22.9.04

Lunedì, 20 Settembre 2004


You should always tell cities you love them in case you never see them again

Questo non è il racconto di un arrivederci a Torino. Questo è l’ultimo lunedì a Torino prima di lasciarla per un po’. Voglio che questo sia un giorno diverso, voglio vedere strade e raccogliere particolari insignificanti da ricordare. E così prendo le mie cose e a metà pomeriggio esco dall’aula dove siamo abbandonati da due settimane. Nel lettore partono i sognni inguaiati del piano magico. Sono in modalità “loop directory”.

Scendo le scale correndo e chiudo la porta dietro di me. Il cielo grigio delle sedici e trenta mi sembra fuori stagione. Nessuna foglia cade e io varco il cancello con passo sonnolento. Il volume riduce la velocità delle immagini e si mischia ai rumori di fondo, non voglio perdere nemmeno quelli. Attraverso le strisce pedonali che nessuno rispetta su Via Rivalta, poso la borsa del computer nel portabagagli e mi spettino un po’ i capelli come faccio ogni volta quando il vento li rimette a posto. L’interminabile chitarra viene raggiunta dalla batteria. La macchina parte. Poggio un angolo della testa sul finestrino e osservo obliquo il paesaggio veloce di Corso Allamano: le corsie che diventano ora tre ora quattro, le persone nelle altre auto, il liceo Curie, gli inutili controviali che non ho mai imparato a usare, l’enorme torre dell’acqua dell’Azienda che diventa sempre più piccola.

La legge non scritta. Esco dal residence per comprare pochi generi di conforto al minimarket dietro casa. Capisci la partenza anche dal fatto che eviti la spesa a Le Gru, l’enorme centro commerciale sede dei tuoi tramonti del lunedì per tanto tempo. Lungo gli angoli di Via Saffi due vigili urbani multano le auto posteggiate agli incroci o sulle strisce. Una Fiat Panda ha la targa polacca. Ripenso alle leggi non scritte del parcheggio selvaggio. La terza fila a Palermo. Le macchine sul marciapiede a Milano. Le auto al centro della strada mentre di notte tornavo a casa, a Torino. Il palazzo delle Pagine Gialle è largo nove finestre e alto quattro: secondo me contiene i volumi di tutte le città e di ogni anno. Capisci la partenza anche dall’ultimo scontrino del DxD: due mezzi litri di latte, mini-mozzarelle, quattro birre. Avevo già tutto il resto.

Passeggio per Corso Francia e salgo sul primo autobus che passa, tanto tutti portano allo stesso posto. Piazza Statuto schiude nuvole grigie e riflessi arancioni. Ho scritto un racconto nei miei ventanni, nonostante non lasciasse mai la mia testa. Tutti percorrono Via Garibaldi in direzione opposta e la campana di una chiesa, forse quella di San Dalmazzo, annuncia le sette post-meridiane. Mio padre è mai stato un poeta senza sapere di esserlo?

Il mercato di Porta Palazzo ha già sbaraccato e in Piazza della Repubblica resta soltanto l’odore forte dei pomodori da sugo spiaccicati per terra a creare pozze di sangue finto. La gente guarda con uno sguardo che ti dice “affretta il passo”. Ancora una volta scelgo la direzione opposta, verso la Dora. Corro nell’ultimo tratto, accelero mentre attraverso, sempre più veloce sul ponte. Mi giro quando arrivo dall’altra parte. Davanti a me non vedo che fantasmi di fantasmi di fantasmi.

Fuori, l’estate non è ancora andata. Aspetto seduto alla fermata deserta. Dentro, l’autunno non è ancora andato. L’autobus va da (Via) Catania a (Via) Frejus.

Sull’autobus mi si abbassano le palpebre. Il 68 è una specie di giro turistico per Torino. Torino è fottuta dai lavori. Il traffico è quello della fine di un giorno scuro e stanco.

Live their lives through diaries, live their lives through diaries, live their lives through diaries. La parola diaries ha troppi significati e mi aggrappo a quello per non sentire alle mie spalle i discorsi idromassaggiati delle due woman della business class.

Lei sale alla mia penultima fermata o quasi, più o meno quando il lento scorrere su Corso Vittorio Emanuele II viene rotto dall’infrangersi della chitarra sui segnali di deviazione degli scavi per la metropolitana. È alta, pallida e leggera e insospettabilmente bella per passeggiare a Torino, anche se su un autobus. Ha lunghissime treccine sottili, come Corona, quella che cantava The Rhythm Of The Night. Qualcuno mi ricorda che devo andare a casa. Scendo e costeggio i giardini di Via Revello, deserti per l’ora di cena.

Sono venuto a Torino per trovare me stesso, ma con un milione di persone da dove cominci? Tu mi hai chiesto se ero qualcun altro e io ti ho detto “Sì, se ti aiuta non sarò me stesso”. Come bravi blogger che catturano l’estate in tre sole righe, vorrei raccontarti, ma ci vorrebbe tutta la notte. Come per le comete potrebbe essere l’ultimo lunedì (non lo sarà, lo so). L’ascensore senza specchio del residence mi porta al primo piano.

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