19.4.05

They’ve said all I need to say about them


L’ultima giornata della Tidicappa Dance Marathon è sintetizzata nella domanda di chi capita lì per caso e ti chiede ‘Ma qui si balla stasera?’. In termini di serata danzereccia potete vederla come il crescendo simbolo di una notte in discoteca: si inizia con un sottofondo che mantiene distratte le persone, qualcosa che per variazioni ritmiche innalza la temperatura, seguito da una corporeità crescente fino ai pezzi che tutti conoscono e su cui la folla improvvisa coreografie scomposte o ripete calibrati passi pensati davanti allo specchio durante la settimana (non ditemi che non pogate contro i mobili quando sentite Movement). Poi arriva un dj e molti di quelli che fino a quel momento si sbattevano l’uno contro l’altro smettono di ballare e preferiscono lasciare il campo ai consueti frequentatori dei Magazzini Generali in favore di un po’ di sana chiacchiera post-concerto. Ecco, forse è mancata la scelta di un dj forte dopo il concertorgasmo. Di certo, il quadro che è venuto fuori dalla serata (o dalle scelte degli organizzatori) è che l’elettronica pura è la grande assente perché da sola nungliafà più, non riesce a scrollarsi quell’anonimato che solo in rari casi si trasforma in spettacolo. L’elettronica diventa allora elemento di struttura per nuove improvvisazioni di musicisti che si guardano in faccia (The Battles), radice storica ed elemento prismatico attraverso cui scomporre cliché e intuizioni dell’hiphop (Prefuse ‘73), lama di un frullatore in cui un genio del male scaraventa le nostre esistenze in musica e danza (LCD Soundsystem).

Scendendo nei particolari la prima tentazione è l’agiografia. Perché due tizi di quelli che “It’s like a movement from a smaller place to a bigger city” mi costringono a esclamazioni quali “Prefuse ‘73 è dio” e “James Murphy non scherza” fino ai più contenuti “Sono diventato politeista” e “Santi subito!”. Ma siccome qui siamo persone serie riavvolgiamo tutto e torniamo all’inizio. Il primo giorno James Murphy e Scott Herren si incontrarono e decisero che quello era il primo giorno (scherzo). Dicevo, torniamo all’inizio. In apertura, sarà l’insalata di riso, sarà che sono ancora le nove di sera, sarà che non c’è il mare a Milano ma il Boris che apre non lascia particolare traccia di sé a differenza di The Battle. Il supergruppo che accompagna il prefuso in tour viene reindirizzato sui megaschermi e mi accorgo che si guardano tra loro mentre suonano, si cercano come se il concerto non fosse che una serie di improvvisazioni in cui chi tiene a tracolla uno strumento con le corde, ne ha davanti anche uno coi tasti su un cavalletto. La vecchia storia del rock mischiato con l’elettronica si direbbe, eppure l’approccio è legato molto all’intreccio di musica suonata e i risultati spaziano tra le parti più ballabili, contigue al punkfunk, e quelle più spezzate, debitrici al lato elettronico e alla regia della ritmica. Curioso relativamente a quanto ciò sia venuto fuori dal vivo e a come ciò sia reso su disco.

Scott Prefuse ‘73 Herren arriva nel pomeriggio con una cricca di almeno otto persone (il suo gruppo + The Battle) sulle macchine promozionali fornite dall’organizzazione. Si presenta addobbato come un albero di natale della contestazione all’Impero e quando si avvicina Kieran Four Tet Hebden scatta un saluto repposo in cui nemmeno Will Smith e Jazzy Jeff si sono prodotti nelle prime puntate del Principe di Bel Air. È il colore che ci concediamo prima del ‘Gloria a te, minipimer col sogno del ghetto dipinto da Picasso’, ma è un colore necessario perché Scottie, per quanto intellettuale e astratto e innegabilmente bianco, flirta con una serie di pose e atteggiamenti che rischiano di farlo sembrare una macchietta, se non proprio uno stronzo pieno di sé. Nonostante ciò il suo set dal vivo è un meccanismo ben congegnato a partire dalle forze dispiegate: invece di assistere al neutro spettacolo di “Un uomo, un laptop”, la scelta di avere due dj e un bassista di supporto da un lato movimenta il palco e dall’altro sgrava il lavoro del titolare, che spesso si limita alla regia e all’intervento sul moog e sulla batteria elettronica, dove però l’effetto è quello di chi tamburella sul tavolo mentre ascolta un pezzo (ma noi siamo malfidati, eh). Sgombrato il campo da questi dubbi/apprezzamenti, si riconosce l’affiatamento raggiunto dai tre giradischi e la cura con cui il quartetto carica sempre più la tensione. Probabilmente la mancanza degli ospiti, di cui purtroppo è pieno l’ultimo disco, spinge a una maggiore concentrazione sulle dinamiche e a una minore reverenza rispetto all’altro da Prefuse. Io a un certo punto gli ho gridato “Yo Motherfucker!”, il pubblico ha persino ballato e richiesto un bis al posto del quale è arrivata una sostenutissima rimozione degli strumenti con tanto di finto broncio. Poi siamo corsi dall’altra parte di Milano.

Beat Connection è già iniziata quando entriamo e ci discoinfiltriamo tra la folla fino a raggiungere il palco. Questa parte ve l’hanno già raccontata in tanti, in certi casi benissimo. Verrebbe voglia di rimandarvi semplicemente agli aggregatori di testimonianze, la gentile Violetta e il dancing dj Enzo Polaroid, curiosamente entrambi spettatori a distanza. E invece no, perché il senso di tutto è che per quanto tutti abbiano già detto tutto, i particolari non risaltano sempre allo stesso modo, come quando scrivi una frase la cancelli e la riscrivi per dieci volte: la coazione a ripetere verrà scardinata da qualcosa che in questo caso però è conscio, programmatico e sottilmente paraculo. Yeah ripetuta in più versioni, fuori da dischi e dentro, su compilation con altre canzoni sovrapposte è il punto chiave attraverso cui si capisce che il materiale è lo stesso ma viene fuori diversamente qualora James Murphy decida di gridarla da dietro un banco mixer su disco, da dietro un giradischi su compilation o da dietro un microfono su palco. Per modifiche sottili ci si accorge che Daft Punk Is Playing At My House dal vivo è giocata sul flirt di un attacco volutamente sottotono e di un sovraccarico ritmico al quale si arriva impreparati. A tratti si ha l’impressione che gli LCD puntino sulla carnazza, sull’assenza di pause e sul coinvolgimento del pubblico spingendo in certi episodi i lati estremi e più rock, con pezzi che radono al suolo sfruttando la semplicità house e quella punk (Tribulations e Movement), ma il gioco delle scatole cinesi evidente su disco sfugge solo perché si è presi dal ballo e dai volumi sparati sulla faccia e la gestione dell’uditorio tipica del dj permane nei crescendo controllati di pezzi come Losing My Edge e Yeah. Potrei continuare con altre mille pippe mentali che mi sono fatto a posteriori, come per esempio ‘quale sarà il passo successivo? La sovrapposizione e la confusione degli elementi come nella sovrapposizione tra Yeah e Beat Connection alla fine della DFA Compilation #2?’, ma la migliore recensione del concerto è un’immagine relativa al sottoscritto: per ben tre volte mi è caduta per terra la macchina fotografica digitale per l’eccessiva foga nel ballo (quella foto che avete visto mente!).

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