24.2.06

Pioggia/debole


Qui non si è stati al concerto dei Death Cab For Cutie e non per questioni di snobismo, di tormento o di metereologia. I concerti nel mezzo della settimana lavorativa dall’altra parte dell’Italia sono un problema, quelli nel mezzo di una settimana lavorativa in cui si trasloca in un bucolocale spoglio di tutto ma con ben due scrivanie lo sono ancora di più. E poi tanto ritornano, si pensa. Il saluto a Beniamino passa per l’ascolto del suo controcanto nel Postal Service Remix dell’infeistata Mosciabum, ché insomma si temeva per la perdita di tono degli ultimi episodi.

Ascolta Mushaboom (Postal Service Remix) - Feist

Oyo She Me Day Don Bay Leave Me. Questa è un’interferenza metereopatica, ché insomma bisognerebbe capire che se il proprio grande merito è essere specchio della non linearità che gira intorno, non si può linearizzarla o renderla fruibile come un modello attraverso la ripetizione. Questo come promemoria, tanto finirò ad analizzarmi in privato Bitter Tea dei Fiery Furnaces come fa un qualsiasi fan del prog-rock con i dischi fotocopia degli anni Settanta. E però è un ritorno all’EP. E però quelle parole ritagliate come un messaggio di sequestratori. E però non c’è più la vecchia.

Interferisci Nevers - The Fiery Furnaces

Il cielo grigio è modulato in ampiezza. Che tempo fa a Beirut, Albuquerque, Bari? Nelle cartoline mandate dall’Italia il cielo non è mai grigio. Postcards From Italy dei Beirut potenzialmente mi irriterebbe, invece la uso quando voglio distogliere gli occhi dalla finestra. Una marcetta mariachi che ti delocalizza. Dopotutto il senso delle cartoline è questo, no? Magari l’appendo al muro in cucina.

Spedisci Postcards From Italy - Beirut

I’m in no fit state, I’m in no fit shape. Non è il tempo che ci butta giù, forse solo il (tras)loco. Comunque per me questa è una delle canzoni dell’anno, lo dico da ora. A parte le pippe sul riciclaggio delle strutture alla Coldplay, a parte un eventuale remix che prendesse di mira quelle tastierine, a parte che sembra suonata dai soggettoni de La Rivincita dei Nerds, a parte questo è un inno e come tale ci inizio e finisco la giornata e lo suono a ogni medaglia non vinta. To fall in love with you / To make the record of my life.

Ballaeinneggia No Fit State - Hot Chip

L’ascolto di Couldn’t Sleep di Milosh, ovvero debolezza tristor'n'b + prog minimalismo atmosferico, mi ha portato verso il video flash di You Make Me Feel. Sullo schermo grigio piove e io son qui, avvinto come l’edera. Dalle piante e dalle nuvole appare una figura femminile che mi fa venire in mente certe foto di mia madre da giovane, anche se non le somiglia per niente. Questo video è il qui-e-allora, mi dico. Poi mi accorgo che quando vai sulla pagina, si determina la stazione metereologica a te più prossima, si controlla che tempo ti fa intorno e il video viene impastato di conseguenza. Chissà come sarà d’estate.


Guarda che tempo fa su You Make Me Feel - Milosh

21.2.06

There Is No Ending


Aidan Moffat solleva il suo ginocchio sul monitor di palco, Malcolm Middleton ride. C’è dell’ironia voluta nell’affidare la chiusura ad It’s a Heartache di Bonnie Tyler, così banalmente lineare in apparenza e invece così ebbra che il Circolo Degli Artisti, ancora sull’onda del non-finale del precedente bis, diventa un enorme pub dei sobborghi di Falkirk in preda della gioia alcolica più sfrenata. Fa poca differenza che io non abbia toccato simili bevande nelle ultime ventiquattrore, l’aria del concerto romano degli Arab Strap è quella: i barbuti padri di famiglia con le guance rosse delle pinte passate di There’s No Ending forse non sono più soltanto la tradizione dello sgabello accanto, sono l’uomo maturo che confessa nell’appena precedente Big Brother la gelosia per la gioventù degli ultimi dieci anni, per i letti sfatti in cui non rimane nessuno, fino alla prossima bevuta.



Si cambia e cambiano millimetricamente i temi delle canzoni. Sono forse più in pace con loro stessi gli strappi e non lo nascondono. C’è ancora tutto il bagaglio del passato nella fuga del cantante dal microfono a ogni parte strumentale, nella fine improvvisa delle canzoni, nell’iterazione ipnotica che una volta era della drum machine e che ora è della chitarra. Mancano le sfumature di fiati e archi, risolte con riverberi e impatto da Middleton, e forse manca la disperazione assoluta del non sapersi disperare, che emerge solo negli episodi cronologicamente più lontani.



Il sottile equilibrio tra il presente e la rilettura del proprio passato si sintetizza allora nella scena madre del concerto, tributo alla produzione alcolica pugliese. Mentre Malcolm Middleton si affida a brevi sorsi di San Severo Rosso, Aidan Moffat apre una lattina di Peroni dopo l’altra. A un certo punto, incitato dal pubblico, ne stappa una e la ingurgita tutta in un sorso raccogliendo il tripudio generale e superando incolume il rischio del blocco gastro-intestinale. Alla lattina successiva tutti quanti chiedono il bis, ma lui stacca la linguetta, si bagna appena le labbra, sorride sornione e dice che non ci sarà una seconda volta, ragazzi.

Shooting An Arab


16.2.06

Not So Hot


Hot Chip – Careful
Il nuovo disco degli Hot Chip inizia con una rassegna di modernariato anni Novanta. Ritmiche ai bordi del drum’n’bass, cori angelicati, atmosfera da rave di provincia. Nell’intermezzo si consiglia di muovere le mani in aria a mulinello, come se fosse necessario proteggersi dal sole. Bah.

Fuego – Misa Criolla
Quando pensi di aver raschiato il barile delle schifezze da riabilitare, cosa c’è di meglio che affidarsi all’italo disco? In questo caso poi si tratta di italo-argentinian-christian-disco. Oratorio faster, d’altra parte se James Murphy ormai si permette Westbam feat. Nena, perché qui si dovrebbe recitare il ruolo di quelli con la puzza sotto il naso?

Goldfrapp – Number One (Múm Remix)
Quando in una recensione leggo la storia della ninna nanna ormai mi girano le eliche. Quando in una recensione leggo la storia della ninna nanna legata a qualcosa dei Múm divento un elicottero. Però questa volta faccio uno strappo. Perché c’è del genio nel far diventare Goldfrapp una balia, viene voglia di avere per le mani un neonato e di farlo addormentare mentre gli si canta:

“Walk out into velvet
Nothing more to say

You're my favourite moment
You're my Saturday

Cos you're my Number 1
I'm like a dog to get you”

15.2.06

I’m having a last good time


L’insensatezza di ogni fine. La voce incantata del bambino che si chiede cosa sia successo al gatto è un nastro che si attorciglia su se stesso. La sensatezza di ogni fine. Quel pianoforte che insieme strappa e asciuga lacrime cerca di spiegare che a volte, per quanto ingiusto e incomprensibile, il termine è la nostra essenza. E allora ci sediamo per terra, le gambe che si incrociano, e ammiriamo la fine intorno a noi e il passato su uno specchietto retrovisore tutto sgangherato. L’estate finisce per l’ultima volta, gli aerei cadono intorno a noi, resteranno solo gli animali. Siamo fan di queste cose, (della fine) dei blip bzz tic dei coin-op del baretto scalcinato sulla spiaggia, la modernità sulla spiaggia dimenticata dal futuro o meglio sul deserto della nostra infanzia. Per questo diamo un altro colpo all’asfalto, mentre l’altra scarpa tiene lo skateboard, perché siamo sicuri che quello che ci ha salvato due volte, alla terza ci accompagnerà fuori dal palcoscenico sani, e salvi, e poi inesistenti. Resteranno forse tutte le nostre cose nel posto dove non siamo più, i ritornelli-miagolii del gatto registrati su una manciata di bit, i pogo solitari nelle stanze vuote e l’autoironia dei proclami sulle nostre magliette: “Io non voglio lavorare ogni notte e giorno scrivendo canzoni che facciano piangere le ragazzine”. Certo ogni possibile giudizio su tutto ciò si esaurisce nell’essere parte della fine, nell’essere il segreto che tormenta il bambino. La disconnessione arriva. Tutto era stabile ieri, tutto viene spazzato via oggi, rimane solo il rumore di un bicchiere che si schianta per terra per un goffo movimento del gomito.



14.2.06

Music won't save you from anything but silence


Serata strana. Gente mai vista attorno. La metà di chi sta dalle parti del bar e dei tavolini non è lì per il concerto, non sappiamo perché sia lì. Ci guardiamo intorno, si guardano intorno, è il trionfo dello sguardo che normalmente si riserva alla visione di extra-terrestri. Accettano con sollievo il termine del concerto del gruppo spalla locale, pensando che sia finita lì. Speriamo invano che si decidano ai propositi di fuga più volte espressi. È il bello e il brutto di un posto trasversale, mai trasversale come questa sera, Piano Magic e poi disco tamarra, molto tamarra.


I Piano Magic hanno chitarre e voci rotonde. Gli arbusti sullo schermo sono certe batterie, intrichi di macchina e pelle su cui inciampi mentre le tastiere sospingono il tuo sonnambulismo. Il cantante antidivo ha uno scheletro appeso al pantalone, il chitarrista è il suo alter ego: sta per caso in un gruppo introverso, ma è tutto una mossetta, una schiena al pubblico, collanone d’oro e una panza di birra che cercano la scena. Mancano le ragazze purtroppo, ma è il prezzo dei gruppi aperti e se non altro non si assistono a stravolgimenti fastidiosi per questo motivo.


La scaletta parte con un trittico da Disaffected, marcia di ingresso, sospensione, tiraemolla. Non ci preme qui esprimere giudizi sulla validità in assoluto dei Pianomagici, ché noi proviamo verso di loro un sentimento di abbandono, li usiamo, come una colonna sonora come all’inizio di questo blog o come un luogo oscuro e rassicurante com’era tutta la musica che li ispira. Saint Marie è il primo matematico passato che affiora dal repertorio e da questo momento si va avanti e indietro, come le parole spesso suggeriscono. Suggeriscono che non ci sarà chiusura, ma so che la realtà è quel pubblico al fondo della sala che chiacchiera e che aspetta i bpm e che fortunatamente non sento perché sfortunatamente i pianomagici evitano gli episodi più eterei. Gli addii a Londra, le assenze di mete, che mi mancano. Perfino il bis manca, procedono verso la fine senza abbandonare il palco, facendo segno sull’orologio. Silenzio. Password.


La canzone per gli ingegneri è la coccola di chiusura. Sono ancora sul palco quando parte un anonimo unz unz che qualche secondo dopo si tramuta in Sorry di Madonna. La balliamo fino alla fine e poi prendiamo i cappotti e la via di casa e ci rendiamo conto che mentre noi eravamo rapiti in prima fila sotto il palco, il locale cambiava volto per una nottata molto grezza e molto gaia.

13.2.06

On Repeat


L’annosa questione di Jacques Lu Cont e i suoi remix. Un’unica idea stiracchiata, o meglio spalmata ovunque. O forse no. Mentre la produzione per Madonna non scorda mai i suoi confini pop, pur giocando con le parti e con i cliché e con i mondi dell’uno e dell’altra, la sequenza di remix sembra procedere per passi millimetrici verso la codifica del perfetto crescendo pop psichedelico da ballo, vera possibilità per il 2006 se stiamo a sentire i segnali che provengono da casa DFA, la quale ha afferrato la palla al balzo per non restare chiusa nel cliché del campanaccio finora maturato. E che fa Jacques Lu Cont in incognito per smascherare il suo intento? Prende un trascurabile pezzo del nuovo disco dei New Order, I Told You So, assume il nome 3 e tira fuori un mantra che, non oberato da obblighi dance, va oltre la screamadelia fino a rendere Sumner e Hook hippie di una comune dimenticata tra il cemento armato di Madchester. Moriremo figli dei fiori? Nel dubbio leggete simili riflessioni e ascoltate una versione purtroppo incompleta del mix da Green Pea-ness.

Qualcosa fuori dall’immagine


Piano Magia

Strangeways, here we don't come


Come se Cat Power e la mogliera modella di Jack White cantassero Je T’aime (Moi Non Plus) in un lesbo-movie vanziniano.

Come se fosse possibile deframmentare il proprio cuore come fa Britta Persson, buona l’idea peccato la realizzazione.

Come se una sigla volesse dire hai capito? e in fondo che ti accorgessi o no era indifferente.

Come ti suicido la serata


Il posto freddo e semivuoto accoglie la cerimonia del suicidio, non come gesto personale patetico e narciso ma come sacrificio forse inutile del sé singolo in vece del resto dell’umanità. Il suicidio di Alan Vega e Martin Rev era questo, l’autodistruzione di Elvis affogata di sintetizzatori, l’America che scopre l’impossibilità di essere ancora giovane e bella e col ciuffo, gli zombi dei motociclisti e delle ragazze con la coda di cavallo e le gonne vaporose. La fine di un sogno e la positiva disillusione seguente.

Non fa specie allora che la serata parta con l’iteratività della nostra esistenza, con le frasi ripetute in litania finché vanno oltre di noi, con le canzoni che si suicidano riflessive. I Judah sono due e sono devoti al culto di Vega e Rev, ma con uno scarto di riferimenti: è come se il Dead Elvis avesse passato il testimone a Jim Poster-per-adolescenti Morrison (ascolta per credere). Le musiche sono molto belle, ma non si sfugge all’impressione di vedere – per quanto ben fatte – le canzoni dei Suicide su una Smemoranda accanto a Riders On The Storm e accanto a un disegno in bianco e nero delle urla trascurabili alla Alec Empire.

Poi entra in scena Martin Rev, vestito con un completo di pelle di serpenti di plastica. Gli occhiali enormi si spalmano sul suo volto come se la velocità degli ultimi decenni glieli avesse sciolti addosso. Ogni canzone è un singolo campionamento techno martellante su cui lui si muove rockabully, prendendo a pugni la tastiera e borbottando yeah yeah samfing like hmmm. Non balleresti mai queste cose, ma intorno a te la gente si dondola in trance, ma così in trance che mentre due enormi riflettori rossi sparano migliaia di watt sulla tua retina, non chiudi gli occhi perché non senti il riflesso del caso. Non riterresti mai interessante dal punto di vista del musicista un pulsante che fa partire una traccia e due o tre tasti saltellati prima di un ghigno e hmmm drbgl. Consapevole del mio divertimento e inerme, parte l’ipnosi a velocità doppia di quelle due note ripetute, America America is killing its youth. Un attimo, e si ritorna al rave dell’anziano popolato fino alle tre e mezza di Guantanamere in decomposizione e dischi da garçonniere incantati su se stessi. Stacca il campionamento al momento sbagliato. Prende a mazzate il bianco e il nero. Non con un bang, ma con un ghigno.

Le Mani (del dj) Sulla Città


10.2.06

James Brown Is Dead (Zanzarismo!)


They’ll try to kill your style, your manner and James Brown


Video ovviamente lo-fi (clicca sull’immaginetta autoprodotta per vedere la versione small) e, se apprezzi, muovi il q-lo sul Lo-Fi-Fnk rmx di After Dark di Le Tigre.

9.2.06

There’s more important things than clicking these links


Il video di Sorry di Madonna è una trashata orenda. Brutto forte, eccezion fatta per il trenino coi pattini.

L’atteso duetto di Madonna coi Gorillaz ai Grammys è consistito semplicemente nella sovrapposizione del ritornello di Hung Up con l’intermezzo acustico di Feel Good Inc. tra una canzone e l’altra. Madonna sembrava un ologramma come tutti gli altri. Jacques Lu Cont, azzimatissimo, ha caricato un po’ il beat.

Far From Home (DFA Vocal Remix) - Tiga
Far From Home (DFA Instrumental Remix) - Tiga
(dici, che c’entra? Sentite la coda delle due versioni, scritta col proposito “qui faccio entrare Hung Up”)

8.2.06

Quando sento musica che mi piace io ballo,
Quando sento musica che non mi piace io non ballo


Puoi dargli torto? È vero che da queste parti si è capaci di animare una pista da ballo vuota, incuranti degli sguardi di chi necessita la folla per dimostrare l’imperizia nel ballo. Ma si è capaci anche delle dai dj temutissime braccia conserte con sguardo sprezzante. Questo minimo asserto di Cajuan in Dance / Not Dance è così semplice e pregnante che non solo io sono stato vittima dell’ardita elucubrazione: tra gli altri i Digitalism hanno provveduto a fornire all’amico conterraneo un apposito e gradevole remix, mentre Benny Benassi ha scelto lo stripped mix come chiusura della sua Cooking For Pump-kin. Oggi Cajuan ritorna con un singolo in due versioni, Raven. Concentriamoci sulla Raven A e tralasciamo le code iniziali e finali, mero rimasuglio della Raven B: verso 1:15 è come se Jacques Lu Cont animasse dei pupisiciliani a forma di Daft Punk periodo Discovery. Un devastante incrocio tra le tecniche di crescendo plastificato dell’uno applicate ai materiali sonori roborocked degli altri. Un buon clone direte, ma allora perché da questo pomeriggio mi ritrovo a parlare all’mp3 e a dirgli “Perché finisci, perché?”.

7.2.06

You Go For DFA, I’ll Go For DNA


Visto che i recenti mix festivi della DFA sono stati segnalati anche al supermercato, qui ci si distacca e sotto l’egida del DBE (Dipartimento Ballo Educazione) vi si propone il No Wave Mix degli Optimo che parte dai magnifici quattro di No New York e prosegue con paralleli, filiazioni e tirate per i capelli. Chitarre grattugiate, sassofoni, ‘dodici ragazze e il campanaccio’, l’hip hop (!) e molto altro, commentati traccia per traccia con piglio da fan che gira per mercatini (o per eBay) in cerca di sette pollici dimenticati.

ps: visto che siamo in tema Optimo, recuperate anche il Tropicalia Mix, orsù.

6.2.06

Mon (Apocalyptic) Day


current mood: si evita la meteorologia spicciola

Parliament Square (The Knife Remix) - Stina Nordenstam:
I soldatini di plastica hanno tamburini di plastica alla loro testa. Una voce è rallentata, cambia di tonalità, cambia quasi sesso. Quando arriva al crescendo, la tengo in loop in maniera indefinita, in attesa di qualcosa.

Sheffield Shanty - Monkey Swallows The Universe:
Fuori dalla finestra oggi tutto è immobile. Dentro invece c’è la lentezza della provincia. Fa niente che sia la stessa provincia inglese dalla quale provengono gli Artic Monkeys. Non te ne accorgeresti mai, se una scimmia lì fuori inghiottisse l'universo.

(Baby Baby) Can I Invade Your Country? - The Sparks:
Posso invadere il tuo est e il tuo ovest? Il tuo nord e il tuo sud? Oh baby, baby.

The Sky Was Pink (Icelandic Version) - Nathan Fake:
La dolce sensazione di avere la fine del mondo attorno, in Islanda.

Heartbeats (One Music Session) - The Knife:
Another night to be confused,
another night to speed up truth,
sharing different heartbeats in another night.

2.2.06

Crying At The Discoteque


Un unico ossimoro tormenta le mie orecchie nelle ultime ore. Non so se sia inconscio desiderio di ritorno alla bella musica depressa di una volta, ma una dopo l’altra si assommano nella mia rotazione privata canzoni di luci stroboscopiche e fazzoletti di carta. Medito di riunirle in un catartico mix, una discoteca senza sorrisi scemi con tanto di Stina Nordenstam e quei tamarri dei Cicada.

Poi, come si dice in questi casi, arriva anche la mazzata. La colpa è sua, che negli ultimi tempi ha più volte tirato in ballo il nome di Nathan Fake. Oggi mi sono ritrovato tra le mani il suo Drowning In A Sea Of Love, che credo mi terrà impegnato per un bel po’ di tempo. Ora, io potrei limitarmi a segnalarvi l’mp3 di You Are (Not) Here, epico pezzo che riassume tutto la mia attuale fissa per il dissidio tra il core deanimato fatto di bit e forme d’onda e lo scostamento tra ambient(e) e sentiment(o). Potrei, ma non mi limito.

Quello che vi propongo è un parallelo tra la versione su disco e la versione live. Ma tanto quello dal vivo si controlla la posta, dici. E invece no. Se l’ originale punta su come gli strati di sfumature si confondono tra di loro in maniera timida, quasi educata ancorché emittente, quella dal vivo abbandona ogni reticenza e si fa nuda più velocemente: in maniera prima scomposta attraverso le interferenze originariamente non presenti, in maniera palese poi attraverso l’ingresso anticipato del tritato di assoli di Brian May. Quello che prima era quasi un pregiato esercizio di stile sul tema “canzone sulla cristallizzazione della scomparsa dell’amato/a”, assume una vitalità forse eccessiva ma che sa molto di concerto e di palcoscenico. Dopo tutto è una canzone che recita la parte di una canzone d’amore lontano e la distanza tra le due versioni è quella tra un testo teatrale e la voce di un attore che si rompe, sempre impostata, nell’urlo che prima era solo un sussurro. You Are Here. Tutto ciò mi piace per questo, o forse perché sembra davvero che un musicista stia aggiungendo qualcosa, suonando dal vivo.

Anything Can Happen In Life,
Especially Nothing,
Mainly Nothing


Oppure i Piano Magic a Bari. Gioia. Tripudio. Lacrime.