25.11.09

Sorrisi nella nebbia

Io non ho problemi col freddo, a parte che sono influenzato/raffreddato da tre settimane a questa parte. Io non ho problemi con la nebbia, di sera. Quando torno a casa o quando sono in giro di sera la nebbia in fondo mi piace, ha un che di evocativo, fa venire voglia di scrivere musica nebbiosa. La mattina invece non la sopporto proprio. Andare al lavoro alle otto di mattina con la nebbia intorno è deprimente. Potrebbero esserci dei sorrisi (e di sicuro non ci sono) e sarebbero nascosti. Per contrasto ovviamente credo di essere ancora in estate. E la tracklist dei cinque-sei pezzi / venticinque minuti è nascosta nella nebbia.


19.11.09

Bedrooms

Dato che non sarò a Torino purtroppo domani mi perderò Theo Parrish @ Secret Mood, però voi siateci anche per me. Tra un the e una spremuta qui comunque si ha tanto tempo a disposizione e oltre all'ascolto delle novità, ci si lancia in imprese titaniche come la visione della serie Producer Masterclass di Computer Music Magazine su Youtube, che al di là dell'utilizzo vero e proprio dei software è fica per quanto si possa sbirciare nelle camerette studio dei teachers e nei loro setup hardware. Ieri è toccato a "Nathan Fake smanaccia Cubase (e Cooledit)": interessante il primo quarto d'ora in cui racconta i segreti di The Turtle, un po' meno i quaranta minuti successivi in cui tira su un pezzo da zero per finire con dieci minuti di manopolismo senza commento. Stamattina è il turno di "Rusko spiega come non smarmellare coi riverberi su Acid e come fare quei wah wah ignobili col VST Albino" (suonando Rats In The Kitchen). Quasi quasi passo a Benga per Future Music (doppio lcd fico, ma Albino anche qui, nooo).



16.11.09

Febbra

Devastato da una settimana di influenza (seria-non-suina) che continua, colgo dieci secondi per una segnalazione in saccoccia da ormai una settimana (e incredibile ma vero nel mondo del super hype c'è ancora spazio per maturare una settimana di ascolti di qualcosa non ufficiale senza che il web ne sia impestato. sarà l'influenza).

James Blake ha la faccia da bambino delle barrette Kinder. Suona nei Mount Kimbie (e se siete miei frequentatori non vi devo spiegazioni), ma da poco è partita anche la sua carriera solista con un singolo su Hemlock. Musica figa che nasce dai bassi (ok, il dubstep non esiste più), ma James facciadibambino di soppiatto sempre più spesso aggiunge un elemento straniante per il genere. Canta. Nel maggio scorso per aprire e chiudere un mix per Electronic Explorations cantava (una cover di Limit To Your Love di Feist per aprire e un'imprecisata I Never Learnt To Share alla fine). In questi giorni invece circola una sua dubplate intitolata Measurements che nell'escalation paracetamolo-antibiotici-cortisonici e nella riduzione continua tra una misurazione della temperatura e l'altra aspira ai fumi dolenti di certi classici (Tim Buckley o l'Anthony meno insopportabile) mentre sullo sfondo le godurie produttive del dubstep vengono applicate ad elementi classici (gli stop e le ripartenze coi controcanti basso-diffratti, lo spezzatino di elementi, l'atmosfera per sottrazione). Sette giorni e la febbra non passa.


Measurements - James Blake

12.11.09

StalleToStelleToStalleAgain (ovvero il ClubToClub: terza serata)

Sabato al Lingotto, serate finale. DJ Pierre è già sul palco, un incrocio tra Disco Stu, il Mike Bongiorno della sigla di Pentatlon e quei cartoni animati blacksploitation anni settanta. Quando Guido Savini, preposto a sonorizzare con adeguata energia l'ingresso al padiglione, gli passa la linea, Pierre aggredisce con una hard house ai confini della minimal. Passi che dal padre dell'acid-house di Chicago avrei preferito inflessioni più, hmmm, acide, passi che a quell'ora e in un luogo così grande è giusto farsi prendere a cazzottoni, ma quello che non può passare è il suono tristemente ottuso della musica che ha proposto, con le frequenze tutte in mezzo (ma i bassi? ma le alte?) e quell'odore chimico di preset.

(DJ Pierre gioca a Snake col cellulare nuovo mentre mixa)


Jeff Mills mi scuserà se il giorno prima non mi sono recato al Museo del Cinema a prestare occhi e orecchi a un suo nuovo progetto multimediale in cui mischia musica e regia. Sono un passolone, ma quando la pseudo sbobba intellettuale è così ovvia, ne faccio a meno. Sul palco invece è rivelatorio. Azzerando l'ora e mezza di Pierre, riparte da un tappeto di frequenze insolite per luoghi come questi: dieci-quindici minuti di intro coi bassi che lenti si sollevano prendendo velocità e gli alti che intessono trame che si vaporizzano, si sfaldano e schioccano oscillanti. In mezzo le frequenze protagoniste del set di Pierre sono espulse, e con loro gli arpeggi sordi e i ritmi dall'occhio sbarrato. Sullo schermo la luna, la bocca è aperta e nessuno reclama i cazzottoni. Poi i cazzottoni arrivano, anche a colpi di 909 live, oscuri e disperati, incalzanti e capaci di retrocedere ancora su intermezzi di ambiente tesissimo.



Questa sera il concetto del club-to-club consiste nel migrare verso un'enorme caldaia di ferro alle spalle del palco principale, contenente la sala rossa. Savini, prima di passare la linea al live di Nathan Fake, è molto più crossover e quindi ci scappano le milanesate, un pizzico di cosmica, gli hotchippi e via dicendo. Nathan Fake live è in crescita continua: dai set ai limiti dell'ambient-davanti-a-chi-vuole ballare del periodo successivo all'uscita di Drowning e da quelli che per concedere di più ai danzerini sacrificavano storture e complessità, oggi sembra aver preso il meglio e le ritmiche incessanti e talvolta crespe non impediscono il gioco di fino o l'emersione indisturbata dei tratti melodici. Dj Pierre (anche in questa sala) prende il suo testimone e tende a ripetere quanto suonato sul palco principale con la differenza che ora i pezzi noiosi si inacidiscono un po' di più. Così si torna al main stage per l'ultima mezzora di Mills che bombarda con la drum machine come se non ci fosse domani. La sua chiusura è ambientale, forse però meno intrigante dell'apertura. Comunque, set della serata.



Carl Craig non è proprio in vena. Sarà quanto ha visto fare da Mills, ma inizia tentando un'intro orchestrale involuta che invece di ipnotizzare, crea del malumore. Quando comincia a piovere qualche fischio, continua imperturbabile con un muso duro che se non fosse il suo solito muso duro, si sarebbe quasi potuto dire provocatorio. Rendendosi conto, lascia partire la cassa, ma per tutta la prima parte è duro e piatto. In parallelo il suo traktor comincia a fare le bizze e se in qualche occasione sembra di assistere a un gioco di gambe in contrappunto, per il resto si ha la spiacevole impressione di assistere a una schermata impallata col software che quando sembra ridarti il controllo del puntatore si blocca nuovamente. Sarà la serata, saranno i problemi, ma C2 tira i remi in barca quando manca ancora molto e decide per il set alla cazzo di cane (per dirla alla René Ferretti): da un minimo di senso iniziale passa a consegnare alla rinfusa e senza un perché le sue solite armi di battaglia (e Jaguar buttata lì a quel modo fa male) e robe nuove come Hood su Clock. Dato però che non c'è mai fondo al peggio, quando ormai temevamo anche le trombette, il finale è arrivato coi canti latino-americani, come nemmeno il peggiore epigono di Luciano: ultimo pezzo prima del bis Caminando e bis a cazzo di cane, udite udite, La Mezcla. Que tristeza.



11.11.09

ClubToNiente (Il ClubToClub: parte seconda)

Il venerdì abbandono l'idea fondante il festival ("spostarsi lungo la città da un club all'altro"). È il giorno dedicato al from disco to disco eppure io compro un abbonamento con un unico club più serata finale. Pur conoscendo la suddivisione tra i vari club (una serata intellettualtronica con Jon Hopkins, Theo Teardo e Optofonica all'Espace, una hipsterdisco all'Hiroshima con Optimo, l'orso degli Hot Chip, Valletta e i Bloody Beetroots, una berghainicadicermania al The Beach con Shed live, Dettmann, Steffi e Seth Troxler e una senza apparente filo conduttore al Supermarket con Martyn live, Laurent Garnier live e Angel Molina) ad una settimana dal festival non sono stati ancora comunicati gli orari e allora, certo che Laurent Garnier sia un punto fisso e suonerà al centro della notte e certo che i live di spicco saranno tutti in prima serata, opto per il Supermarket. Passano i giorni e la serata dell'inizio del festival alle 19.30 arriva la comunicazione degli orari (un giorno prima per i lettori dei commenti di Torinoforum, ma poco cambia). Nella comunicazione ovviamente vien fuori che ho fatto bene: con Laurent Garnier che comincia all'1:30 diventa impossibile sentire Shed (1:30), Jon Hopkins (1:30) ed Optimo (2:00) che erano proprio i papabili degli altri locali. La collocazione iniziale di Martyn a mezzanotte avrebbe almeno reso possibile abbandonare Angel Molina in favore dei tedeschi, anche in relazione al fatto che il set di Dettmann veniva esteso fino a fine serata data l'assenza di Seth Troxler. Qui però il colpo di genio: nella mailing list al Supermarket viene annunciato un surprise guest dalle 5 (chissaràmmai? non è che Lorenzino ci fa lo scherzo? Turymegazeppa?). Morale della favola, anche volendo saremmo mai potuti andare altrove?

Il pomeriggio non comincia bene. Solo la sera prima veniva comunicato un orario in cui Martyn era ancora presente e invece si diffonde la voce che non suonerà per problemi di ernia al dubplate. A Bologna il Link lo sostituisce con Shackleton, a Torino corre la voce che il surprise guest dalle 5 sarà Shackleton. Morale della favola, anche volendo saremmo mai potuti andare altrove? Il time slot di Martyn viene dunque affidato per estensione a Federico Gandin, che apprezzo con la sua techno e house profonda. Il pubblico è eclettico: gruppi di cinquantenni un po' spaesati, ex clubber quarantenni che ancora non staccano la spina, immancabili ragazzini, intellettualoidi, universitarie denuclearizzate, indifescion e chipiunehapiunemetta. Shackleton non suonerà dalle cinque.

Laurent Garnier sale sul palco con sezione fiati (due elementi ma un sacco di ottoni), compare in tandem al banco di comando e tastierista disposto lateralmente "a vedersi" da perfetta techno-jam. No Music, No Life dal nuovo album, da me colpevolmente trascurato col senno di poi, apre in costruzione aggiungendo un tassello alla volta sul claim e comprimendo sempre di più l'energia. Back To My Roots, pezzo extra-album su Innervisions, e la successiva e ancora inedita It's Just Music (prevista in uscita proprio su Innervisions) allontanano il concerto dal flusso discontinuo dell'album (tra intermezzi, pezzi hiphop e grosse variazione di genere) verso un miscuglio coeso ed esplosivo di house acida sporcata di jazz maledetto. Roba nuova ma che suona come se fosse al di là dei tempi. Free Verse senza rapper allenta la tensione ma è solo un attimo prima di venire investiti dal drum'n'bass forsennato di Bourre Pif con i fiati che prendono la scena e ricordano quanto utopica fosse la nostra fede nella commistione tra jazz e jungle.



Col fronte palco che ormai è una bolgia, Laurent Garnier chiama Gnanmankoudji e finalmente so come pronunciarla. Epica, coi fiati prima strozzati e lugubri e poi aperti nel ritornello mentre i timpani rullano tribali e quindi in improvvisazione per tutta la seconda parte. Live suonato, sincronizzato a orecchi e sguardi eppure perfetto nell'esecuzione e nella resa energetica (d'altronde vanno in giro con lo spettacolo ormai da due anni). Non c'è il tempo di prendere un attimo di respiro e arriva il primo classico, una Crispy Bacon che ancora mi ricordo il maledetto bagno lynchiano del video con il giradischi che spunta dal cesso-jukebox, l'altoparlante residuo da suicida nella vasca da bagno e la bionda nerd inquietante con la bava alla bocca il coltellazzo e soprattutto gli oscilloscopi, vero occhiodellamadre per i quali non riuscivo a dare Elettronica Uno. Un bagno di bitume bollente. Pay TV è l'ultimo pezzo da Tales Of A Kleptomaniac e sono certo di essere a uno dei concerti della vita (anche se il concerto della vita di Laurent Garnier me lo immagino di quattro ore e con tutti i vecchi amori con la F), mentre le brume tristi ammantano la batteria - registrata ma live - e lo shutdown del digitale terrestre è vicino. The Man With The Red Face è tutto quello che ho provato a dire finora elevato a infinito alla quarta, se non alla quinta. Al solito come troppo spesso sta succedendo qui a Torino ai concerti, non si riesce a scucire il remix per la desideratissima Big Babou. Il roadie fa no con un faretto.


(la scaletta è mia!)


Mentre gli altri se ne scappano dai tedeschi (pare che tra i tre club più dance, il The Beach sia quello che ha raccolto minore afflusso, ma pare anche che Dettmann non si sia lasciato intimorire), io tiravo a campare con un noioso ma molto funzionale Angel Molina in vista della verifica dello special secret guest. L'unica concessione a un flusso abbastanza privo di variazioni sono stati due pezzi che dopo circa un'ora tentavano la strada del fuzz, presto abbandonati in favore di lidi più sicuri. Alle cinque e venti, certo che nessun guest si sarebbe presentato ho preso la via di casa, deciso a dare un senso a un set probabilmente pensato come de-eccitante rispetto all'enorme live che lo precedeva.

10.11.09

VellutoToMoquette (Il Club To Club: parte prima)

Posso ripetermi che non cerco rivalse nei confronti della musica che ascolto, posso dirmi che non ho bisogno che Evelina Christillin mi dia il benvenuto e mi accomuni alla figlia nei giovani che finalmente entrano a Teatro con la musica elettronica per la prima volta (e che la legna non sia troppa, orsù), posso lamentarmi quanto voglio del fatto che siano meglio i diciottenni datch-vestiti che attendono sempre l'ultimò ultimò rispetto ai trentaseienni col posto riservato che non hanno pagato il biglietto, che non sanno dove stanno, che si alzano e se ne vanno venti minuti prima della fine o che forse in realtà, com'è più probabile, mi facciano ribrezzo tutti. Però il misto di attenzione sull'ostico, commozione sul finale e gioia, quando dopo quindici minuti parte per la prima volta la cassa e sembra di stare al Concerto di Capodanno a Vienna con tutti che applaudono a ritmo, tutto ciò non sarebbe stato lo stesso lontano dai velluti, dai palchetti e da tutto quel rosso ingoiato dal buio, in cui ci immergiamo ogni fine settimana.



Serate come quella di giovedì scorso al Teatro Carignano di Torino con il concerto di Francesco Tristano, Carl Craig e Moritz Von Oswald (soli, senza orchestrali o strumentisti) sono tentativi che in fondo cercano di annullare una distanza che, per quanto ce la stiamo a raccontare, è tutta lì nelle parole intorno, nelle sensazioni aumentate e persino nelle ricerca di indifferenza dietro cui possiamo nasconderci. Non se ne può fare a meno e allora si prova a raccontare anche il resto, quello per cui si è davvero lì.



Senza l'orchestra e gli strumentisti, i tre scelgono la via di un suono live, non artificialmente sincronizzato e improntato su un'esecuzione ai limiti della divagazione in jam. Tristano martirizza di effetti il piano, ora metallizzandolo, ora grattando il timbro,pizzicando e percuotendo il budello direttamente. Per i primi ventiminuti punteggia le vibrazioni di fondo dilatate di Craig e Maurizio con un concreto trattato che riprenderà più avanti ma che non mi conquista più di tanto. Molto meglio quando aprirà l'arcobaleno timbrico house nascosto sotto gli effetti, classico e dolente allo stesso tempo, o quando si preoccuperà di contrappuntare con la melodia di basso sintetizzato. Craig sembra rincorrere, nonostante chiami come un direttore di orchestra incisi e variazioni: la drum-machine live scarna e non lavorata ricerca un sapore classico detroitiano, però il più delle volte risulta legnosa e priva di respiro (anche se è il classico colpo di gomito all'amico con la palpebra calante); il suo sintetizzatore poi suona monocorde ed elementare affiancato al respiro del basso di Tristano. Maurizio (gran cuore per lui e tutto per come cerca di riprendersi dai problemi di salute) lavora molto di architettura, riempiendo i vuoti e addensando il materiale a volte un po' slegato degli altri due. Prenderà la scena sull'ultimo pezzo prima del bis quello con la più grande carica dub. Tra le cose suonate Technology, uno da Recomposed, frammenti affioranti dai libretti dei tre (qualche detrito da Auricle Bio On, tappeti da M Series, qualche passaggio soffuso al synth per C2) e su tutti una The Melody che scalda il cuore e lo fa sorridere e gli accordi ritmici di The Bells che fanno sempre la mossa di partire e non vengono mai raggiunti dalla melodia. Poi per il bis tornano solo Craig e Tristano che improvvisano rilavorando passaggi già sentiti in precedenza ripetendo sostanzialmente i pregi e difetti della serata. Un gran tentativo di spettacolo elettronico senza la pompa e i lacci dell'accompagnamento orchestrale, ottimo a tratti ma che richiede ancora l'affinamento dovuto da simili maestri.




Dopo qualche chiacchiera si attraversa la città e dall'altra parte al Mirafiori Motor Village (la zona di Mirafiori riconvertita a centro polivalente / spazio di vendita) si raggiunge la serata Do You Warp?. Tra una cosa e l'altra faccio in tempo per venti minuti di Hudson Mohawke che è un ventenne robusto e nerdonissimo nel suo ingobbirsi su manopole, giradischi e laptop. Elegante quanto la copertina di Butter, affastella un accumulo di beat storti, frammenti melodici, elettronica disparata con l'incoerenza della scoperta. Puzza ancora di latte nei suoi estremismi (nonostante un'enorme gavetta alla puntina), ma in fondo suona come il pop che vorrei sentire alla radio, con 800 tab diversi aperti sul browser, e lo stile di una pagina geocities fine anni Novanta: il Prefuse'73 del buon umore. Lo si ama per Fuse anche se il suo futuro è dalle parti della conclusiva Ooops!!!. Lo applaudono pochissimo alla fine (molto più durante il set), ma lui è convinto non poco. Subito dopo Jimmy Edgar nella sua mezz'ora (pagati poco i ragazzi per la serata a ingresso gratuito?) passa da un suono funkadelico con tanto di voce trattata a un martellone pneumatico alla Autechre, a tentazioni house senza un minimo di senso compiuto. Indeciso. A seguire il dj set di Passenger e xluve sceglie la strada di una specie di fidget(!) cosmica(!). Già abbastanza infastidito, su Yeke Yeke decido di abbandonare la moquette in erba sintetica e andarmene a dormire.



The Melody (Carl Craig's C2 Remix) - Francesco Tristano
Fuse - Hudson Mohawke

5.11.09

Riccardi (se non si è capito: il Movement Festival – Parte Terza)

Il sito dice che chi deve entrare alla White Room dove suoneranno Mike Huckaby, Ricardo Villalobos e Danny Fiddo deve utilizzare l’ingresso da Via Filadelfia. Mannaggia a me e a quando li ho presi alla lettera. La serata precedente mi avrebbe dovuto convincere che Mike Huckaby non avrebbe iniziato prima delle undici e invece devo aspettare un’ora e mezzo al retro ingresso mentre arrivano accompagnati dai SUV dei genitori i ragazzini MPZ - non mi chiedete di spiegare cosa siano perché non lo so. So solo che i ragazzini MPZ hanno precedenza all’ingresso e quindi attendo ulteriori dieci minuti in una fila mentre non entra nessuno. Poi entro e mi mettono un timbro totalmente inutile che credo serva per stare dal lato MPZ coi quindicenni. Il tempo di capire che il posto con gli MPZ non può ospitare Mr S Y N T H e faccio il giro del palazzetto per cercare la sala bianca dato che tutti i buttafuori non hanno idea di dove si trovino (Io: la White Room? Buttafuori: la White Cube Gallery?). Nella sala principale un quindicenne pallettato mi si rivolge con il tono con cui si rivolge ad un anziano:

RP: Ti piace la musica elettronica, bravo!
Me:
RP: A me piace più la trance
Me (tentato dal rispondere: bravo!): Come Tiësto
RP: No, Tiësto è troppo... (non fa in tempo a dire l'aggettivo, viene trascinato via da suoi simili)

Capisco insomma che la White Room era quella senza nessuno che mi era stata indicata come Red Room. C’è un foglio di carta a indicarlo ma soprattutto Mike Huckaby che passa Subzero davanti al nulla. Mi posiziono davanti alla transenna e ondeggio religioso sui technoni con le melodie sepolte di riverberi, insieme duri e morbidi come la sua figura di omaccione bonario. La gente comincia ad arrivare e scorgo tra i classici My Life With The Wave e qualche S Y N T H remix. Quando arriva l’orario si comincia a sentire la tensione. Dietro il retro del palazzetto si è quasi riempito e appare la sagoma del folletto cileno. Cominciano le urla e tra posizionamento dei dischi, attacco cuffia, ritorni nel retro palco etc, Mike Huckaby gestisce con umiltà una folla che è tutta per un’altra persona, senza quasi sollevare lo sguardo. Quando Villalobos gira la prima manopola è un’ovazione e con la stessa umiltà Huckaby comincia a riporre i vinili nella borsa senza sollevare lo sguardo, serio. Mentre scende dal palco fa un cenno a Villalobos, che saluta con una cortesia che non trasuda grandi rapporti.





Villalobos ha i fan con le bandiere del Cile col disegno della sua faccia, i ragazzini con le magliette autoprodotte, i tamarroni, la gentaglia del retro palco, quelli che conoscono solo il nome e lo urlano per attirare l’attenzione e lui non si volta, gli hipster, i quarantenni che hanno letto di lui nei giornali, i fotografi sessantenni e insomma tutti. Si muove con fare da star trattenuta, sfiorando quasi i cursori. Il suo inizio ha il sapore di una tech house contenutissima e la prima sferzata su percussioni che potrebbero benissimo appartenere a Ramadanmann o a Shackleton avviene su Orbit 1.3 (bassone sventrante, percussioni ultrafunk, voce dispersa nello spazio) di Second Hand Satellites. Sul pezzo successivo c’è un silenzio che in altri casi sarebbe sembrato interminabile (quaranta secondi, lui si aggiusta la maglietta a maniche lunghe sotto la t-shirt della Peacefrog Records, poi i pantaloni, poi beve un sorso dal bicchiere) e invece di rumoreggiare la folla si comprime finché il pezzo non riparte e si riespande. Dopo questa prima parte, passando per qualche recente Oslo ci si sposta un suono leggermente più techno fino a quando prende una copertina rossa e le urla esplodono prima ancora che metta il vinile sul piatto: Spastik. L’aveva già fatto Luciano il giorno prima, ma sarà il luogo più raccolto, sarà come c’è arrivato, sarà che il settanta percento delle persone stava per abbandonarlo per andare da Rici, sembra come quando parte la raffica di fuochi d’artificio della festa della santa al paese. Sulla trivella fa partire il sample di Don’t Stop dalla white di Da Booty Tribute contestualizzandolo con un beat techno al posto di quello house del disco. Da questo punto in poi il set si sposta su un fantastico incrocio di synth pop anni ottanta (voci sintetiche, casio ritmiche da quattro soldi, tastierine pop) e i suoi soliti funkettonismi di bassi, percussioni in divagazione libera. Gli viene consegnata la bandiera, ma capisco che si trova poco a suo agio con le bandiere o forse con una bandiera nel nome del quale tanti mali sono stati causati. Nel frattempo mentre la maggior parte dei presenti lo abbandona per l’altro Riccardo, arriva a bordo campo Danny Fiddo e i due cominciano un dialogo a gesti del tipo Villalobos: guarda ora come reagiscono a questo, Fiddo: sei proprio un diavolo. Il sinner in me fa capolino per appena un minuto e quando ormai saremmo rimasti in trenta parte una coda a suo modo soulful (prima con qualche piru piru poi addirittura con qualche vocalizzo). È il gran finale per un set che pur facendo uso di robe attuali (non voglio dire modaiole) e classici ha sfuggito le ovvietà, i tormentoni e l’inutile violenza. Pur muovendosi flemmaticamente e pur non avendo quasi intaccato la bottiglia di vodka sulla consolle, è arrivato col capello phonato e tutto asciutto e ha terminato sconvolto come nelle migliori foto.





Danny Fiddo parte con una roba sirenica abbastanza noiosa e allora pur sapendo che niente di buono mi avrebbe aspettato dall’altra parte e avrei letto tutto su twitter, sono andato (così come Villalobos che contemporaneamente è salito sul palco a stringergli la mano). Nella bolgia Hawtin lanciava una bordata di-sperata dopo l’altra. Venti minuti di morte nel cuore con visual nettissimi e il solito immaginario Riefensthal rapita dagli alieni mi sono bastati e allora sono tornato verso Danny Fiddo. Peccato che non c’era più nessuno e dopo appena mezzora il valenciano riponeva controller, portatile, scheda audio e vinili nella borsa. Tornavo indietro e mi mischiavo alla riduzione cellulare. Zucche di halloween lisergiche, l’urlo di Munch, evviva il luogo comune. Bisogna aspettare i due minuti di inciso senza la voce di Dave Gahan del Pump Remix di Personal Jesus per avere un minimo di sussulto. Poi di nuovo la noia. Tutti sono contenti perché tutti hanno ciò che si aspettano. Meno di zero. La mancanza di senso di tutto ciò raggiunge il culmine mentre sulle non-note di Alva Noto parte Yeke Yeke e l’esplosione finale e collettiva dei sopravvissuti. Un ultimo pezzo totalmente dissociato dal resto, senza un minimo di senso, anche se ha il sapore del dolcetto regalato ai ragazzini da mettere alla porta. Luci accese, applausoni, lui con la bandiera del Canada, blame Canada, but don’t forget the robot, ultimò ultimò. L’ultimò ultimò sono quaranta secondi di Who’s Afraid Of Detroit e almeno nonostante il mal di reni dei tre giorni all’inpiedi torno a casa contento (perché onestamente per prendere minimamente in considerazione l’afterhour con il djset di Dubfire dalle nove di mattina avrei dovuto a) aver dormito più di quanto ho dormito nei tre giorni b) aver avuto interesse alla tamarraggine di Dubfire c) scansare il pacco di flyer di cartone duro a forma di gorilla che pubblicizzava l’after che mi è caduto sul naso durante il set di Villalobos procurandomi una ferita tuttora visibile).






Wavetable No.9 - Mike Huckaby
Orbit 1.3 - Second Hand Satellites

3.11.09

Meglio di no (se non si è capito: il Momevent Festival - Parte Seconda)

Cose che invece che a un festival ti fanno sentire a una serata organizzata da un gruppo di PR. Palazzetto Isozaki (dal nome dell’architetto). Ora primo live previsto: ore 21.30. Ora ingresso ai possessori di prevendita: 22.48. Ora primo live: 23.00. Un quarantenne, vestitissimo e sciarpatissimo di cachemirissimo, notandomi come unico interessato al concerto mentre corre via mi chiede “Ci conosciamo?”. Sentendomi dentro Boris (ho pagato un abbonamento anche per stasera e per stasera me ne pentirò), dico “penso proprio di no”. Gli A Mountain Of One fanno quella musica che è un misto della musica di merda della seconda parte degli anni Ottanta con tante cose belle come le atmosfere baleariche, le tentazioni disco e le divagazioni kraute. Purtroppo dal vivo assecondano la merda soft rock. Completamente live (primo chitarrista che sembra uscito dai Franz Ferdinand, bassista stagista, cantante secondo chitarrista acustico merdone anni Ottanta, vocalist finto-negra e uomo più grande degli altri che manovra un cdj, un pad e dei controller), raccolgono un pubblico composto da me, qualche altro come me, i distratti pochi già presenti e un gruppetto di sedicenni pallettati osannnanti. Non so se mi irritino più le schitarrate acustiche con un volume troppo alto, il cantato melodrama, gli assoli del franzferdinando o le atmosfere pseudo-western di 2/3 dei pezzi (ah, quello che erano i Labradford di Mi Media Naranja). Solo il pezzo con la ritmica disco ha un senso. Il pubblico si dirada e loro terminano con fatica e io mi chiedo come si faccia a suonare davanti al vuoto.



Mezza e mezza. Mi sento al concerto dei Tokyo Hotel, ma anzi no, è qualcosa di più. Tutte le sedicenni si radunano davanti al palco per il live dei Motel Connection. Foto e urletti e i tre che siccome sono quarantenni e si vergognano di fare una cosa che una volta era pseudo-avant, ora la buttano in caciara e sono sopra il tavolo semi-circolare e ballano chi mostrando la panzé, chi facendo le facce, chi ricordandosi di essere troppo per tutte queste cose. Comunque su Two è scattata la lacrimuccia.



Derrick May ha paura e mena. Niente sfumature o anima, alla fine è il primo e la sala verde ha più gente e dovreste sentirli, quelli che ci sono: quando arriva Lusiano? Troppe botte, Derrick May ripete per una decina di volte un togli cassa anomalo e sbilenco ma sempre uguale e io non riesco ad apprezzare, forse è troppo potente il sound system e non ne ho voglia e solo due volte arriva un sassofono a screziare, uno dei quali mi sembra dei dOP. Le prime file sollevano uno striscione: Los Ninos De Fuera. Due o tre pezzi di back to back e Luciano arriva con i vocalizzi Eliza-pygmalionici appunto di Los Niños De Fuera. È delirio, ma tolto questo e altri due pezzi del nuovo disco sembra di essere un anno e mezzo fa al Fabric. La prima volta pensi che sia una rottura di schemi ma due anni dopo è lo spettacolo della rottura degli schemi. Avrebbe ancora motivo, penso, se avesse il senso di un live che deve raggiungere tutti nel suo messaggio di personalizzazione della minimal etcetera etcetera. Nella realtà, con i fedeli che fanno il cuoricino con le mani e lui svizzero-finto-sudamericano che risponde, ti rendi conto che tutto è collaudatissimo e uguale al 2008 con le trombette le fraschette e i tric trac, se non fosse che ora sai i nomi dei pezzi che poi sono diventati La Mezcla o Caminando (che-avrebbe-dovuto-essere-caminhando) e adesso c’è l’orrida cover chipmunks di Lumidee al posto di Rez. Qualche altro pezzo di back to back con Derrick May e poi appunto il finale. Di seguito l’originale, perché per recuperare la potenza politica del canto sotto il regime brasiliano che costò l'esilio allo zio di Villalobos serve un video della cantante Nicole che è stata utilizzata da Reboot e che nell’85 in Argentina mentre il Brasile tornava a un minimo di democrazia con l’occhio dell’alcool canta di mi Buenos Aires querido. Non c’è niente di peggio che svalutare i canti di libertà.



Nota di colore: mentre andavo verso l’auto alla fine della serata dall’altra parte di Corso Sebastopoli c’era soltanto un altro tizio e io guardavo verso di lui mezzo sorridente. Il bassista dei Motel Connection ha una pagina di wikipedia troppo fica.



Two - Motel Connection

2.11.09

Metalmeccanicheadz

Che bella la cassa integrazione al venerdì che consente di poter far tardi il giovedì per sentire il djset di Omar S (ma sarei andato comunque). Me l’immagino già la scena: io spiego ad Omar S cos’è la cassa integrazione e lui che si incazza e mi dice “Ma tu lo sai cos’è stato per Ford The Way Forward?”.
(Piccola parentesi per quelli che leggono ma non sanno chi si sia Omar S: tra i santoni della techno/house di Detroit, lui è quello che lavora ancora in catena di montaggio alla Ford, controllo qualità dei pezzi. Fa musica in bilico tra funk e meccanicità, anima e robotica, ma poi si lancia in interviste, spesso incoerenti tra loro, in cui insulta tutto e tutti e sembra solo un allupato del soldo e della tastiera)

Dalla zona della pista dove mi trovo non lo si vede: il Giancarlo2 ha una console su una piccionaia sopraelevata e solo alcuni posti consentono l’eye-contact dj-pubblico. Quando salgo le scale per dare un’occhiata (si può, niente zona combriccole tipo quelle dei due giorni successivi) Omar S ha proprio quel grugno delle foto promozionali da “vaffanculo stronzi” che è l’esatto contrario delle buone sensazioni che vengono fuori da quello che passa. Il filo cosmico iniziale attera sulla house di Chicago, aumenta per poco la massa con una sequenza più vicina alla techno e all’acidità per poi ritornare al soul. Sempre morbidissimo, pieno di classi-coni e di molti pezzi suoi perché come sapete la musica nuova fa cagare e anche gran parte della vecchia, se non è la sua. Rido tra me e me e mi chiedo se sa di aprire per un festival gemellato coll’odiato DEMF in cui ci saranno tanti degli stronzi che ha preso di mira nelle interviste e che la gente non paga per sentirlo. (Se non si è capito Omar S mi diverte assai)

Siccome Omar S però non sopporta gli stronzi che su internet gli rubano dei soldi mettendo i suoi mp3 così che la gente del terzo mondo se li scarica invece che comprarli, in onore del fatto che sono tornato a piedi dai Murazzi a Corso Francia (dannata sostitutiva della metro che parte alle cinque) canticchiando il sample del suo ultimo pezzo e dato che in un’intervista a Fact Magazine chiuse in maniera completamente slegata dal pippone sull’io-padrone-di-me-stesso dicendo “Oh, and something else that you might want to throw in there, I don't how you can fit this in, but – you know who Florence Ballard is? From The Supremes? I was related to her, if you want to put that in. She was an aunt of mine. I ain’t never told anybody that before.” niente mp3, ma il video del gruppo della zia che canta il sample del pezzo del nipote.