30.1.07

L’arte è un sogno, o il sogno è l’arte di un buon lavoro di bocca?

Caro Gael Garcia Gondry, d’ora in poi GGG, all’uscita dal tuo film ho detto ‘sì, ma’. Che io per i film coi sogni ho un debole, ma alla fine mi sono sentito un po’ come se tu avessi voluto parlarmi della sconfitta dei sogni come possibilità, dopo della sconfitta dell’oblio (o del ricordo, è lo stesso) come possibilità. Io c’ero arrivato già prima e so che la vita è lavoro di carpenteria e fabbrica da cui si esce col grasso in faccia e due spiccioli e che ricordi e sogni sono buoni solo a tramutare due persone bellissime in un posto bellissimo e in circostanze bellissime in due patetici noiosi tristi mostri, peraltro psicopatici. In fondo il sogno non è altro che il desiderio auto-ingannevole di ieri, e oggi potrebbe essere tutto diverso. Sai, GGG, c’è questo disco di un tizio svedese che fa techno, si chiama Anders, è abbastanza corpulento, ma di lui non parla nessuno. Si chiama Nightwidth, dell’ampiezza della notte. Parte con le pernacchiette, ma se hai buona lena di andare oltre, rimarrai piacevolmente sorpreso. Anche Anders ha scelto una via immaginifica simile alla tua per smitizzare la notte. Anche a lui si congelano i piedi quando decide di scendere downhill. Anche lui cavalca enormi zanzare di metallo in un paesaggio che sembra quello della Border Community sotto eclissi. Anche la sua notte arriva a intrecciarsi col giorno. Ma tu parli della maledizione di chi si porta i sogni nel giorno a rovinargli la vita e lui parla di quelli che stanno così svegli di notte che poi dormono due ore e la mattina sono in condizioni di lucidità simili ai primi, solo con un retrogusto apocalittico in più mascherato da consapevolezza. Caro GGG, tu arrivi alla fine e salti sulla tua cazzo di arca di Noè steril-vegetariana in groppa al tuo-mini-pony e noi capiamo che dovevi farti dare quel benedetto numero di telefono della bionda carina. Più o meno a metà del suo disco invece Anders piazza la sua meraviglia di consapevolezza. GGG, i sogni sono i desideri del giorno prima, e del giorno prima, e del giorno prima ancora. E a volte nemmeno quello. Come i ricordi.


Coutances - Dick Annegarn
A Day Ago - Anders Ilar

26.1.07

E ora posso appendere la tastiera al chiodo

Philip Sherburne cita il sottoscritto su Pitchfork nella recensione di Fizheuer Zieheuer di Ricardo Villalobos (thank you Philip!). L'unica cosa che riesco a dire è che sono commosso.

(grazie a tOm per la soffiata)

Una gita scolastica 2.0

Ci si accorge che è cambiato qualcosa, almeno a Londra, entrando da Rough Trade a Talbot Road. Quasi metà del negozio è occupato da cartoni dei vinili indie-electro di cui hai parlato tanto per un anno. Certo se vuoi comprare il singolo dei Jakobinakarina, l’anti-folk o un gruppetto NME-approved li trovi, ma fa paura vedere tutti insieme in una volta tutti quei piattoni che non si portano appresso nemmeno i dj più quotati della scena che vanno avanti a ultra-advanced o self-edited cd-r. Non nego che la tensione ci sia fin dalla mattina e non serve un’ottima cheese-cake a scacciarla. Così fin dalle ventuno e trenta si ronza nei pressi del The End, anche se l’ingresso è assicurato da un biglietto comprato come autoregalo la vigilia di Natale. Nel pub subito accanto un cartoncino avvisa che il piano di sopra è riservato per un party privato dalle 6.30 del mattino in poi. Noi migriamo verso quello subito dopo. Sono le dieci e mezza quando decidiamo che è ora. Lo spettacolo quando arriviamo è da non credere. Il posto sta in un palazzo su Oxford Street ma l’ingresso è su una sua parallela. La gente circonda interamente il palazzo con una fila che non avevo mai visto in vita mia. Corro dietro e tiro un sospiro di sollievo quando vedo che accanto alla fila da centinaia di persone c’è un altro cordone con una decina di ragazzi dal volto rilassato. Spelling del nome, carta di credito con cui hai effettuato il pagamento, lascia la mail perché sei dei nostri, braccialetto di carta come a un festival e sei dentro. Non ancora però, perché prima devi essere perquisito come nemmeno all’aeroporto il giorno dopo un attentato. Si scende una scala e ti immergi in un’esplosione fluò di giovani in ghingheri. I pochi tamarri alla vista, comunque presenti, sono lì per la musica. Questa sera gli indie sono loro. Perlustriamo i diversi ambienti. Nella main room c’è un sosia di Graham Coxon che passa martelloni fastidiosi. Nella lounge Brendan Long procede eclettico, spaziando tra remix di Audion (indovinaquale) e l’Herve di See-me-hear-me-feel-me-touch-me. Il foglietto di carta appeso con lo scotch parla chiaro: nel lounge Boys Noize 0:30-2:30 e altri che non interessano, nella main room Digitalism live 01:30-02:30, Erol Alkan 02:30-04:30, Simian Mobile Disco 04:30-finche c’han voglia. Un salto all’AKA, il locale adiacente dove possiamo comunque accedere, e sembra di essere finiti in una tremenda discoteca di provincia. Torniamo indietro ed è già bolgia, ma nessuno ha un capello scomposto, anche perché se entri nel bagno delle ragazze, questo è il necessaire gratuito che ti viene fornito (ma voi vi pettinereste con quella spazzola, anche in condizioni di estrema necessità?)



Quando inizia Alex Boys Noize il lounge è intasato perché tutti convergono lì. Non riesco nemmeno a vederlo o ad avvicinarmi per quanto si sta schiacciati, tanto che per mostrarvelo, qui sotto ho messo una sua foto mentre mi scatta una foto ed Alkan scatena la folla. Il suo set è arrotato, scartavetrante, ahrararra, insomma, il suo set è una parola con molte erre. Gli inglesi dovrebbero sostituire la parola noise con una parola con almeno due erre, ecco. Mi eccito per My Love, quanto gli inglesi quando schiaffa su il suo rework dei Kaiser Chiefs o lo Switch di Lily. Su Phantom è delirio. La battuta non si alza mai ed è una goduria per quello e perché le casse soffrono come se fossero delle crash test dummies per tutte le casse della loro gamma. Un peccato che sia a inizio serata e che sia già ora di correre dai digitalisti.



I Digitalism sono tedeschi (come Boys Noize di cui sopra) e quindi si dovrebbe dire Dighitalism, magari con la cura di accennare un tocco di zeta sulla esse. Il rosso e il grosso sono su un palchetto laterale ma tutti premono su di loro come se fosse il concerto in cui siamo, tanto che a un certo punto li affianca il tipo della sicurezza che mi ha tastato in precedenza, un rosso per niente muscoloso ma con la faccia da hooligan pazzo. Per tutta la prima parte lavorano trattenendo, tanto che i vocalist Dave Gahan e Robert Smith non emergono mai completamente dalla trama electro. A un certo punto Zdarlight e la sua chitarra scatenano urla simili a quando arriva un ritornello e da quel momento è un alternarsi di vuoti melodici ed electro-rotante. La ragazza del grosso si improvvisa cubista accanto (caro, quanto me piace la canzone tua nuova) e su Jupiter Room non si capisce più niente. Suonano anche quel loro inedito che sembra tanto un pezzo di quegli altri due robbott. Il set vola in un lampo, applausi, e già la voce sintetica dice eeee, rrrrr, oooo, llll.



Barba lunga e ciuffone, occhiali alla Mario Carotenuto e giubbotto di pelle, maglia bucata e anelli sulla collana. Erol Alkan è un indie-non-fighetto dentro, un rocker senza band, uno che insegue un’idea senza farsi sopraffare. Almeno per ora. Parte chino sulle manopole con un martellazzo che non conosco a cui fa seguire ancora il remix di No Fit State di cui sopra. Al terzo pezzo guarda già l’orologio. Sembra un po’ teso. Il set procede technoide ma con un retrogusto funk. Alle sue spalle succede di tutto e lui sembra imperturbabile. Il Boys Noize duetta col Baffo, che prende alla lettera il mio commento sui fazzoletti di carta e si inventa il balletto del kleenex sventolino. Costringe tutti quanti allo sventolio, a volte inserendo bacchette fluorescenti tra la carta a doppio strato. A un certo punto decido che è ora di agitare alla sua volta il mio fazzoletto di cotone e lui ne rimane tanto colpito che chiede di vedere e toccare con mano. La sua faccia esprime ammirazione arcuando verso il basso gli angoli della bocca e mi restituisce il quadrato di stoffa. Del siparietto non esistono prove fotografiche, quindi consolatevi con uno dei suoi gesti sbandieranti cellulosa.



Intanto Alkan solleva improvvisamente lo sguardo. Da quel momento sembra di stare a un concerto metal. La musica si imbastardisce, prende a colpi di gomito i piatti dei cd, segue le distorsioni con mani e braccia, aizza la folla e viene affiancato dal suo doppio3000. Parte ancora il campionamento dei Goblin e la gente grida. Seguono Werol Alkman, Just An Edit e si prende nuovamente la strada arrotina. Una voce sembra Britney Spears e invece è solo Peaches. Accompagno ad alta voce il pappa-pappapara di Moving Like A Train su cui interseca Yello (o cosi mi è sembrato) e mi spacco letteralmente le corde vocali su Standing In The Way Of Control. Quello che ci si aspetta, ma voglio viverlo almeno una volta prima di criticarlo come qualcosa di ovvio. E infatti sottolineo la prima battuta di ogni nuovo pezzo con un urlo. Lui beve di tutto come un dannato, ma ci porge una bottiglia di acqua visto che non ci schiodiamo dal posto. Un sorso della bottiglia di vodka che a ripetizione gli avvicinano non sarebbe stato male. Nel finale torna alla battuta dritta, vagamente tra il rave e il balearico, tipo Destroy di The Proxy. I Simian sono già su e lui continua a ripeter loro “un altro pezzo”. Anzi due, anzi tre. Quelli montano il computer e gli chiedono se cominceranno dal cd di destra; lui fa il conto con l’indice e risponde di sì. It’s A Fine Day scorre sul suo remix degli Scissor Sisters (Kirsty Hawkshaw non ha più i capelli rasati edit), quando parte come finale quella cosa enorme. Fa il gesto del pianoforte, sale in piedi sulla console, lancia i palloni verso di noi, mentre commosso urlo a ripetizione “Puoi dimenticare i nostri piani per il futuro”. Si inchina verso tutti. Per un momento sta tutto lì, nella gente in preda a un orgasmo, nel reset dell’anno passato, nel piacere di chiudere e sapere che da lì in avanti ci aspetterà qualcosa che non ci aspettavamo. Poi indossa il giubbotto di pelle e va, anche se non ce n’è bisogno perché scende a ballare tra di noi.



I due Simian sono un biondino assai indie e un incrocio tra Telespalla Bob e il Cugino di Campagna grosso, allergico al mio obiettivo. A differenza di cd-r Alkan (ma la SIAE?!), loro alternano vinile e Mac. Partono con Switch Bump, poi il loro remix di Magick ed Erol sale a cavalcioni di un tizio come se fossimo in un qualunque Festivalbar. Il biondino addetto al vinile sembra andare in panico a ogni cambio come se i dischi non fossero in un qualche ordine, ma è tutta una finta perché i passaggi tra i pezzi sono sempre pulitissimi. Electro corposa, e antiteticamente la vocina ripete People don’t dance no more. La people balla, siamo noi un po’ provati che tendiamo all’ascolto o a sbirciare il grosso digitalista e la fidanzata o il Baffo. Pezzi dal nuovo disco, distorsioni nuovamente rotoidali e l’immancabile nuovo di Justice, vero tormentone della serata.



Sono le sei quando soddisfatti da Lovelight/Ravelight decidiamo di abbandonarci a delle sane tre ore di sonno prima di ripartire verso casa. Ci offrono dei flyer per i prossimi tre mesi tutti raccolti in un cellophane, della cocaina, persino un intero taxi abusivo. È Londra, ed è stato così divertente che a viverci sempre non lo sarebbe altrettanto. Meglio la sana soddisfazione da gita del liceo con il sabato disco. Dopotutto, anche Erol ha iniziato in una discoteca di Leicester Square.


It's A Fine Day - Opus III

24.1.07

A weekend indie city pt. 1

[Giovedì sera]
L’uragano, il ciclone o quello che è stato tocca Londra solo in minima parte, giusto per spostarci un po’, mentre camminiamo all’ora di pranzo ancora beati dell’effetto colazione inglese preparata dai nostri albergatori agrigentini, e per creare delle magnifiche nuvole sullo sfondo delle nostre barb-osissime foto da turisti. In serata tutti parlano del barb-osissimo affare Shilpa. Domani Giovanna Newsom suona al Barb-ican e tutto torna e tutto è esaurito. Certo non avrei sentito lì per la prima volta Ys tutto insieme. Questa settimana non ci sarà la serata indie Spiral Scratch e quelle di How does it feel e dello Scala sono tutte di sabato. Così ripariamo verso Hoxton, dove arriviamo dopo due o tre richieste di informazioni. Io a Londra ero stato solo una volta a metà anni Novanta per la gita del liceo e forse allora Hoxton nemmeno esisteva, o io non ero addentro in giri che contemplavano Hoxton come terra promessa. Io quando mi hanno trascinato all’Hippodrome a ballare The Hotstepper ero stato prima solo altre due volte in discoteca (ovviamente in altre due gite…) e volevo andare a sentire la drum’n’bass. Forse ora l’Hippodrome non esiste nemmeno più, o almeno non mi è sembrato di notarlo a Leicester Square.

A Hoxton chi vive nei loft non ha le fisime di mia madre e delle sue tende antiproiettili e abita in vetrina, concedendosi al massimo delle trasparenze studiate e ancora più attira-sguardi. Poi sono sicuro che quando vogliono anche loro, premendo un tasto nascosto, fanno scattare dei broccati d’amianto semoventi. Per intanto però si esibiscono mentre preparano il loro terijaky beef, il cui odore non si sentirà nemmeno nel loro sterminato mono-ambiente, e figuriamoci se arriverà a contaminare la sterile White Cube.
Comunque non siamo andati a Hoxton per colmare le mie lacune socio-architettoniche, ma per una serata indie alquanto composita: sul palco i Noah And The Whale, Laura Groves ed Emmy The Great, a fianco delle tizie vestite in abito anni Quaranta che dovrebbero distribuire delle torte e delle paste fatte a mano (astenersi ironici technoidi) e di seguito un dj set di alcuni ragazzi della serata indie Young Turks, che pare non sia male. Il terijaky beef ci fa saltare i Noah che comunque recupereremo come turnisti per Emmy. Le tizie anni Quaranta tirano fuori delle merendine dalla plastica e mi comincia a venire il dubbio che rifilino le robe del minimarket ai babbioni ciuffi, o ai ciuffoni babbi che dir si voglia. Laura Groves intavola un onesto miniset da cantautrice alternandosi tra tastierina e chitarrina, ma è troppo ina ina per far colpo sul mio cuore ormai inaridito, inacidito o forse solo inamidito da tutti i recenti ascolti. Per inciso i ciuffoni babbi sono tutti tra i quindici e i diciassette anni, ma anche quelli sul palco danno quest’impressione.

Terminano i Decemberists dell’intermezzo per il cambio strumenti, sono le nove e mezza ed Emmy sale sul palco, accompagnata dai tre liceali di cui sopra. L’Hoxton Bar and Grill è stipato, tra l’altro per metà da suoi amici a cui dedica le canzoni. Le sapide dissonanze tra la forma quasi tristanzuola delle canzoni e i loro oggetti mi conquistano ancor di più del suo delizioso viso (vabbé, non è vero, chi ci crede). Nel silenzio scoppiano le risate quando menziona bagni e mal di stomaco quando-penso-a-te. Introduce pezzi nuovi, ma per me lo sono tutti, e poi prima del finale chiama pure sul palco per un duetto il per me insopportabile cantante dei Guillemots, fino a quel momento infrattato tra i sedicenni. Sui timidi applausi per l’ultima canzone, i dj gettano come una colata di cemento il vecchio singolo dei My Chemical Romance che funziona peggio di un manganello. I sedicenni se ne scappano forse anche perché il giorno dopo c’è scuola e alle undici meno un quarto la sala è già semi-vuota. I roadie sono dei rasta, ripenso ai roadie metallari dei concerti indie di due-tre anni fa e mi chiedo se tra due-tre anni ci saranno dei roadie per concerti indie con le camicie di flanella. Il dj set sale di poco di tono e allora la chiosa divertente della serata è Emmy che ritorna con i soldi e distribuisce la paghetta agli altri sedicenni compagni di palco. Noi intanto impariamo la lezione che a mischiarti coi sedicenni in settimana, finisci in albergo a dormire prima di mezzanotte.




[Venerdì sera]
C’è appunto Giovannona in teatro. C’è una festa dell’NME con gruppi dal vivo e, immaginiamo, altri sedicenni. C’è una cosa tra l’indie e il post-rock, c’è Mad Professor in un pub, c’è il dubstep a Brixton. C’è Switch+Sinden+Radioclit al Fabric con la sala due in mano ad Adam F e ad altri dj drum’n’bass. C’è che camminiamo da due giorni e dobbiamo preservarci in vista della serata campale di sabato. Così conquistiamo un tavolino in un pub di Soho dove la musica sfugge ogni tentazione modaiola e per un momento mi interrogo su come riescano i londinesi a sopravvivere ad una simile offerta e poi ad avere anche il coraggio di popolare i festival estivi. Poi però razionalizzo e capisco che il problema sarebbe solo mio, se vivessi lì. Alle dieci tutti già barcollano verso altre direzioni e io penso che le ale sono troppo sgasate per piacermi, ma continuo a ordinarle perché hanno nomi come Adnan’s London Pride. E Adnan’s era un pezzo degli Orbital che nel 1996 non mi dispiaceva.

Adnan’s - Orbital

22.1.07

Gomito Ombra


Dando un'occhiata alle foto di Dirty Dirty Dancing e di Pejhy, ho capito che togliermi presto il maglione giallo è stata una buona mossa per passare inosservato ai flash. Ed evviva ancora le eroliane prese d'aria ascellari.

Senza voce

No, l’uragano non c’è stato. Sì, A vote for Shilpa is a vote for Britain. Con le corde vocali a pezzi peggio che dopo una finale dei mondiali di calcio, rimando il racconto del weekend londinese ai prossimi giorni. Nel frattempo, visto che molti mi hanno sottolineato il problema via mail, vi comunico i nuovi indirizzi per i feed di questa paginetta. Si intende che lo streaming degli mp3 funzionerà solo qui. Uoh-u uoh-u uoh oh.

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17.1.07

LDN


Da ssr da qui. E sbt festeggiamo il capodanno qui.

Zdarlight (Discodrome Remix) - Digitalism
Personal Jesus (Boys Noize Rework) - Depeche Mode
Hustler - Simian Mobile Disco
Golden Skans (Erol Alkan’s Ekstra Spektral Dub) - Klaxons

15.1.07

We’re from to Barcelona

La fase organizzativa è completata. Abbiamo comprato gli abbonamenti, a prezzo scontato perché ancora il cartel è a scatola chiusa. Abbiamo prenotato gli aerei preferendo il low-cost spagnolo a quello inglese, rifiutando le nuove gabole sui bagagli, la partenza da aeroporti secondari e l’arrivo in aeroporti in Culonia marittima a orari impossibili in favore di un gustoso Fiumicino-El Prat a metà giornata. Abbiamo affittato un appartamento che ci permetterà di raggiungere persino il forum a piedi, accanto alla fermata Poblenou della metropolitana qualora di giorno avessimo attacchi di turismo sonnambulista. Ora attendiamo solo lo stillicidio degli artisti confermati.

Tutto ciò per dire che nei primi di giugno il sottoscritto calcherà i sottopalchi del Primavera Sound insieme ad un’allegra compagnia di quattro (forse cinque) ragazze. Se qualcuno dei ragazzi che legge qui sarà da quelle parti, non si faccia problemi a farci un fischio e a unirsi a noi (o meglio, a ridurmi il danno: tra fiumi di cerveza potremmo per esempio intavolare favolose discussioni indie-maschiliste tipo “Le donne odiavano la techno, non si capisce il motivo, du-dad-du-dad” - scherzo). Per celebrare l’annuncio, trovate di seguito due piccoli regali che confermano l’approccio a doppio binario che caratterizzerà il mio festival.

Il primo è un’anteprima: Misstress Barbara è la prima siciliana che pubblicherà per la Border Community (un loro soundsystem alle sei di mattina, magaaari) e spero che la sua svolta verso i suoni comunitari dedicata alla città in questione sia il giusto viatico per un proficuo festival ballifero.
Il secondo invece è il primo nome confermato, ovvero Built To Spill. E non dico altro. Ci si vede lì, allora?

Barcelona - Misstress Barbara
Alarmed - Built To Spill

10.1.07

Un altro Kaos, dopo il Kaos

Volevo parlarne. Poi non più. Poi forse sì. Alla fine ero pure indeciso. Perché nella sera in cui uno dei padri della techno suonava in città e io mi chiedevo se quella sarebbe stata un’esperienza simile a un concerto in piazza di Nilla Pizzi ad agosto, mi domandavo anche se andare a ballare Derrick May o se recarmi in venerazione di Alan Sorrenti in una discoteca della provincia della stessa città. In fondo Alan Sorrenti, per il pubblico di voi che sapete, è quello di Aria e dell’Incensiere. Di Vorrei Incontrarti e di Serenesse. Insomma, dategli il vostro amore e non chiedetegli niente. Però poi ho scelto Detroit, perché sono un figlio delle stelle e so che nessuno dei due avrebbe privilegiato il suo passato in maniera troppo dif/facile.


A Bari, il Conclave Remix si suona quando la gente ancora entra. Poi lui arriva e termina in un battibaleno percepito di più di due ore. L’innovatore Derrick (notato l’assonanza, eh, eh?!) raccoglie applausi da concerto alla fine del suo set. Set fratello del Carl Craig visto a Torino, giusto meno trattenuto: diversi pezzi in comune, forse più ruvido e dritto, quando necessario. Eppure entrambi raccontano con pezzi recenti, con chicche del passato e con episodi di mezzo sconosciuti, di quando un gruppo di dj inventò a Detroit una musica nera in cui l’uomo, circondato da macchine, presse e ciminiere, cercava di appigliarsi a brandelli di umanità, quand’anche questi fossero le macchine stesse. Il presente non è altro che la declinazione e l’estremizzazione (bianconerogiallorossa) delle intuizioni un gruppetto di fichissimi futurologi che invecchiano bene e possono permettersi di non suonare i loro pezzi più seminali. E se non bastasse tutto ciò, l’altra sera ho perso il cellulare mentre zompavo. In fondo la nascita della techno è stato qualcosa di simile: apparentemente si cancellava una memoria di numeri, suoni, messaggi, riferimenti, ma tutto restava intorno, e solo il necessario sarebbe tornato nella nuova SIM. Il necessario, cioè il futuro. Il vorrei che già è.


Vorrei Incontrarti - Alan Sorrenti
Icon (Montage Mix) - Derrick May

4.1.07

Come diceva Corrado, …e non finisce qui (ancora)

Qui sì è ricercatori e ogni buon ricercatore sa che i risultati arrivano quando si unisce alla tenace ricerca di un obiettivo prefissato la capacità di accorgersi dell’ovvio che ci sta tra i piedi. Per celebrare il mio ritorno dietro la scrivania, vogliate allora gradire due piccole chicche.

Vi ho parlato anche troppo di Fizheuer Zieheuer (aka il pezzo spaccapista con le trombette gitane di Ricardo Villalobos) e dopo mesi estenuanti di ricerche ecco finalmente il pezzo della Blehorkestar Bakija Bakic che ha originato tutto. Il buon Ricardo non ha soltanto campionato due ottoni ma ha assorbito strutture da marcetta, percussioni e progressioni. Indispensabile asso nella manica per dj set rivolti a un pubblico che sa, Pobjednicki Cocek è il primo dj tool rom della storia. Tutti pronti per la rivoluzione slava che passa anche dal malatissimo DJ Krnak (Papagaj butta nel cesso due anni di baile funk e tira pure lo sciacquone).

Se l’operazione di Villalobos è un fine equibrio tra suggestione surreale e colpo di scena popolare, con i Klaxons entriamo nel regno dell’ignoranza a forma di chiavistello. Ma i Klaxons sono finti ignoranti (più finti o più ignoranti?) e nei loro accrocchi sbilenchi c’è sempre un seme di inconsapevolezza storica, un voler mettere da parte l’inutile per il futuro. Questo funziona quando agisce come in Not Over Yet, dove non ho fatto troppo caso alla sensazione di già sentito, fino a quando non ho scoperto l’altro giorno che era una cover del duo Grace (Oakenfold + Osborne) e mi sono convinto che entrambe sono due canzoni che cancellano la memoria a breve termine di se stesse nel momento stesso in cui affermano che non è finita, non ancora. Per ora. Che è il mio concetto di per sempre, e allora apprezzo.

Pobjednicki Cocek - Blehorkestar Bakija Bakic
Not Over Yet - Grace

3.1.07

Piccoli Equivoci (It's a maaad, queeer, maaad world)

Ah, che bello iniziare l’anno con una versione a qualità intermedia di quello che dovrebbe essere il disco di esordio dei Chromatics, con tanto di cover degli Suede acclusa, per gradire (cacchio quanto è bella In The City). Ah, che sorpresa essere immondamente divertiti dal Patrick Wolf deficiente per buona metà del nuovo disco (cacchio quanto è sciema Get Lost). Ah.

Shining Violence - Chromatics
Animal Nitrate - Chromatics

Overture - Patrick Wolf
The Magic Position - Patrick Wolf