30.10.06

Iniuriam qui facturus est, iam facit


Io non sapevo che in Italia ci sono i motel, ma i motel quelli che vedi nei film americani con gli ingressi a schiera e le persone che rintanano le loro losche avventure all’interno di quattro stelle e quattro mura ricoperte di specchi che rimbalzano specchi che rimbalzano altri specchi. C’è anche lo sciampagnino nel frigo bar, dieci euro / trenta centilitri. Di notte le macchine si affiancano davanti alle porte, di giorno scompaiono, formalmente perché siamo accanto all’aeroporto e qui si è solo di passaggio. Uno strano materiale impedisce l’uso dei cellulari all’interno delle camere, accessorio tacitamente provveduto, ma le stanze non tacciono i sospiri lascivi di una donna, o forse di uno schermo televisivo a pagamento, due numeri più avanti. Per cena troviamo un ristorante condotto da una famiglia circense. Mentre l’entrecot al pepe verde mi si scioglie in bocca dimostrando con grani freschi e non secchi la mia inettitudine davanti ai fornelli, Chuck Norris mi sorride in foto abbracciato ad acrobati in rosa lamè.


Percorro la strada per lo spazio a piedi, come l’altra volta. Costeggio i capannoni fantasma della Facit e di altre aziende dalle insegne con caratteri tipografici che ti raccontano lo scorrere del tempo come rughe accanto agli occhi. Chi è fallito ha lasciato le luci accese dentro, tanto non pagherà mai quella bolletta. La macchina di un metronotte, forse solo per abitudine, entra dentro un recinto in cui si ammassano container marchiati “Traffici Internazionali”. Ogni volta che prendo l’autobus che mi lascia all’inizio di questo viale tramontato penso che arriverò in ritardo e invece, alla fine, mi trovo sempre in anticipo in un locale vuoto dove un ragazzo sistema un riflettore e altri montano un banchetto con magliette e cappellini. Temporeggio all’esterno impedendo visioni remote di Ballando con le stelle e poi sistemo la mia solitaria presenza tra un muro di pin-up e un tavolo con una rossa doppio malto. La via al basso costo oggi è La Rossa Moretti alla spina, ma prima o poi i cinesi ci fregheranno anche l’alta gradazione alcolica, oltre che l’industria tessile.

Lo spazio si popola stanco e lento, di gente di una certa età, di un gruppetto di erasmus tedeschi, di molte monadi amiche della colonna o dello sgabello. Un cocktail a base di arancia chiede se il posto al mio tavolo è libero. Una birra bionda avanti è vestito elegante-ma-non-troppo come me ventiquattrore prima. Un niente sul tavolo manovra una digitale mentre la sua gonna a fiori non svolazza in saluti ai tremendamente belli. Sembra di stare in un Lost In Translation dove non incontri mai Scarlett Johansson, il tempo scorre e mi convinco che i futuristi russi sono stati bloccati alla dogana, come l’altra volta successe alle loro magliette. Greenspan cammina intorno con una maglietta consunta e passi sempre troppo lunghi che lo fanno oscillare come se fosse la mia palla antistress XXL. Didemus scia quasi sculettando con camicia e pantaloni costruiti su di lui. O conoscono bravi fotografi o negli ultimi mesi hanno avuto un tracollo fisico: Didemus invece di assomigliare a uno dei miei fratelli (o meglio, a uno dei miei fratelli se i miei fratelli non avessero optato per un’inclinazione cromosomica tendente al ceppo paterno) sembra il cugino di Matteo Salvini; Greenspan tocca vette finora inesplorate persino dai cantanti di Arab Strap e Piano Magic. In più si portano appresso uno skinhead in giubbotto di pelle e maglietta dei Motorhead, che tiene il suo cuscino preferito dentro una batteria durante i viaggi.


Mi colloco nella posizione “Sono la persona che qui tiene più a questo concerto”. Fin dall’inizio con The Equalizer, la batteria vera si aggrappa ai battiti programmati e il basso con le corde conferisce appena un respiro agli arpeggi dalla scrittura sintetica: forse vogliono dare carne e sangue ai bozzoli di insoddisfazione silicea, ma ne viene fuori uno straccetto di umanità che cerca di aggrapparsi alla scansione del clock per sopravvivere. Seconda, subito, Teach Me How To Fight. Greenspan imbraccia la chitarra e mi insegna di nuovo, se ce ne fosse bisogno, che questa non è una canzone da finali, ma una sulla rinascita, su corpi che dimenticano parole e sangue sulle magliette e tutti i suoni distorti impercettibilmente. Didemus preme lo stop e il restart, mentre piccoli vibrato percorrono le sei corde elettriche. Greenspan tiene gli occhi chiusi mentre canta, ma solo perché nel frattempo il sole sulla sua faccia è diventato troppo forte e lo acceca freddo. Il primo disco ricomparirà solo con Birthday, per il resto ripropongono senza troppe variazioni l’atmosfera meno danza del disfacimento amoroso più synthpop dell’eterno vagare tra non luoghi del secondo. Le erasmus tedesche si lanciano persino in balli, mentre Greenspan a un certo punto farnetica di fontane di Brio (non Sergio, non Blu). Alla fine i plin plin di FM dondolano tra le casse a destra e quelle a sinistra, mentre il falsetto sussurra di ritorni a casa e di “nessun altro suono, finché non dirai (che sei) ok”. Quell’altro suono sarà uno “Sweet one, sweet one, under the sun” che parte come un anti-finale, aperto e ciclico a differenza della precedente chiusura, e continua infinito con bordate di chitarra a squassare il contenuto dei nostri petti. Resto un altro po’, per raccogliere le idee, confuse più che prima. Alberto Campo mette dischi mentre continuo a ripetere in favore di camera “Tempo di relax, tempo di Moretti”, con intensità. Poi decido di impiegare lo spostamento indietro delle lancette del mio orologio camminando a ritroso tra le rovine del manifatturiero italiano.

25.10.06

Hello. I wrote a song for you called “When I’m Not Around” and my name is not Billie Joe

Il qui presente da domani si trasforma in palletta da flipper in su e in giù per il continente.

Nella fattispecie:
- Giovedì: sveglia alle cinque per trasferimento a Torino via mezz’ora a Fiumicino. A Torino il sottoscritto conoscerà importanti rivelazioni circa lasuavitadal2008inpoi. In serata seguirà sistemazione in alberghetto a Malpensa che impedirà presenza ad aperitivi esclusivi o partecipazione al concerto delle Erase Errata al Magnolia (Magnolia is the new place to be?).
- Venerdì: sveglia alle cinque per trasferimento ad Hannnover con aereo personale per una specie di Giochi Senza Frontiere. Andiamo ad ammirare la nostra nuova creatura, sperando che i concorrenti tedeschi non ci facciano troppo male con la loro nuova creatura. Questo respingente su cui batterà la palletta è quello che giustifica la successiva parte, detta anche ‘dei due giorni all’interno del quale ci sarà la serata che andremo a identificare con la specificazione dei brividini di Massimiliano’. In serata si rientra a Malpensa, si suppone nello stesso alberghetto di cui sopra atto all'ostacolo di aperitivi ancora più esclusivi o della visione di Willard Grant Conspiracy alla Casa 139.
- Sabato: sveglia alle cinque solo per uniformità di scrittura, visto che in programma c’è soltanto un banale Malpensa-Milano Centrale-Torino Porta Nuova. In serata The Russian Futurists apriranno il concerto degli amati Junior Boys. Ricordate, i Junior Boys sono quelli che a voi non piacciono perché non avete mai sentito/capito i Blue Nile e perché non andate d’accordo con il concetto di strobo applicato al romanticismo. Un’attesa che montava da ben due anni e che è culminata in questo consueto incrocio di coincidenze. Le mie aspettative sono enormi, tipo che ho messo in conto la frantumazione scomposta del mio organo atto alla generazione della circolazione sanguigna.
- Domenica: sveglia alle cinque perché ormai si è assunto il fuso orario del triangolo delle Bermuda. Si ritorna a Bari, pronti per nuove e mirabolanti avventure come l’altro evento atteso da infinite estati (Fennesz), la sempre caruccia Barbarella Morgenstern, il come eravamo dei Sodastream, Langhorne Slim (se ci scappa) e una stagione dello Zenzero che vorremmo con qualche nome di quelli che sarà al Club To Club di Torino più che con i soliti reduci di trip-hop e jungle.

(Siccome per qualche giorno non potrò passare da queste parti, vi lascio con un’anteprima: io e Damien Rice siamo al momento tra le persone più distanti dal punto di vista musicale. Ma poiché così potrebbe non essere per voi, favorite l’ascolto del pezzo meno simile all’atmosfera del disco, incentrato sul solito topos “'O sciore cchiù felice è 'o sciore senza radice” e fornito attraverso la lussuosa cornice della versione business di prova di Yousendit)

Rootless Tree – Damien Rice

23.10.06

Cereali per cigni

In un ideale chiasmo con la dizione volatili per diabetici, in questo post non si risponde al fondamentale interrogativo “Ma ora che i Klaxons sono sulla copertina dell’NME e vengono ballati dagli indiefighetti di ogni dove, ci stanno meno sulle palle di quando erano il pastrocchio programmatico-virale di un gruppetto di fuoricorso a Filosofia?”. Il tema del post è invece “Tutti remixano i Klaxons e allora perché non lo faccio anch’io?”. Pensate, ieri stavo guardando il Ring a Buona Domenica e litigavano su chi aveva preparato il remix più bello. Poi volevo mangiare delle stigghiola prima di lasciare la mia terra natia, ma lo stigghiolaro aveva abbandonato il suo banchetto e si era trincerato in casa davanti alla sua versione craccata di Acid perché non riusciva a trovare il finale. Infine il mio pullman per Bari è partito con mezz’ora di ritardo e forse immaginate cosa stava facendo l’autista. Detto ciò non resta che mettervi a parte del mio remix, che come al solito in realtà non è un remix ma un mashup (sponsorizzato dalla Cameo), ovvero il remix che avrebbe fatto Vitalic di From Atlantis To Interzone se non si fosse messo in mezzo Lady B. La resa è direttamente proporzionale al volume di ascolto, anche perché così notate meno la consueta produzione fatta col mignolo della mano sinistra. Feedbackup riesce dove fallisce Push Push, il nuovo singolo di Den Harrow. Provatelo a colazione!


22.10.06

Febbre

La mia febbre a trentotto non apprezza il dubstep come sottofondo. Distant Lights però non è dubstep, nonostante suoni come il sud di Londra allo stesso modo del dubstep, nonostante contenga una voce maschile stregata allo stesso modo del non amato voodoo metropolitano di Spaceape con Kode9, nonostante le batterie siano coltelli che si affilano risplendendo nel buio allo stesso modo dei pattern figli del 2 step che mi fanno storcere il naso. Distant Lights è fatta dei gesti rallentati e sfocati dei trentotto gradi che ho addosso. Ripetuti e dimentichi della loro ripetizione. Se non fosse così South London, direi che puzza di tortellini in brodo, thé caldo al pomeriggio e camomilla prima di andare a letto. E riposo, tanto riposo, signora mia. La mia febbre a trentotto assomiglia alla discografia di The Field, anche.

Distant Lights - Burial
Over The Ice - The Field
Come Out (The Field Remix) - 120 Days

21.10.06

Run Run Run To Me

Visto che poco fa ho glorificato le Pringles, perché non citare la Nike? Dura più di quanto dice il titolo. Sembra un djset di James Murphy. Le andature sono diverse ed è utilizzabile per regolare il passo durante il jogging. Più che il nuovo pezzo degli LCD Soundsystem, un compendio della DFA dell'ultimo anno. E per il momento non si è ancora venuto a sapere se le transizioni tra le differenti sezioni siano state cucite da bambini indonesiani.

Rane





Frogtoise - Schneider TM

(Mentre Schneider TM usava come percussione un pacchetto di Pringles panna acida e cipolla - mia passione invereconda - e play-m lo fotografava per noi, io mangiavo altrove cosce di rana fritte piccanti)

17.10.06

C’mon join the joyride (non nel senso di Roxette, ma nel senso di rincorsa col fiato corto)

Io non mi scandalizzo con niente. Nemmeno col primo doppio ellepi/cd di remix della K Records, contenente ventidue (!) rielaborazioni del repertorio di Mirah. Però. Capisco che bisogna rincorrere i giovincelli come il sottoscritto appassionati di inutili variazioni sul tema, ma un progetto come un remix album deve avere un minimo di criterio: sorvolando sul fatto che la mole sia eccessiva e che oltre agli amicici dell’etichetta ci siano soltanto dei carneadi che nella migliore delle ipotesi sono usciti una volta a cena con Bjork e nella peggiore stavano dietro i Frou Frou, possibile che un’etichetta così rispettabile non si accorga che fare un remix non significa truccare una canzone da baldracca per gli aperitivi di Corso Como?

Apples In The Trees (Balvanera House Party Mix by Bryce Panic) - Mirah
(che si salva dando l’impressione di una b-side dei Knife che prima della fine si trasforma in una b-side latina di Beirut)

Ancora parliamo di Technics?

Ho potuto sentire solo domenica la puntata speciale di Pla(net)Rock dedicata a John Peel. Senza indulgere nella nostalgia (che c’è stata), vengo al sodo: io pensavo che l’ancora negativo fosse una prerogativa del barese, ma a questo punto è chiaro che non sia così.

L’angolo dell’apostolato

La classe operaia va in disco in autobus. Il 9 notturno fende la città a collegare due fermate agli antipodi, la porta del mio residence e il varco presidiato da buttafuori non addetti certo alla selezione. Gentili ormai dispensano solo la drink card all’ingresso e ritirano il pass all’uscita, in un contrasto delicato tra la loro fisicità e l’assenza di problemi, almeno questa sera. Dentro ancora è semivuoto e intorno circola gente con un terzo dei miei anni, abbigliata in modo da lasciarmi interrogativo sui miei attuali interessi musicali. Forse dovrei comprarmi una maglietta Guru o Traficante o indossare una catenazza d’oro. Il bar per fumatori del piano di sopra è il male e non tornerò mai più lì dentro. Piuttosto mi rado le sopracciglia e mi faccio una pulizia del viso dall’estetista. I Nice Guys timbrano il cartellino e passano la consolle a Valletta.

È la prima volta che vedo Valletta mettere i dischi e l’impressione è stata ottima. Robusto e divertente, mi ha fatto persino rivalutare il remix di Go di Moby, quel pezzo costruito sul sacco di plastica di Laura Palmer, ad opera di Trentemøller: a sentirlo in cuffia mi era sembrato una specie di teatrino in cui il buon Anders manovrava una piccola marionetta del cadavere umidiccio e diafano senza restituire il portato arcano e viscido del contrasto tra sfruttamento mainstream e paura della mancanza di senso, dell’originale e del telefilm; sulla pista e pompato di watt scatena una tempesta di flash neuronali, dal ricordo della prima puntata vista col televisore che moriva sotto i miei occhi perdendo i colori fino al monocromatismo di un verde livido senza vita, alla cassetta che mentre registra Go si spezza incastrandosi tra le testine e sputando tra i corridoi della scuola frattaglie calde di Ibiza, fino all’ultima puntata e all’afa torrida e lenta di una sera di Giugno. Subdolo convincerci con la componente revival dell’inutilità sublime delle nostre mani a mulinello contro le strobo. Poi Valletta ha proseguito con un remix gustosissimo di Three Weeks di Tiga (non mi è sembrato il Dahlback, né il Booka Shade, forse quello che gli ha dato Troy Pierce qualche settimana fa?) fino a incattivire di distorsioni e di break la massa che già ballava copiosa. E poi ho capito che dovevo cercare un’equivalente di una qualche Università del Sacro Cuore o del Santo Spinterogeno laggiù in Michigan, una di quelle in cui il motto è “All We Praise Is Parties”, come diceva Sufjan, un’università in cui studiare teologia e convincermi a colpi di imperatori bizantini che il logos è insieme ragione e parola e io posso parlarvi di queste benedette tre ore, attraverso queste stesse tre ore. Il divino non diventa più divino se lo allontaniamo da noi, diceva quello.

I momenti divini poi vivono del grottesco in cui sono immersi. Per esempio io non sapevo che in discoteca si usano ancora i vocalist che presentano con voce impostata i dj come in un film di Verdone sulle discoteche. Il divino però è una carezza sulla merda che spesso sceglie gli ultimi per manifestarsi, con tutto ciò che ne consegue. Mi chiedono se ho pastiglie, ma non ho con me quelle per l’esofagite da riflusso. Carl Craig apre lo schermo del portatile e poggia il primo cerchio del sistema solare. Inizia così, con l’insonnia, e io rido piano dentro la mia maglietta rossa che lampeggia nel nero circostante. Craig richiama Valletta accanto a sé e lo spinge al ricamo sulla coda del primo pezzo con gestualità da benevolo messia. Poi riprende in mano il mio destino e lo frulla con tutttelecosedelmondoinsieme, ma quando mi bevo insieme a tuttelecosedelmondoinsieme non ho né la fastidiosa sensazione di assaggiare uno di quei miscugli tra passoda e aranciata che sperimentavo quand’ero bambino, né l’autoreferenziale sapore di un carpaccio di avambraccio: è come se il meccanismo della fabbrica, il jazz dissepolto e ritagliato come un pezzo di puzzle appuntito più di uno shuriken, l’elettronica più sentimentale di un Numero 5 e tutti i miei atomi dal primo all’ultimo siano stati permutati per ottenere un nuovo universo fatto di sovversione degli schemi ed emozioni che non appiccicheresti mai alla carta di un cioccolatino.

Il flusso non suona né nuovo, né vecchio, perché sgambetta il tempo. I pezzi del passato sono utilizzati con fare moderno, ornati di sovrapposizioni e decostruiti nell’evoluzione orografica del set, mentre i pezzi moderni non sembrano nemmeno le stronzate minimali che potrebbero essere perché non vengono usati come stronzate minimali comprensibili solo sotto l’effetto di un cocktail di tachipirina e novalgina. Succede così che divento un pezzo di pongo e a volte Craig mi regala delle braccia da agitare in aria, altre volte un culo da scuotere sui bassi oppure degli occhi lucidi di vernidas. Lo stronzo, perdonatemi la bestemmia, monta crescendo che non esplodono per tutta la prima parte del set aggiungendo una componente ansiogena paragonabile al trattenimento contemporaneo di un centinaio di orgasmi. E mica trattengo solo quello: i quattro mini-cocktail sorbiti richiedono presto un contributo alla ricircolazione universale delle acque che non mi sento di concedere, incollato ai miei pochi centimetri quadrati sempre rivolti verso il palco e incuranti delle braccia esultanti, delle urla di gaudio e del trasumanare circostante. Al primo accenno di avvallamento mi inserisco in una fila per gli orinatoii dal quale presto scappo per bearmi dei ben noti sintetizzatori di quel ben noto remix che, strano a dirsi, qui appare come una semplice parte di qualcosa di ben più grande. Fotografo le luci e lo sciabordio dei sintetizzatori iniziali del mix di World Of Deep in loop mi inonda di alghe, cozze, squame di sirena e pezzi di barriera corallina. Cercano di trascinarmi via per evitare la ressa dell’uscita ma io non voglio perdere nemmeno una virgola del logos che intanto diventa un’accavallarsi di moti ascensionali finalmente risolti e infatti l’ultimo quarto d’ora è da brivido e da brivido sono le luci accese e alte come mai ho visto alla fine di un concerto, quasi che quelle migliaia di watt potessero rendere meno tetra l’improvvisa consapevolezza che la vita è continua tensione verso momenti come questi e non una sequenza ininterrotta di essi. Esco insieme estasiato e col muso lungo. Il buttafuori accenna un timido ciao, immalinconito dal momentaneo ruolo di passacarte della burocrazia della notte. Per la sopravvivenza al lunedì non resta che saltare sul motoscafo e risalire la Dora Baltea con i Mogwai nelle cuffie per incontrare quella gang cino-sudamericana che fa affari coi neonazisti.

World Of Deep (Carl Craig Mix) - E-Dancer

13.10.06

Ammazzate oh (l’assassino torna sempre sul luogo del delitto)

Non ho mai amato l’abitudine che hanno certe persone di apostrofare gli appena conoscenti con il nome di battesimo. Non ho mai amato i cantanti che quando fanno un disco solista lo intitolano con il nome di battesimo. Penso queste cose accingendomi al primo ascolto di Jarvis. Però Jarvis entra in questo ufficio, si siede al piano accanto al plotter e mi canta un “Cosa resterà di questi anni Novanta” che gronda di altri quattrocentotrentatrè “Cosa resterà”. Don’t believe me if I claim to be your friend, dice, I will kill again. Speriamo, Cocker.


Preparo il bicchiere? No, prepara le cicatrici

Ad avercele, le cicatrici. I bambini tranquilli non si rompono mai nemmeno il braccio, non gustano mai l’interminabile prurito notturno della sabbia che finisce nell’ingessatura. Da adulti forse ameranno le distanze di insicurezza e non prenderanno mai multe e non perderanno mai i punti della patente. Ecco, prendete il contrario di quanto detto fin’ora e avrete Matt Elliott, che ritorna, questo mese. Le canzoni del bere sono diventate le canzoni del fallire. Già pregusto quando sul mio lettore in modalità shuffle un suo pezzo spunterà tra una tamarrata disco e un pezzo twee svedese in levare.

Lone Gunman Required - Matt Elliott

11.10.06

Watcha gonna do when you’re adult

Diventerai la parodia di te stesso (Dunbkel-Darkel)? Un cantante da crociera (Badly Drawn Boy)? Il principe Valium (Max Hecker)?

(in ordine decrescente d’interesse preventivo)

((titolaggine rubata al plastico-faccial-avalanche Judy (Blue States remix) delle Pipettes, mica alla versione originale))

9.10.06

Dategli il soufflé sgonfiato

Ma perché Kevin Shields deve coprirsi di ridicolo con questi fantomatici remix in cui al minuto 1:55 comincia a girare la manopola del riverbero?

(il trascurabile remix di I Want Candy dal film della Coppola su Stereogum)

5.10.06

Ottobre

Le prossime due settimane lavorative a Torino e la puntata di fine mese ad Hannover passando da Milano all’andata e da Milano/Torino al ritorno portano con loro alcuni possibili appuntamenti musicali. Quasi sicuramente da Torino non mi sposterò a Milano martedì prossimo per The Knife + Planningtorock: l’ultimo treno a mezzanotte e mezza, la scomodità della posizione dei Magazzini Generali rispetto alla Stazione e non ultimo il prezzo ‘importante’ del biglietto rimandano alla prossima il contatto col duo svedese. Ben più probabile che assista al dj set di Carl Craig venerdì sera al Supermarket. Per il resto vuoto pneumatico di eventi fino alla mia partenza per Bari.
A fine mese eviterò per l’ennesima volta il mio primo contatto con La Casa 139 di Milano (Willard Grant Conspiracy), ma in compenso al mio ritorno dalla Germania troverò un succulento Junior Boys + i già visti The Russian Futurists allo Spazio 211 di Torino. È un duro lavoro, far coincidere tutto.

4.10.06

Reality Show [o dell’(in)utilità dei Crystal Castles per il mondo]

La prima volta che ho sentito un pezzo dei Crystal Castles ho pensato ‘che noia la musica a otto bit’.

La seconda volta che ho sentito un pezzo dei Crystal Castles ho pensato ‘però il videogioco degli ZXiu ZXiu non è male’.

La terza volta che ho sentito un pezzo dei Crystal Klaxons ho pensato ‘quelli in discoteca si fanno gli occhi dolci’.

La quarta volta che ho sentito un pezzo dei Crystal Castles ho pensato ‘si ameranno oppure no?’

Poi Simona Ventura ha preso la linea e ha dichiarato vincitore Prince Of Persia per il 286.

REM sono la pupa e il secchione nello stesso tempo

Alice Practice - Crystal Castles
Atlantis To Interzone (Crystal Castles Remix) - Klaxons
She Fell Out - Crystal Castles
Bonus che non c’entra niente Buzz Saw (This Song Is A Mess But So Am I Remix) - Xiu Xiu

SYS 64738

3.10.06

Not safe from loop

Con un loop vi lascio e con un loop vi riprendo. Gli Skatebård vengono da Bergen e non a caso sono coinquilini di Annie alla Digitalo ed Erlend ‘Scalcia’ Øye cantava i Pet Elvis Boys su un loro vecchio pezzo. Fanno electro inquietante, nel senso che con poco inquietano certi luoghi comuni della disco e della dance. Per esempio iniziano il loro nuovo Midnight Magic con un freddo serial killer che punta un coltellaccio sulla gola dell’Italia da bere dei primi anni Ottanta. Su pastiche alla Boards Of Canada modellano ritmiche di spazzole e batterie ancora sanguinanti di budello animale. A metà tra Booka Shade e il conterraneo Lindstrøm potranno essere per voi un possibile incubo ricorrente. Non vi basterà un SUV per fuggire.


2.10.06

Safe from loop

Non mi piace aggrapparmi al passato. Figuratevi cosa penso di chi vive nel passato. Così nell’orrido Clerks II, traduzione cinematografica di una di quelle patetiche cene in cui dopo dieci anni incontri il compagno scemo di liceo che continua a fare sempre le stesse battute e ritrovi persone una volta minimamente sagaci che sacrificano il loro acume sull’altare della consuetudine, più delle inquadrature circolari, più del patetico romanticismo ribaltabile che quasi si rimpiangono i film di Nora Ephron o con Julia Roberts, più dello scontato ritorno al bianco e nero finale, poterono quelle tre scene segnate da Smashing Pumpkins, Alanis Morrissette e Soul Asylum. I miei coetanei sono da un’altra parte, che vogliano crescere o no. Io, preferisco i ventenni e i sessantenni.