
*magari domani metto una foto del menù, se non mi hanno rubato la digitale che ho dimenticato sul tavolo

10.11.06

‘Cause we’re living in a world of fools (watching the movies pt. 2)

Riprendiamo i racconti in tre righe dei filmaggi della rassegna, per i picccini.

Quinta giornata: Lontano da qui
Shangai Dreams (di Wang Xiaoshuai): più lontano da lì non potevamo essere. Causa impegno lavorativo, saltiamo la proiezione. Nessuna ironia sulla possibile lentezza del film, ma per noi che aspettavamo fuori dalla porta per entrare sembrava non finire mai. Se non altro, dai commenti origliati, sembra che almeno fosse controverso.
Scena chiave: sui titoli di coda esclamo Rivers Of Babylon! Boney M! Anna dai capelli rossi!
Hawaii, Oslo (di Erik Poppe): uno strazio, probabilmente la cosa peggiore che ci sia toccata in sorte da qualche anno a questa parte. Un minestrone norvegese andato a male per il caldo di struttura corale, angeli dai sogni premonitori, il figlio di una sveltina (ahaha) incestuosa tra Forrest Gump e Lola Corre, neonati con malformazioni cardiache usati con la grazia di un pomeridiano della Rai, montaggio attraverso immagini caleidospiche, il tutto musicato da un fastidioso Piovani. La gente rumoreggia visibilmente e a tratti commenta a voce alta. Più che pessimo, molesto.
Scena chiave: la piuma svolazzante e lo zoom out da dirigibile del finale, appunto

Sesta giornata: Fantasmi
La Spina del Diavolo (di Guillermo del Toro): la giornata dedicata al brivido si apre con un tenero (non)horror deamicisiano prodotto da Almodovar. Sullo sfondo delle ultime esplosioni della guerra civile, un orfanotrofio ambrato di deserto il giorno e nero di freddi sospiri la notte accoglie i bambini della causa che sta per perdere. Le apparizioni di un fantasma bambino sospiroso ai bambini vivi, si intrecciano con i tradimenti e le miserie vicendevoli dei grandi. Il bilanciamento del regista salva il film dal rischio del buonismo in favore di una grazia fiabesca sulle corde dell’horror di formazione king-iano. Alla fine applausi del pubblico.
Scena chiave: le amate lumache senza guscio. La faccia bellissima del dottore che reso sordo dalla ferita chiede i suoi dischi per attendere l’arrivo del cattivo
Shutter di Banjong Pisanthanakun and Parkpoom Wongpoom: ancora un altro film con il fantasma strisciante di una pallida ragazza orientale dalla faccia strana e dai lunghi capelli corvini che si manifesta attraverso oggetti di uso comune (foto e polaroid) per ottenere una qualche vendetta? Sì, ancora, yawn, nonostante la svolta dell’immagine finale in cui lo spettatore sprofonda nella poltrona per il peso sulle spalle delle ex lasciate in malo modo. E però il film mi convince della meccanicità fisiologica di molte nostre paure: il trucchetto, con poche variazioni, per tutto il film è stato sospensione seguita da botta di suono e primo-piano possibilmente molto sfuggente col nostro fantasmino. Robe di quelle che sai sempre quando sta per apparire, dici che palle e subito dopo sobbalzi sulla sedia, come se fossi un enorme ginocchio colpito da un martelletto dove sa.
Scena chiave: il trans della popò

Settima giornata: Springtime for Hitler
Hooligans di Lexi Alexander: ma che c’entra Hitler con gli hooligans? Oppure, ma che c’entra Frodo con gli hooligans? E perché la regista ha smesso di fare la kick boxer? Boh, trallallà, siamo gli uligàn. Si rimpiange Ultrà e Tifosi, per colpa di un apologo incentrato sulla tesi “Siamo tutti (o almeno gli inglesi sono tutti) hollygan”. Frodo cerca di fare la faccia del cattivo da metà film, ma gli riesce solo quella del “mi si è spezzata un’unghia”. Il parallelismo firm / fight club è poi goffo e tirato per i capelli. Ma entravo al cinema prevenuto, sotto l’effetto di una cioccolata calda fatta col Modica al peperoncino.
Scena chiave: l’uligano solo che provoca nello stadio senza recinzioni (come tutti quelli inglesi) i tifosi dell’altra squadra in solitario travestito da accreditato stampa sul campo
Le Mele di Adamo di Anders Thomas Jensen: non smettevo di ridere, giuro. Un neonazi viene mandato a svolgere i servizi sociali in una comunità guidata da una specie di Ned Flanders violentato da piccolo con figlio spastico e famiglia deceduta in varie forme e un tumore fulminante in testa che si è arreso al suo glorioso certo-certosinismo. La comunità è composta da un arabo rapinatore fangulo strozi di pompe sukia di benzina che ha appena imparato la lingua, da un grassone tennista fallito riconvertito a stupratore cleptomane alcolista, da una giornalista ambientalista sinistroide alcolizzata che aspetta un figlio probabilmente handicappato e da un dottore col vizio della privacy. Humour nero a palate: peccato per il secondo tempo incespicante, ma comunque ovazione finale.
Scena chiave: tutto quello che provoca la faccia incredula del nazi-skin (compresi i Take That)

Bonus Track:
How Deep Is Your Love - Take That

ps: prosegue la telenovela “Prima di Maria Antonietta”. La settimana prossima la passerò in trasferta e perderò la prima a gratis di Bari. Ci sarebbe quella al Torino Film Fest, ma dubito di potercela fare.

7.11.06

Ritorno A Casa (Koze)

Il post sulle camere dei dj ha colpito l'immaginario di molte persone. A distanza di qualche mese, ne ritorno a parlare perché una delle stanze più discusse, quella del panorama alpino di DJ Koze, prende vita in un video virale degli International Pony (lui, Cosmic DJ, Erobique) in cui da veri secchioni si cimentano in una cover di Flashback di Laurent Garnier illuminati dalle lucine di Natale e da una spacchiosissima sirena.



Bonus Track (chettelodicoafare):
Our House (Ada Remix) - International Pony

6.11.06

Silent Shout

Prima o poi sarebbe arrivato qualcosa con cui spendere il gioco di parole


Need To Shout (Mocky Remix) - Architecture In Helsinki
Forever Indebted (Mocky Remix) - Shout Out Out Out Out

Apri un varco, di luce, sui miei occhi

In città c’è la rassegna e allora come non farne cenno, oltre per il fatto che grazie all’abbonamento potremmo vedere a gratis in anteprima Maria Antonietta, se non fosse che verrà proiettato in contemporanea col concerto di Barbara Morgenstern. Comunque, di seguito un breve resoconto dei primi tre giorni

Prima giornata: Forme del Desiderio
Bombon El Perro (di Carlos Sorin): l'uomo meno espressivo del mondo (detto anche "quello con la faccia del coglione") riceve un cane sensibile che gli cambierà il destino. Alla fine il cane riesce a trombare nonostante la sua sensibilità.
Scena chiave: la citazione da Men in Black
L'Arco (di Kim Ki Duk): un vecchio sviolina sul trespolo di una barca delle nenie insopportabili per farsela dare facile da una quindicenne in mezzo al mare. Kim Ki Duk al solito sottolinea la superiorità orientale, capace di amare, litigare, mandarsi a fanculo e riconciliarsi senza finire i minuti della promozione Wind.
Scena chiave: nascondo il coltello sotto il tappeto, sennò poi non me la dà
Mary (di Abel Ferrara): un film tratto da una canzone dei Gemelli Diversi è troppo anche per noi. Abbiamo fame e ce ne andiamo da Di Cosimo a farci prendere a parolacce.
Scena chiave: il panzerotto come antipasto

Seconda giornata: Lingua Originale
Il Tempo Che Resta (di Francois Ozon): il ragazzino di Comte d’été, cacchio, ecco chi era! Un fotografo gay ha i giorni contati e decide di morire sulla spiaggia, come in un film francese. Siccome però è un film francese di Ozon, prima dorme con la nonna nuda Jeanne Moreau, poi ha un flashback di quando da piccolo pisciava nelle acquasantiere e poi mette incinta Valeria Bruni Tedeschi durante una cosa a tre col di lei marito sterile.
Scena chiave: il pubblico etero meno esperto scopre che i gay fanno l’amore anche guardandosi in faccia
13 di Gela Babluani e Tough Enough di Detlev Buck: abbandoniamo, in teoria momentaneamente, perché il film delle tredicenni che si fanno il piercing sulla lingua l’abbiamo già saltato quando uscì nelle sale. Nella realtà non torneremo per il classico d’azione tedesco dagli stessi autori di Sorella Lotte.
Scena chiave: il medaglione con la zampina da Enzo e Ciro

Terza giornata: Young Americans
Thumbsucker di Mike Mills: non riusciamo a presenziare causa compleanno di infante, ma giuro che anche lì c’erano tanti che si ciucciavano il pollice.
Scena chiave: ma la natalità non era zero?
Il Calamaro e la Balena di Noah Baumbach: un film andersoniano, non a caso prodotto da Wes Anderson. Le giacche di velluto intorno ridono rumorosamente di se stessi, come se vedessero a casa con gli amici un filmino in super 16 del loro divorzio anni Ottanta. E poi c’è Jeff Daniels, attore secondo me amabile ma sottovalutatissimo fin dai tempi di Scemo e più scemo.
Scena chiave: lo sperma appiccicato ovunque dal bambino
Napoleon Dynamite di Jared Hess: Ah, la sana e classica demenza, in camera fissa. Le giacche di velluto abbandonano alla spicciolata durante il film. Grasse risate e alla fine immaginiamo la gara a chi trova il commento giustificatorio più intellettualoide e meno filisteo. Per la cronaca, la bellona (cessa anzichenò) della scuola è la sorella di Hillary Duff, mentre la protagonista femminile Tina Majorino recitò nell’indimenticato classico tappabuchi di Canale 5 Corrina, Corrina.
Scena chiave: troppe, dal Rex Kwan Do al lancio della bistecca in faccia

Quarta giornata: Pop Art
Face Addict di Edo Bertoglio: oggi unica proiezione è questo documentario sulla downtown di fine anni Settanta, primi anni Ottanta. Blondie, Wahrol, Basquiat e compagnia bella. Io però devo andare a pagare l’affitto. Magari si riprende dalla quinta giornata.
Scena chiave: la madre novantatreenne della mia padrona di casa che mi chiede le solite cose con un accento materano strettissimo

4.11.06

Piangina

Due sere fa agli Europe Music Awards di MTV We Are Your Friends di Justice vs Simian ha vinto il premio come Miglior Video, battendo il balletto degli OK Go, le macchie cantanti di Crazy, la solita menata autoironica da due lire di Pink e sopratutto Kanye West. Mentre veniva assegnato il premio a distanza (i due Justice sono in tour negli Stati Uniti), Kanye West è salito sul palco e ha cominciato a piagnucolare, dicendo che il suo video è costato unmilionedidollari, c'era dentro Pamela Anderson, lui veniva sparato con un razzo su un canyon e "se questo video non vince, la manifestazione perde di credibilità". Ora, lungi dal dedurre elucubrazioni su come questo premio abbia celebrato la viralità indipendente e cazzona a fronte dell'industria pseudoilluminata, non finisco di stupirmi (e di ridere) per come persone universalmente, e forse a torto, ritenute intelligenti siano capaci di ricoprirsi di ridicolo in pochi secondi con una goffagine che non si può addebitare solo alle sostanze.


(il video è preso da iFilm perché gli upload su Youtube sono stati prontamente cancellati)

2.11.06

Poi non è vero che sono proprio un cretino

Mentre chiudo il portatile dopo una pesantissima giornata lavorativa non so se deponga più a mio sfavore la mia faccia da cretino mentre canticchio la Bongo Bong di Robbie Williams, o quella da demente mentre mi autobullo di avere inventato dopo il Two-Step e dopo il Dub-Step, signore signori, il Twee-Step! (altro che Simon Reynolds...)

What's wrong Rico?



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Ho passato il pomeriggio (ndBR: di due giorni fa) a sentire Fizheuer Zieheuer e What's Wrong My Friend e nonostante mi sia passata addosso tutta la banda del paese, nonostante l'orchestrina jazz, nonostante i pigmei e i titoli gustosamente nonsense alla Toti "Topo topo / senza scopo / dopo te / cosa vien dopo?" Scialoja, posso definitivamente affermare che io Villalobos preferisco non capirlo, perché, dovendolo capire, forte è l'idea che ami (anche lui) prenderci (prenderli) per i fondelli. Nonché, non essendo appassionato di troche, quando ascolto Rico ("Hola Chico!") l'indice freme sullo skip e molte volte (tra di noi, sempre!) ha la meglio, sui buoni propositi, sulla buona opinione pubblica, sul fatto che dietro quella password possa esserci qualcosa che giustifichi più di un pomeriggio o di una notte con lui.

(Potrei dirvi cose simili anche di Luciano, ma lui lo odio e lo amo perché ogni volta che sento la sua versione per orchestra robottina della colonna sonora di Amélie mi commuovo come un agnello e non mi vien voglia di cavare un occhio col cucchiaio ad Audrey Tatou)

30.10.06

Iniuriam qui facturus est, iam facit


Io non sapevo che in Italia ci sono i motel, ma i motel quelli che vedi nei film americani con gli ingressi a schiera e le persone che rintanano le loro losche avventure all’interno di quattro stelle e quattro mura ricoperte di specchi che rimbalzano specchi che rimbalzano altri specchi. C’è anche lo sciampagnino nel frigo bar, dieci euro / trenta centilitri. Di notte le macchine si affiancano davanti alle porte, di giorno scompaiono, formalmente perché siamo accanto all’aeroporto e qui si è solo di passaggio. Uno strano materiale impedisce l’uso dei cellulari all’interno delle camere, accessorio tacitamente provveduto, ma le stanze non tacciono i sospiri lascivi di una donna, o forse di uno schermo televisivo a pagamento, due numeri più avanti. Per cena troviamo un ristorante condotto da una famiglia circense. Mentre l’entrecot al pepe verde mi si scioglie in bocca dimostrando con grani freschi e non secchi la mia inettitudine davanti ai fornelli, Chuck Norris mi sorride in foto abbracciato ad acrobati in rosa lamè.


Percorro la strada per lo spazio a piedi, come l’altra volta. Costeggio i capannoni fantasma della Facit e di altre aziende dalle insegne con caratteri tipografici che ti raccontano lo scorrere del tempo come rughe accanto agli occhi. Chi è fallito ha lasciato le luci accese dentro, tanto non pagherà mai quella bolletta. La macchina di un metronotte, forse solo per abitudine, entra dentro un recinto in cui si ammassano container marchiati “Traffici Internazionali”. Ogni volta che prendo l’autobus che mi lascia all’inizio di questo viale tramontato penso che arriverò in ritardo e invece, alla fine, mi trovo sempre in anticipo in un locale vuoto dove un ragazzo sistema un riflettore e altri montano un banchetto con magliette e cappellini. Temporeggio all’esterno impedendo visioni remote di Ballando con le stelle e poi sistemo la mia solitaria presenza tra un muro di pin-up e un tavolo con una rossa doppio malto. La via al basso costo oggi è La Rossa Moretti alla spina, ma prima o poi i cinesi ci fregheranno anche l’alta gradazione alcolica, oltre che l’industria tessile.

Lo spazio si popola stanco e lento, di gente di una certa età, di un gruppetto di erasmus tedeschi, di molte monadi amiche della colonna o dello sgabello. Un cocktail a base di arancia chiede se il posto al mio tavolo è libero. Una birra bionda avanti è vestito elegante-ma-non-troppo come me ventiquattrore prima. Un niente sul tavolo manovra una digitale mentre la sua gonna a fiori non svolazza in saluti ai tremendamente belli. Sembra di stare in un Lost In Translation dove non incontri mai Scarlett Johansson, il tempo scorre e mi convinco che i futuristi russi sono stati bloccati alla dogana, come l’altra volta successe alle loro magliette. Greenspan cammina intorno con una maglietta consunta e passi sempre troppo lunghi che lo fanno oscillare come se fosse la mia palla antistress XXL. Didemus scia quasi sculettando con camicia e pantaloni costruiti su di lui. O conoscono bravi fotografi o negli ultimi mesi hanno avuto un tracollo fisico: Didemus invece di assomigliare a uno dei miei fratelli (o meglio, a uno dei miei fratelli se i miei fratelli non avessero optato per un’inclinazione cromosomica tendente al ceppo paterno) sembra il cugino di Matteo Salvini; Greenspan tocca vette finora inesplorate persino dai cantanti di Arab Strap e Piano Magic. In più si portano appresso uno skinhead in giubbotto di pelle e maglietta dei Motorhead, che tiene il suo cuscino preferito dentro una batteria durante i viaggi.


Mi colloco nella posizione “Sono la persona che qui tiene più a questo concerto”. Fin dall’inizio con The Equalizer, la batteria vera si aggrappa ai battiti programmati e il basso con le corde conferisce appena un respiro agli arpeggi dalla scrittura sintetica: forse vogliono dare carne e sangue ai bozzoli di insoddisfazione silicea, ma ne viene fuori uno straccetto di umanità che cerca di aggrapparsi alla scansione del clock per sopravvivere. Seconda, subito, Teach Me How To Fight. Greenspan imbraccia la chitarra e mi insegna di nuovo, se ce ne fosse bisogno, che questa non è una canzone da finali, ma una sulla rinascita, su corpi che dimenticano parole e sangue sulle magliette e tutti i suoni distorti impercettibilmente. Didemus preme lo stop e il restart, mentre piccoli vibrato percorrono le sei corde elettriche. Greenspan tiene gli occhi chiusi mentre canta, ma solo perché nel frattempo il sole sulla sua faccia è diventato troppo forte e lo acceca freddo. Il primo disco ricomparirà solo con Birthday, per il resto ripropongono senza troppe variazioni l’atmosfera meno danza del disfacimento amoroso più synthpop dell’eterno vagare tra non luoghi del secondo. Le erasmus tedesche si lanciano persino in balli, mentre Greenspan a un certo punto farnetica di fontane di Brio (non Sergio, non Blu). Alla fine i plin plin di FM dondolano tra le casse a destra e quelle a sinistra, mentre il falsetto sussurra di ritorni a casa e di “nessun altro suono, finché non dirai (che sei) ok”. Quell’altro suono sarà uno “Sweet one, sweet one, under the sun” che parte come un anti-finale, aperto e ciclico a differenza della precedente chiusura, e continua infinito con bordate di chitarra a squassare il contenuto dei nostri petti. Resto un altro po’, per raccogliere le idee, confuse più che prima. Alberto Campo mette dischi mentre continuo a ripetere in favore di camera “Tempo di relax, tempo di Moretti”, con intensità. Poi decido di impiegare lo spostamento indietro delle lancette del mio orologio camminando a ritroso tra le rovine del manifatturiero italiano.

25.10.06

Hello. I wrote a song for you called “When I’m Not Around” and my name is not Billie Joe

Il qui presente da domani si trasforma in palletta da flipper in su e in giù per il continente.

Nella fattispecie:
- Giovedì: sveglia alle cinque per trasferimento a Torino via mezz’ora a Fiumicino. A Torino il sottoscritto conoscerà importanti rivelazioni circa lasuavitadal2008inpoi. In serata seguirà sistemazione in alberghetto a Malpensa che impedirà presenza ad aperitivi esclusivi o partecipazione al concerto delle Erase Errata al Magnolia (Magnolia is the new place to be?).
- Venerdì: sveglia alle cinque per trasferimento ad Hannnover con aereo personale per una specie di Giochi Senza Frontiere. Andiamo ad ammirare la nostra nuova creatura, sperando che i concorrenti tedeschi non ci facciano troppo male con la loro nuova creatura. Questo respingente su cui batterà la palletta è quello che giustifica la successiva parte, detta anche ‘dei due giorni all’interno del quale ci sarà la serata che andremo a identificare con la specificazione dei brividini di Massimiliano’. In serata si rientra a Malpensa, si suppone nello stesso alberghetto di cui sopra atto all'ostacolo di aperitivi ancora più esclusivi o della visione di Willard Grant Conspiracy alla Casa 139.
- Sabato: sveglia alle cinque solo per uniformità di scrittura, visto che in programma c’è soltanto un banale Malpensa-Milano Centrale-Torino Porta Nuova. In serata The Russian Futurists apriranno il concerto degli amati Junior Boys. Ricordate, i Junior Boys sono quelli che a voi non piacciono perché non avete mai sentito/capito i Blue Nile e perché non andate d’accordo con il concetto di strobo applicato al romanticismo. Un’attesa che montava da ben due anni e che è culminata in questo consueto incrocio di coincidenze. Le mie aspettative sono enormi, tipo che ho messo in conto la frantumazione scomposta del mio organo atto alla generazione della circolazione sanguigna.
- Domenica: sveglia alle cinque perché ormai si è assunto il fuso orario del triangolo delle Bermuda. Si ritorna a Bari, pronti per nuove e mirabolanti avventure come l’altro evento atteso da infinite estati (Fennesz), la sempre caruccia Barbarella Morgenstern, il come eravamo dei Sodastream, Langhorne Slim (se ci scappa) e una stagione dello Zenzero che vorremmo con qualche nome di quelli che sarà al Club To Club di Torino più che con i soliti reduci di trip-hop e jungle.

(Siccome per qualche giorno non potrò passare da queste parti, vi lascio con un’anteprima: io e Damien Rice siamo al momento tra le persone più distanti dal punto di vista musicale. Ma poiché così potrebbe non essere per voi, favorite l’ascolto del pezzo meno simile all’atmosfera del disco, incentrato sul solito topos “'O sciore cchiù felice è 'o sciore senza radice” e fornito attraverso la lussuosa cornice della versione business di prova di Yousendit)

Rootless Tree – Damien Rice

23.10.06

Cereali per cigni

In un ideale chiasmo con la dizione volatili per diabetici, in questo post non si risponde al fondamentale interrogativo “Ma ora che i Klaxons sono sulla copertina dell’NME e vengono ballati dagli indiefighetti di ogni dove, ci stanno meno sulle palle di quando erano il pastrocchio programmatico-virale di un gruppetto di fuoricorso a Filosofia?”. Il tema del post è invece “Tutti remixano i Klaxons e allora perché non lo faccio anch’io?”. Pensate, ieri stavo guardando il Ring a Buona Domenica e litigavano su chi aveva preparato il remix più bello. Poi volevo mangiare delle stigghiola prima di lasciare la mia terra natia, ma lo stigghiolaro aveva abbandonato il suo banchetto e si era trincerato in casa davanti alla sua versione craccata di Acid perché non riusciva a trovare il finale. Infine il mio pullman per Bari è partito con mezz’ora di ritardo e forse immaginate cosa stava facendo l’autista. Detto ciò non resta che mettervi a parte del mio remix, che come al solito in realtà non è un remix ma un mashup (sponsorizzato dalla Cameo), ovvero il remix che avrebbe fatto Vitalic di From Atlantis To Interzone se non si fosse messo in mezzo Lady B. La resa è direttamente proporzionale al volume di ascolto, anche perché così notate meno la consueta produzione fatta col mignolo della mano sinistra. Feedbackup riesce dove fallisce Push Push, il nuovo singolo di Den Harrow. Provatelo a colazione!


22.10.06

Febbre

La mia febbre a trentotto non apprezza il dubstep come sottofondo. Distant Lights però non è dubstep, nonostante suoni come il sud di Londra allo stesso modo del dubstep, nonostante contenga una voce maschile stregata allo stesso modo del non amato voodoo metropolitano di Spaceape con Kode9, nonostante le batterie siano coltelli che si affilano risplendendo nel buio allo stesso modo dei pattern figli del 2 step che mi fanno storcere il naso. Distant Lights è fatta dei gesti rallentati e sfocati dei trentotto gradi che ho addosso. Ripetuti e dimentichi della loro ripetizione. Se non fosse così South London, direi che puzza di tortellini in brodo, thé caldo al pomeriggio e camomilla prima di andare a letto. E riposo, tanto riposo, signora mia. La mia febbre a trentotto assomiglia alla discografia di The Field, anche.

Distant Lights - Burial
Over The Ice - The Field
Come Out (The Field Remix) - 120 Days

21.10.06

Run Run Run To Me

Visto che poco fa ho glorificato le Pringles, perché non citare la Nike? Dura più di quanto dice il titolo. Sembra un djset di James Murphy. Le andature sono diverse ed è utilizzabile per regolare il passo durante il jogging. Più che il nuovo pezzo degli LCD Soundsystem, un compendio della DFA dell'ultimo anno. E per il momento non si è ancora venuto a sapere se le transizioni tra le differenti sezioni siano state cucite da bambini indonesiani.

Rane





Frogtoise - Schneider TM

(Mentre Schneider TM usava come percussione un pacchetto di Pringles panna acida e cipolla - mia passione invereconda - e play-m lo fotografava per noi, io mangiavo altrove cosce di rana fritte piccanti)

17.10.06

C’mon join the joyride (non nel senso di Roxette, ma nel senso di rincorsa col fiato corto)

Io non mi scandalizzo con niente. Nemmeno col primo doppio ellepi/cd di remix della K Records, contenente ventidue (!) rielaborazioni del repertorio di Mirah. Però. Capisco che bisogna rincorrere i giovincelli come il sottoscritto appassionati di inutili variazioni sul tema, ma un progetto come un remix album deve avere un minimo di criterio: sorvolando sul fatto che la mole sia eccessiva e che oltre agli amicici dell’etichetta ci siano soltanto dei carneadi che nella migliore delle ipotesi sono usciti una volta a cena con Bjork e nella peggiore stavano dietro i Frou Frou, possibile che un’etichetta così rispettabile non si accorga che fare un remix non significa truccare una canzone da baldracca per gli aperitivi di Corso Como?

Apples In The Trees (Balvanera House Party Mix by Bryce Panic) - Mirah
(che si salva dando l’impressione di una b-side dei Knife che prima della fine si trasforma in una b-side latina di Beirut)

Ancora parliamo di Technics?

Ho potuto sentire solo domenica la puntata speciale di Pla(net)Rock dedicata a John Peel. Senza indulgere nella nostalgia (che c’è stata), vengo al sodo: io pensavo che l’ancora negativo fosse una prerogativa del barese, ma a questo punto è chiaro che non sia così.

L’angolo dell’apostolato

La classe operaia va in disco in autobus. Il 9 notturno fende la città a collegare due fermate agli antipodi, la porta del mio residence e il varco presidiato da buttafuori non addetti certo alla selezione. Gentili ormai dispensano solo la drink card all’ingresso e ritirano il pass all’uscita, in un contrasto delicato tra la loro fisicità e l’assenza di problemi, almeno questa sera. Dentro ancora è semivuoto e intorno circola gente con un terzo dei miei anni, abbigliata in modo da lasciarmi interrogativo sui miei attuali interessi musicali. Forse dovrei comprarmi una maglietta Guru o Traficante o indossare una catenazza d’oro. Il bar per fumatori del piano di sopra è il male e non tornerò mai più lì dentro. Piuttosto mi rado le sopracciglia e mi faccio una pulizia del viso dall’estetista. I Nice Guys timbrano il cartellino e passano la consolle a Valletta.

È la prima volta che vedo Valletta mettere i dischi e l’impressione è stata ottima. Robusto e divertente, mi ha fatto persino rivalutare il remix di Go di Moby, quel pezzo costruito sul sacco di plastica di Laura Palmer, ad opera di Trentemøller: a sentirlo in cuffia mi era sembrato una specie di teatrino in cui il buon Anders manovrava una piccola marionetta del cadavere umidiccio e diafano senza restituire il portato arcano e viscido del contrasto tra sfruttamento mainstream e paura della mancanza di senso, dell’originale e del telefilm; sulla pista e pompato di watt scatena una tempesta di flash neuronali, dal ricordo della prima puntata vista col televisore che moriva sotto i miei occhi perdendo i colori fino al monocromatismo di un verde livido senza vita, alla cassetta che mentre registra Go si spezza incastrandosi tra le testine e sputando tra i corridoi della scuola frattaglie calde di Ibiza, fino all’ultima puntata e all’afa torrida e lenta di una sera di Giugno. Subdolo convincerci con la componente revival dell’inutilità sublime delle nostre mani a mulinello contro le strobo. Poi Valletta ha proseguito con un remix gustosissimo di Three Weeks di Tiga (non mi è sembrato il Dahlback, né il Booka Shade, forse quello che gli ha dato Troy Pierce qualche settimana fa?) fino a incattivire di distorsioni e di break la massa che già ballava copiosa. E poi ho capito che dovevo cercare un’equivalente di una qualche Università del Sacro Cuore o del Santo Spinterogeno laggiù in Michigan, una di quelle in cui il motto è “All We Praise Is Parties”, come diceva Sufjan, un’università in cui studiare teologia e convincermi a colpi di imperatori bizantini che il logos è insieme ragione e parola e io posso parlarvi di queste benedette tre ore, attraverso queste stesse tre ore. Il divino non diventa più divino se lo allontaniamo da noi, diceva quello.

I momenti divini poi vivono del grottesco in cui sono immersi. Per esempio io non sapevo che in discoteca si usano ancora i vocalist che presentano con voce impostata i dj come in un film di Verdone sulle discoteche. Il divino però è una carezza sulla merda che spesso sceglie gli ultimi per manifestarsi, con tutto ciò che ne consegue. Mi chiedono se ho pastiglie, ma non ho con me quelle per l’esofagite da riflusso. Carl Craig apre lo schermo del portatile e poggia il primo cerchio del sistema solare. Inizia così, con l’insonnia, e io rido piano dentro la mia maglietta rossa che lampeggia nel nero circostante. Craig richiama Valletta accanto a sé e lo spinge al ricamo sulla coda del primo pezzo con gestualità da benevolo messia. Poi riprende in mano il mio destino e lo frulla con tutttelecosedelmondoinsieme, ma quando mi bevo insieme a tuttelecosedelmondoinsieme non ho né la fastidiosa sensazione di assaggiare uno di quei miscugli tra passoda e aranciata che sperimentavo quand’ero bambino, né l’autoreferenziale sapore di un carpaccio di avambraccio: è come se il meccanismo della fabbrica, il jazz dissepolto e ritagliato come un pezzo di puzzle appuntito più di uno shuriken, l’elettronica più sentimentale di un Numero 5 e tutti i miei atomi dal primo all’ultimo siano stati permutati per ottenere un nuovo universo fatto di sovversione degli schemi ed emozioni che non appiccicheresti mai alla carta di un cioccolatino.

Il flusso non suona né nuovo, né vecchio, perché sgambetta il tempo. I pezzi del passato sono utilizzati con fare moderno, ornati di sovrapposizioni e decostruiti nell’evoluzione orografica del set, mentre i pezzi moderni non sembrano nemmeno le stronzate minimali che potrebbero essere perché non vengono usati come stronzate minimali comprensibili solo sotto l’effetto di un cocktail di tachipirina e novalgina. Succede così che divento un pezzo di pongo e a volte Craig mi regala delle braccia da agitare in aria, altre volte un culo da scuotere sui bassi oppure degli occhi lucidi di vernidas. Lo stronzo, perdonatemi la bestemmia, monta crescendo che non esplodono per tutta la prima parte del set aggiungendo una componente ansiogena paragonabile al trattenimento contemporaneo di un centinaio di orgasmi. E mica trattengo solo quello: i quattro mini-cocktail sorbiti richiedono presto un contributo alla ricircolazione universale delle acque che non mi sento di concedere, incollato ai miei pochi centimetri quadrati sempre rivolti verso il palco e incuranti delle braccia esultanti, delle urla di gaudio e del trasumanare circostante. Al primo accenno di avvallamento mi inserisco in una fila per gli orinatoii dal quale presto scappo per bearmi dei ben noti sintetizzatori di quel ben noto remix che, strano a dirsi, qui appare come una semplice parte di qualcosa di ben più grande. Fotografo le luci e lo sciabordio dei sintetizzatori iniziali del mix di World Of Deep in loop mi inonda di alghe, cozze, squame di sirena e pezzi di barriera corallina. Cercano di trascinarmi via per evitare la ressa dell’uscita ma io non voglio perdere nemmeno una virgola del logos che intanto diventa un’accavallarsi di moti ascensionali finalmente risolti e infatti l’ultimo quarto d’ora è da brivido e da brivido sono le luci accese e alte come mai ho visto alla fine di un concerto, quasi che quelle migliaia di watt potessero rendere meno tetra l’improvvisa consapevolezza che la vita è continua tensione verso momenti come questi e non una sequenza ininterrotta di essi. Esco insieme estasiato e col muso lungo. Il buttafuori accenna un timido ciao, immalinconito dal momentaneo ruolo di passacarte della burocrazia della notte. Per la sopravvivenza al lunedì non resta che saltare sul motoscafo e risalire la Dora Baltea con i Mogwai nelle cuffie per incontrare quella gang cino-sudamericana che fa affari coi neonazisti.

World Of Deep (Carl Craig Mix) - E-Dancer

13.10.06

Ammazzate oh (l’assassino torna sempre sul luogo del delitto)

Non ho mai amato l’abitudine che hanno certe persone di apostrofare gli appena conoscenti con il nome di battesimo. Non ho mai amato i cantanti che quando fanno un disco solista lo intitolano con il nome di battesimo. Penso queste cose accingendomi al primo ascolto di Jarvis. Però Jarvis entra in questo ufficio, si siede al piano accanto al plotter e mi canta un “Cosa resterà di questi anni Novanta” che gronda di altri quattrocentotrentatrè “Cosa resterà”. Don’t believe me if I claim to be your friend, dice, I will kill again. Speriamo, Cocker.


Preparo il bicchiere? No, prepara le cicatrici

Ad avercele, le cicatrici. I bambini tranquilli non si rompono mai nemmeno il braccio, non gustano mai l’interminabile prurito notturno della sabbia che finisce nell’ingessatura. Da adulti forse ameranno le distanze di insicurezza e non prenderanno mai multe e non perderanno mai i punti della patente. Ecco, prendete il contrario di quanto detto fin’ora e avrete Matt Elliott, che ritorna, questo mese. Le canzoni del bere sono diventate le canzoni del fallire. Già pregusto quando sul mio lettore in modalità shuffle un suo pezzo spunterà tra una tamarrata disco e un pezzo twee svedese in levare.

Lone Gunman Required - Matt Elliott

11.10.06

Watcha gonna do when you’re adult

Diventerai la parodia di te stesso (Dunbkel-Darkel)? Un cantante da crociera (Badly Drawn Boy)? Il principe Valium (Max Hecker)?

(in ordine decrescente d’interesse preventivo)

((titolaggine rubata al plastico-faccial-avalanche Judy (Blue States remix) delle Pipettes, mica alla versione originale))

9.10.06

Dategli il soufflé sgonfiato

Ma perché Kevin Shields deve coprirsi di ridicolo con questi fantomatici remix in cui al minuto 1:55 comincia a girare la manopola del riverbero?

(il trascurabile remix di I Want Candy dal film della Coppola su Stereogum)

5.10.06

Ottobre

Le prossime due settimane lavorative a Torino e la puntata di fine mese ad Hannover passando da Milano all’andata e da Milano/Torino al ritorno portano con loro alcuni possibili appuntamenti musicali. Quasi sicuramente da Torino non mi sposterò a Milano martedì prossimo per The Knife + Planningtorock: l’ultimo treno a mezzanotte e mezza, la scomodità della posizione dei Magazzini Generali rispetto alla Stazione e non ultimo il prezzo ‘importante’ del biglietto rimandano alla prossima il contatto col duo svedese. Ben più probabile che assista al dj set di Carl Craig venerdì sera al Supermarket. Per il resto vuoto pneumatico di eventi fino alla mia partenza per Bari.
A fine mese eviterò per l’ennesima volta il mio primo contatto con La Casa 139 di Milano (Willard Grant Conspiracy), ma in compenso al mio ritorno dalla Germania troverò un succulento Junior Boys + i già visti The Russian Futurists allo Spazio 211 di Torino. È un duro lavoro, far coincidere tutto.

4.10.06

Reality Show [o dell’(in)utilità dei Crystal Castles per il mondo]

La prima volta che ho sentito un pezzo dei Crystal Castles ho pensato ‘che noia la musica a otto bit’.

La seconda volta che ho sentito un pezzo dei Crystal Castles ho pensato ‘però il videogioco degli ZXiu ZXiu non è male’.

La terza volta che ho sentito un pezzo dei Crystal Klaxons ho pensato ‘quelli in discoteca si fanno gli occhi dolci’.

La quarta volta che ho sentito un pezzo dei Crystal Castles ho pensato ‘si ameranno oppure no?’

Poi Simona Ventura ha preso la linea e ha dichiarato vincitore Prince Of Persia per il 286.

REM sono la pupa e il secchione nello stesso tempo

Alice Practice - Crystal Castles
Atlantis To Interzone (Crystal Castles Remix) - Klaxons
She Fell Out - Crystal Castles
Bonus che non c’entra niente Buzz Saw (This Song Is A Mess But So Am I Remix) - Xiu Xiu

SYS 64738

3.10.06

Not safe from loop

Con un loop vi lascio e con un loop vi riprendo. Gli Skatebård vengono da Bergen e non a caso sono coinquilini di Annie alla Digitalo ed Erlend ‘Scalcia’ Øye cantava i Pet Elvis Boys su un loro vecchio pezzo. Fanno electro inquietante, nel senso che con poco inquietano certi luoghi comuni della disco e della dance. Per esempio iniziano il loro nuovo Midnight Magic con un freddo serial killer che punta un coltellaccio sulla gola dell’Italia da bere dei primi anni Ottanta. Su pastiche alla Boards Of Canada modellano ritmiche di spazzole e batterie ancora sanguinanti di budello animale. A metà tra Booka Shade e il conterraneo Lindstrøm potranno essere per voi un possibile incubo ricorrente. Non vi basterà un SUV per fuggire.


2.10.06

Safe from loop

Non mi piace aggrapparmi al passato. Figuratevi cosa penso di chi vive nel passato. Così nell’orrido Clerks II, traduzione cinematografica di una di quelle patetiche cene in cui dopo dieci anni incontri il compagno scemo di liceo che continua a fare sempre le stesse battute e ritrovi persone una volta minimamente sagaci che sacrificano il loro acume sull’altare della consuetudine, più delle inquadrature circolari, più del patetico romanticismo ribaltabile che quasi si rimpiangono i film di Nora Ephron o con Julia Roberts, più dello scontato ritorno al bianco e nero finale, poterono quelle tre scene segnate da Smashing Pumpkins, Alanis Morrissette e Soul Asylum. I miei coetanei sono da un’altra parte, che vogliano crescere o no. Io, preferisco i ventenni e i sessantenni.