29.11.06

Io non so dire addio, anche se poi non ci si vede più

another bloated disco, another sniff of romance i'll forget

Gli Arab Strap sono andati via dall’Italia per l’ultima volta (fino alla reunion). Qui non si sono avuti dubbi e ci si è fermati al penultimo tour. Poi sabato sera cercavo comunque di difendere davanti a tanti insensibili la legittimità del tour dello scioglimento davanti ad accuse legate grosso modo al soldo. Tanti hanno parlato poi di questi ultimi concerti, chi più, chi meno bene. Quasi tutti però indicavano il momento chiave nella fine, in quella The Shy Retirer nuda e scarna, privata di drum machine e archi. Nessuno però che la facesse sentire a me e a chi si fosse sottratto al rituale dell’addio. Ecco, il mio saluto è qui, nell’ascolto ripetuto di quell’addio negato.


The Shy Retirer (acoustic) - Arab Strap
(sendspace alternate link)

28.11.06

Forse uno stop alle masturbazioni elettro-gitane

Continua la splendida telenovela Villalobos, mannaggia a ‘ttè. Nelle ultime sere avrò passato cinque o sei ore nella gioia tutta solitaria del Fizbeirut. Come, non sapete cos’è il Fizbeirut? Prendete Fizbeast (per i meno addentro, lo strumentale di Fizheuer Zieheuer, detta anche la maledetta marcetta con le trombette), predisponete dei loop estratti da Postcards from Italy di Beirut e in particolare la chitarrina, le trombette e il cantato e mentre scorre lo strumentale giocate con riverberi, filtri, phaser, flanger, delay e beatmash, insomma con tutte le manopole possibili e immaginabili. Una droga. Un vicolo cieco autoerotico con sorrisino scemo annesso dal quale non pensavo di poter uscire. Fino a quando poco fa mi sono capitate tra le mani le parti vocali acapella di Never Be Alone. Sarà una dura lotta.

24.11.06

Zompaggi per tinelli


Le canzoni belle spesso mi arrivano alla fine dell’anno

(oh, ma basta parlare di unz unz! Ma non ascolti più l’indirocche?!)

Ci sono dischi che non saranno mai capolavori. Sono quelli in cui le canzoni sono troppo (aggettivo) o sono poco (aggettivo). Se poi nello stesso disco succedono tutte e due le cose siamo a posto. Immaginate uno strano incrocio tra il piagnucolio fastidioso dei Muse e il pop più illuminato tipo i Phoenix, i Flaming Lips o i gruppi canadesi come Stars o Arcade Fire. Già, perché di canadesi si parla. I Malajube sono canadesi e cantano in francese come se incosciamente volessero rimandare alle origini da cui provengono. Piagnucolano in Trompe l’oeil, ma sono così musicalmente sfrenati che piagnucolano sul rap delle banlieu, sul vaudeville, sulla disco punk, sullo ska, su fraseggi emo-metal (!) e appunto sull’amato pop. Michelle, ma belle! Come dei disgraziati Broken Social Scene umoristi e surrealisti, come degli Arcade Fire a cui sarà pure morta la ragazza, ma che non cantano come se fosse morto loro il gatto. Alcuni momenti del disco sono forse davvero troppo, altri sono davvero poco, l’aggettivo lo troverete sicuramente voi. Però, in tutto questo simpatico terrorismo antiderivativo dell’indie che si appiccica alle orecchie, mi sento di confessare che da giorni canticchio i gridolini di Pâte Filo, faccio l’air guitar wah wah pah pah con il testo strambo del freddo di Monreale –40°C, tengo pose su La Russe, mangio interiora anni trenta-sessanta-novanta su Ton Plat Favori e ballo su Fille À Plumes. Mi stancherò presto, forse, ma quando tutto sarà passato resterà quella non progressione dolcenera di Étienne D'Août, così uguale a tanto altro. Così poco, così troppo.


Passati

L’ultimo appuntamento nella chiesa prevede un’accoppiata sbilenca che però ha il suo senso. I Sodastream arrivano da una specie di odissea. Non contenti di un tour italiano infinito che si estende dalle Alpi a Ortigia, piazzano la data a Bari tra due giorni a Firenze: e non dovevano avere problemi al furgone mentre si dirigevano verso la Puglia? La storia del radiatore bucato, dei pezzi di pizza e di come un contrabasso entri in una macchina a nolo la raccontano in tempo reale sul loro diario del tour (aggiornato via cellulare?). Così, con metà dell’equipaggiamento arrivano a pochi minuti dall’inizio del concerto. Soundcheck con tutto il pubblico fuori dalle porte e via, iniziano subito. Iniziano loro perché non ci sono gruppi spalla e gruppi principali, ma con quegli altri lì della coppia sbilenca forse qualcuno se ne sarebbe andato via subito. E così inizia tutto quello che mi aspetto: le ballate minime massaggiano i neuroni provati, il contrabasso oscilla come un pendolo davanti alla mia prima fila, la voce culla acuta, gli ahum austroboscaioli pure, spunta fuori la sega. Neanche loro si sottraggono al fascino del piano a coda incastrato nel colonnato, e per un attimo non sono spalla a spalla. Dicono che sarà difficile ri-suonare senza un piano ‘così grosso’. È un concerto rotondo come le tazze di thé nei pomeriggi freddi di studio universitario. Oggi che i thé del pomeriggio sono nei bicchieri di carta, sarebbe più appropriato definirli come la tisana prima di andare a dormire. Ma io non preparo quasi mai la tisana prima di andare a dormire.



I Sodastream rivedono la scaletta e cassano i bis perché a mezzanotte si chiude. Dopo di loro i Jackie-O-Motherfucker che aprono qui il tour europeo di quest’anno. Anticipati la sera precedente dal chitarrista fondatore in incognito, che ha suonato brandelli di folk introversissimo in un pub della città, si presentano a un pubblico che si ridurrà via via, con un armamentario che andrà dal giradischi del nonno a un violino cinese che riporta alla memoria i fasti di kim-ki-duk-iana memoria. Non li conosco, ma il loro post folk fatto di dilatati brandelli di tradizione trasmessi su una stazione radio che non si riesce a sintonizzare, suona alle mie orecchie più accessibile di quello dei concorrenti più giovani, sempre troppo hippie-del-cacchio per i miei gusti. Forse perché si muove nei territori di quell’altro post che ascoltavo tanto cinque o sei anni fa. In più tra facce boscaiole e secchione e un componente dei Montefiori Cocktail in incognito, spunta fuori lei, questo meraviglioso fenicotterone bruno che fa le peggiori cose che di solito odio a morte in un concerto: si toglie gli stivali, accende le candeline sul palco, si accovaccia con i piedi sulla sedia, volge le spalle al pubblico al bordo del palcoscenico e urla come una pazza senza microfono trattenendosi dal ridere, sale in piedi sulla sedia per suonare i campanelli, strimpella trentadue strumenti a caso e porta questa gonna ascellare dal taglio appartenente a chissà quale epoca che confuta le proporzioni vitruviane. Come non amare Eva ‘Inca Ore’ Salens? Per il resto, il concerto si compone di una lunga suite iniziale e di tre brani dalla durata più contenuta. Il chitarrista fondatore pare infastidito dal fatto che i tempi siano stretti e non perde occasione per ricordarlo. Tanto che alla fine spara lì un veloce ‘finito il tempo è stato bello basta ciao’ e scappa di scatto lasciando interdetto il pubblico dimezzato.


(Un set fotografico esaustivo su Sodastream, JOMF e fenicotterone lo trovate qui)


Dopo giorni di live e una pausa ieri per scrivere il post seguente, il weekend sarà all’insegna del clubbing. Per consolarmi del fatto che la prossima settimana non si parteciperà al casino della devastante serata a cinque euro (ripeto, a cinque euro!) con Mr. Oizo, Kavinski, Feadz, Uffie (eh, vi tocca) e Scuola Furano e al compleanno di Rockit in cui Violante ‘sia dannata per aver ammazzato Aldo Nove con quello lì che non voglio nemmeno nominare’ Placido farà da supporto ai dj set dei nostri beniamini Enver e Polaroid, affogherò il mio dolore stasera in un dj set di Peter Hook a cui si va (nonostante il posto che prevede la riduzione a 10 euro(!) prima di mezzanotte) solo per vedere se il resident Lillo in apertura metterà di nuovo Audion e Fizheuer Zieheur come nel dj set della prima notte di Plug In a cui non sono stato, e domani in una cosa più indie come Tigertown. Un’overdose giustificata anche dal fatto che l’unico appuntamento in vista da qui alla fine dell’anno sarà la sola Ellen Allien a metà dicembre.

20.11.06

Just Like Christmas Sugarcubes

Invidio un po’ tutti i fan di Sufjàno Santo Stefàno che già da agosto rompono le palle con l’atmosfera natalizia. Quasi quasi corro su in soffitta e insieme all’albero porto giù la canzone di Natale che i Jesus And Mary Chain tirarono fuori da Birthday dei Sugarcubes, per il compleanno del tizio che dava il nome al gruppo.

Dove la metti, sta

“Dove lo metti, sta” è un modo di dire che mi piace molto. C’è chi si fa enormenente condizionare dai luoghi e c’è chi invece cerca di tirare sempre fuori il meglio da essi, perché in fondo il dove conta, ma può essere quasi sempre in subordine al resto, al chi, al cosa o al come. Il perché lo lasciamo a quelli senza fantasia. Barbara Morgenstern è una che dove la metti, sta. Non a caso l’ho vista suonare una volta all’Old Fashion di Milano, una discoteca dove festeggiavano il compleanno le letterine quando esistevano, e l’altra ieri all’Auditorium Vallisa di Bari, una chiesa sconsacrata dove i concerti si guardano seduti e che incita al contegno più che ad un ascolto divertito. Barbara Morgenstern, sorridente come al solito, dice che è strano cantare in una chiesa ma non perde tempo a trovare il lato positivo. Indica il pianoforte a coda e coglie l’occasione per suonare con quello i pezzi del nuovo disco, accompagnata da un batterista e dalle elettroniche varie via laptop. Certo se The Grass Is Always Greener riesce benissimo nella sua calda circolarità sentimentale, altrove si rimane dalle parti del lavoro di studio oppure si scade nel tori-amos-esimo di una The Operator non troppo riuscita. I pezzi di Nicht Muss vengono risolti invece attraverso un organo simulato e delle ritmiche meno scattanti che nei precedenti live. Il piano ritornerà in uno strumentale alla Orbital dal primo disco e in una tenerissima e classica Ohne Abstand alla fine. Il pubblico apprezza rumorosamente. Barbara Morgenstern sorride e pensa a quanti posti strani e belli le sono capitati sulla strada. Che siano stati discoteche modaiole e cafone o austeri edifici (ex)religiosi.

19.11.06

The rock of impermanence

Il mio percorso musicale non è lineare. Di solito a un certo punto succede qualcosa e il futuro non è più quello del giorno prima. Anche il passato ne risente, vengono riletti i rapporti di importanza tra le cose, cambia la prospettiva, si va oltre, avanti o indietro che sia. La mia disorganicità in musica è come la pietra arenaria, un ammasso il cui senso è forse solo il tempo che compatta il tuo sbriciolarti progressivo, dandoti un’illusione vana di solidità. Fennesz è sempre stato da queste parti, a mettere in musica il mio amore per la melodia più semplice e sentimentale, quella pop a sei corde in riva alla spiaggia, con l’orecchio delle certezze infrante, di un computer programmato per andare a leggere in una zona di memoria che non esiste. Un mondo di conchiglie preistoriche e punte di selce finite per sbaglio in un museo d’arte moderna. In un auditorium forse sconsacrato verde e rosso, assorto nell’eco distorto della sovrapposizione di strati di silenzio.



Fennesz dal vivo non cerca mai un contatto visivo con l’altro essere umano: il suo sguardo gelido e malinconico fissa ora lo schermo del laptop, ora una manopola, ora le sei rette paral.lele che si incontrano solo all’infinito. Non sa comunicare che così, con un flusso di alterazioni in cui l’accordo più semplice della storia diventa il più tormentato da se stesso, in cui il rumore danza sinuoso tramutando la ruvidità in grazia. Nemmeno un’immagine sullo sfondo segna il senso del vagare e il pubblico è ammutolito. Solo tra suoni. Studio le sue mosse gravi tra computer e chitarra. Suona la chitarra in maniera molto più accessibile di quanto mi aspettassi, a tratti forse troppo, lambendo le atmosfere di certo Angelo Badalamenti. Ecco nel suo concerto ho risentito un po’ degli eccessi di chitarra elettrica distorta rispetto all’amata chitarra acustica trattata della prima produzione. Alla fine un enorme applauso non si interrompe fino a un bis secco e struggente. Lui ti guarda solo quando non suona, e accenna quel sorriso un po’ triste e diffratto che da sempre associo alle sue canzoni.

16.11.06

Tutti contro tutti (aiam aiam)

Nel wrestling il tag team è quando si lotta in coppia. Formalmente non si può stare in due insieme sul ring contro il singolo avversario, ma quando si passa la mano al compare di solito si coglie l’occasione per mazzolarlo un po’ a quattro mani, finché l’arbitro non interviene. Il passaggio di mano non è solo metaforico, si batte proprio il cinque, palmo contro palmo. Insomma, quello che è successo ieri sera quando Nanni Moretti usciva dalla sala dove aveva appena visto un film algerino-francese e io entravo per la prima nazionale di Nacho Libre. (ma dico, o cinefilo navigato, l’apparizione di Moretti è ancora un evento degno di scatenare le digitali, le strette di mano e le battute al bancone del bar?)

Nacho Libre è il tag team del regista di Napoleon Dynamite, dello sceneggiatore di School Of Rock, di Beck e Danny Elfman e di Jack Black, il Franco Franchi sovrappeso del cinema rock’n’roll. Un frate scandinavo-messicano sogna la fama dei luchadores (i lottatori del casereccio wrestling locale), la via per migliorare la condizione degli orfani del convento e per conquistare l’amore di Suor Encarnacion, una versione carina della Penelope Cruz di Tutto Su Mia Madre. La riuscita del tag team però è altalenante, tanto che sembra più un tutticontrotutti. Jared Hess confeziona un tributo all’estetica del cinema di lucha messicano degli anni Sessanta e Settanta (cfr. la serie con protagonista Santo, citata nelle interviste dallo stesso regista), ricreando perfettamente certe ambientazioni e facce (anche quando mascherate) con il tocco surreale e malinconico del precedente film. Alle trovate, visive e non, non corrisponde un pari controllo sulle altre parti: Black, quando non esagera con l’ormai solito armamentario, non copre i vuoti e i cali di interesse (soprattutto della parte centrale) suscitati da una sceneggiatura pessima, praticamente la copia carbone di School Of Rock con qualche peto in più. Il post-demenziale di Hess viene insomma sommerso e annacquato dalla convenzionalità del resto della cricca.

Persino la colonna sonora è un tag team troppo composito e vittima di scazzi: il regista vuole Beck, che si vede cassare dalla produzione alcune canzoni; la produzione chiama Danny Elfman che al posto di scrivere qualche pezzo compone una colonna sonora completa che finirà solo in parte nel film; a quel punto il regista si impunta e non vuole che Beck sia rimosso dai credits, ma altrettanto fa Elfman che chiede di non figurare più nei titoli del film (Batman-Prince-Elfman anyone?), e via così fino all’accordo finale. In più, accanto a pezzi notevoli come il tema alla Oliver Onions di Religious Man del gruppo messicano anni Settanta Mr Loco, figurano inspiegabilmente pezzi brasiliani come Irene di Caetano Veloso o una cover di Bat Macumba. Infine non manca il solito spazio per il meta-rock di Jack ‘Tenacious D’ Black, che nel pre-incontro finale intona una canzone ad Encarnacion che scatena l’ovazione della sala. E che, per carità, fa ridere ma fa anche sorgere il dubbio con tutto il film che il nuovo John Belushi stia lentamente diventando il nuovo Robin Williams.


14.11.06

I don’t love (what she’s) scioppin’

Non sono io, sono loro che mi ci mandano. Una trasferta inaspettata, coincidente guardacaso col Torino Film Festival e con due prime nazionali attese da queste parti, è anche una trasferta di tre giorni infognatissimi. Per questo mi ritrovo a correre dal lavoro al cinema, passando per il VacanzaLocanda albergo, con la speranza di trovare ancora biglietti giustificata dal fatto che qui gli sconti al cinema li fanno il lunedì. Viva la gente che lavora, viva gli snob che “ossignur la figlia di papà”, viva tutto. All’agile fila di cinque minuti per la biglietteria segue però una fila di oltre mezz’ora per entrare in sala. Tutta colpa della rivoluzione francese. Se non ci fosse stata, mi sarei evitato questa doppia sudata. (di seguito potrei dire cose che non volete sapere su una famosa regina francese, Sofia Antoniettola)

Lapo a due file dalla mia calamita la mia attenzione da quinto-e-anche-forse-sesto-stato. Passo gran parte del film chiedendomi quanto possa identificarsi con Kirsten Dunst. I volti sfatti davanti al sole del mattino, l’etichetta e i Gang Of FourFour=Sedici, i giovani e i vecchi. Io. Non. Volevo. Essere. Qui. Nemmeno io, a dire il vero. Mi rompo. Sofia Antoniettola è il Male di queste due ore. Luigi Augusto è la vittima. Luigi Augusto è un geek ante-litteram, voglio diventare anch’io un appassionato di serrature, catenacci e chiavistelli. Sofia Antoniettola si abboffa delle peggio cose e non le spunta neanche un brufolo: cos’è, Kevin Shields ora è un dolcificante con poche calorie? Sofia Antoniettola è anche la regista: Sofia Antoniettola guarda dal finestrino della carrozza con musica fika in sottofondo! Sofia Antoniettola è ripresa in controluce! Sofia Antoniettola si abbandona su un letto di merletti/fiori/erba con sguardo estasiato e/o perso! Al primo uso si pensa ad un auto-rimando alla precedente e apprezzata produzione. Al settimo finestrino si capisce che in realtà i francesi non usarono una ghigliottina, ma il primo prototipo di alzacristalli automatico.

Il film si prende gioco di tutta la teor-etica del post-moderno: Aphex Twin ha scritto quelle cose davvero nel 1780 e i Radio Dept. hanno inventato il feedback. Per il resto è tutto un capriccio di Sofia Antoniettola, mica crederete alla balla della decontestualizzazione della figura storica. Sofia Antoniettola è una regina, vuole i Cure in una scena montata alla cazzo del filmino del matrimonio e li sfuma con la zappa. Sofia Antoniettola non ha bisogno di dire cose intelligenti, ha bisogno di un altro paio di scarpe perché sta male. I Phoenix sono un paio di scarpe. Il militare svedese è un paio di scarpe. Rousseau è un paio di scarpe. Mi fa male il callo al piede che mi è venuto correndo qui con gli stivali dal lavoro. E non ho un altro paio di scarpe da mettere domani.

Forse mi annoia la piattezza dell’ennesimo orpello, un turbante di riccioli biondi con gli uccelli attacati con la coccoina, una bambolina semovente che parla inspiegabilmente francese o, chessò, un altro paio di scarpe. I collezionismi altrui sono la fiera del tedio, in fondo. Sofia Antoniettola intanto azzecca due o tre immagini (la maschera di veletta, il mattino dopo la festa, il tetro funerale filiale) e canna il resto, soprattutto la camera in movimento e gli eventi che segnano l’evoluzione della storia, trattati con la leggiadria della telenovela piemontese o di Paquito e Chiquito (Sua Maestà, il Re è morto! Sua Maestà, sua madre è morta! Sua Maesta, sua madre era la Bastiglia, ma è comunque morta!). Mi rigiro i pollici, sollazzato unicamente dal militare svedese che a un certo punto cita David Hasselhoff come miglior cantante del suo paese. Fortunatamente arriva il popolo. Anche lì però è il festival delle occasioni perse: tipo, se fossi stato io Max Antoniettcar, avrei fatto lo stage-diving sui forconi mentre in sottofondo suonava Revolution di Molella. Invece Sofia Antoniettola si inchina, come in uno di quei film con Tyrone Schneider e Romy Power che guardavano i miei genitori quand’ero piccolo. Meno male che arrivano presto i titoli di coda, non prima di un altro finestrino. In fondo, nonostante il ritorno a piedi fino in metro e un misero pezzo di focaccia ligure col salamino calabrese per cena, c’è il menù dei cuscini* che mi attende in camera.
(Prossimo episodio: Max Antoniettcar all’anteprima di Nacho Libre)
*magari domani metto una foto del menù, se non mi hanno rubato la digitale che ho dimenticato sul tavolo

10.11.06

‘Cause we’re living in a world of fools (watching the movies pt. 2)

Riprendiamo i racconti in tre righe dei filmaggi della rassegna, per i picccini.

Quinta giornata: Lontano da qui
Shangai Dreams (di Wang Xiaoshuai): più lontano da lì non potevamo essere. Causa impegno lavorativo, saltiamo la proiezione. Nessuna ironia sulla possibile lentezza del film, ma per noi che aspettavamo fuori dalla porta per entrare sembrava non finire mai. Se non altro, dai commenti origliati, sembra che almeno fosse controverso.
Scena chiave: sui titoli di coda esclamo Rivers Of Babylon! Boney M! Anna dai capelli rossi!
Hawaii, Oslo (di Erik Poppe): uno strazio, probabilmente la cosa peggiore che ci sia toccata in sorte da qualche anno a questa parte. Un minestrone norvegese andato a male per il caldo di struttura corale, angeli dai sogni premonitori, il figlio di una sveltina (ahaha) incestuosa tra Forrest Gump e Lola Corre, neonati con malformazioni cardiache usati con la grazia di un pomeridiano della Rai, montaggio attraverso immagini caleidospiche, il tutto musicato da un fastidioso Piovani. La gente rumoreggia visibilmente e a tratti commenta a voce alta. Più che pessimo, molesto.
Scena chiave: la piuma svolazzante e lo zoom out da dirigibile del finale, appunto

Sesta giornata: Fantasmi
La Spina del Diavolo (di Guillermo del Toro): la giornata dedicata al brivido si apre con un tenero (non)horror deamicisiano prodotto da Almodovar. Sullo sfondo delle ultime esplosioni della guerra civile, un orfanotrofio ambrato di deserto il giorno e nero di freddi sospiri la notte accoglie i bambini della causa che sta per perdere. Le apparizioni di un fantasma bambino sospiroso ai bambini vivi, si intrecciano con i tradimenti e le miserie vicendevoli dei grandi. Il bilanciamento del regista salva il film dal rischio del buonismo in favore di una grazia fiabesca sulle corde dell’horror di formazione king-iano. Alla fine applausi del pubblico.
Scena chiave: le amate lumache senza guscio. La faccia bellissima del dottore che reso sordo dalla ferita chiede i suoi dischi per attendere l’arrivo del cattivo
Shutter di Banjong Pisanthanakun and Parkpoom Wongpoom: ancora un altro film con il fantasma strisciante di una pallida ragazza orientale dalla faccia strana e dai lunghi capelli corvini che si manifesta attraverso oggetti di uso comune (foto e polaroid) per ottenere una qualche vendetta? Sì, ancora, yawn, nonostante la svolta dell’immagine finale in cui lo spettatore sprofonda nella poltrona per il peso sulle spalle delle ex lasciate in malo modo. E però il film mi convince della meccanicità fisiologica di molte nostre paure: il trucchetto, con poche variazioni, per tutto il film è stato sospensione seguita da botta di suono e primo-piano possibilmente molto sfuggente col nostro fantasmino. Robe di quelle che sai sempre quando sta per apparire, dici che palle e subito dopo sobbalzi sulla sedia, come se fossi un enorme ginocchio colpito da un martelletto dove sa.
Scena chiave: il trans della popò

Settima giornata: Springtime for Hitler
Hooligans di Lexi Alexander: ma che c’entra Hitler con gli hooligans? Oppure, ma che c’entra Frodo con gli hooligans? E perché la regista ha smesso di fare la kick boxer? Boh, trallallà, siamo gli uligàn. Si rimpiange Ultrà e Tifosi, per colpa di un apologo incentrato sulla tesi “Siamo tutti (o almeno gli inglesi sono tutti) hollygan”. Frodo cerca di fare la faccia del cattivo da metà film, ma gli riesce solo quella del “mi si è spezzata un’unghia”. Il parallelismo firm / fight club è poi goffo e tirato per i capelli. Ma entravo al cinema prevenuto, sotto l’effetto di una cioccolata calda fatta col Modica al peperoncino.
Scena chiave: l’uligano solo che provoca nello stadio senza recinzioni (come tutti quelli inglesi) i tifosi dell’altra squadra in solitario travestito da accreditato stampa sul campo
Le Mele di Adamo di Anders Thomas Jensen: non smettevo di ridere, giuro. Un neonazi viene mandato a svolgere i servizi sociali in una comunità guidata da una specie di Ned Flanders violentato da piccolo con figlio spastico e famiglia deceduta in varie forme e un tumore fulminante in testa che si è arreso al suo glorioso certo-certosinismo. La comunità è composta da un arabo rapinatore fangulo strozi di pompe sukia di benzina che ha appena imparato la lingua, da un grassone tennista fallito riconvertito a stupratore cleptomane alcolista, da una giornalista ambientalista sinistroide alcolizzata che aspetta un figlio probabilmente handicappato e da un dottore col vizio della privacy. Humour nero a palate: peccato per il secondo tempo incespicante, ma comunque ovazione finale.
Scena chiave: tutto quello che provoca la faccia incredula del nazi-skin (compresi i Take That)

Bonus Track:
How Deep Is Your Love - Take That

ps: prosegue la telenovela “Prima di Maria Antonietta”. La settimana prossima la passerò in trasferta e perderò la prima a gratis di Bari. Ci sarebbe quella al Torino Film Fest, ma dubito di potercela fare.

7.11.06

Ritorno A Casa (Koze)

Il post sulle camere dei dj ha colpito l'immaginario di molte persone. A distanza di qualche mese, ne ritorno a parlare perché una delle stanze più discusse, quella del panorama alpino di DJ Koze, prende vita in un video virale degli International Pony (lui, Cosmic DJ, Erobique) in cui da veri secchioni si cimentano in una cover di Flashback di Laurent Garnier illuminati dalle lucine di Natale e da una spacchiosissima sirena.



Bonus Track (chettelodicoafare):
Our House (Ada Remix) - International Pony

6.11.06

Silent Shout

Prima o poi sarebbe arrivato qualcosa con cui spendere il gioco di parole


Need To Shout (Mocky Remix) - Architecture In Helsinki
Forever Indebted (Mocky Remix) - Shout Out Out Out Out

Apri un varco, di luce, sui miei occhi

In città c’è la rassegna e allora come non farne cenno, oltre per il fatto che grazie all’abbonamento potremmo vedere a gratis in anteprima Maria Antonietta, se non fosse che verrà proiettato in contemporanea col concerto di Barbara Morgenstern. Comunque, di seguito un breve resoconto dei primi tre giorni

Prima giornata: Forme del Desiderio
Bombon El Perro (di Carlos Sorin): l'uomo meno espressivo del mondo (detto anche "quello con la faccia del coglione") riceve un cane sensibile che gli cambierà il destino. Alla fine il cane riesce a trombare nonostante la sua sensibilità.
Scena chiave: la citazione da Men in Black
L'Arco (di Kim Ki Duk): un vecchio sviolina sul trespolo di una barca delle nenie insopportabili per farsela dare facile da una quindicenne in mezzo al mare. Kim Ki Duk al solito sottolinea la superiorità orientale, capace di amare, litigare, mandarsi a fanculo e riconciliarsi senza finire i minuti della promozione Wind.
Scena chiave: nascondo il coltello sotto il tappeto, sennò poi non me la dà
Mary (di Abel Ferrara): un film tratto da una canzone dei Gemelli Diversi è troppo anche per noi. Abbiamo fame e ce ne andiamo da Di Cosimo a farci prendere a parolacce.
Scena chiave: il panzerotto come antipasto

Seconda giornata: Lingua Originale
Il Tempo Che Resta (di Francois Ozon): il ragazzino di Comte d’été, cacchio, ecco chi era! Un fotografo gay ha i giorni contati e decide di morire sulla spiaggia, come in un film francese. Siccome però è un film francese di Ozon, prima dorme con la nonna nuda Jeanne Moreau, poi ha un flashback di quando da piccolo pisciava nelle acquasantiere e poi mette incinta Valeria Bruni Tedeschi durante una cosa a tre col di lei marito sterile.
Scena chiave: il pubblico etero meno esperto scopre che i gay fanno l’amore anche guardandosi in faccia
13 di Gela Babluani e Tough Enough di Detlev Buck: abbandoniamo, in teoria momentaneamente, perché il film delle tredicenni che si fanno il piercing sulla lingua l’abbiamo già saltato quando uscì nelle sale. Nella realtà non torneremo per il classico d’azione tedesco dagli stessi autori di Sorella Lotte.
Scena chiave: il medaglione con la zampina da Enzo e Ciro

Terza giornata: Young Americans
Thumbsucker di Mike Mills: non riusciamo a presenziare causa compleanno di infante, ma giuro che anche lì c’erano tanti che si ciucciavano il pollice.
Scena chiave: ma la natalità non era zero?
Il Calamaro e la Balena di Noah Baumbach: un film andersoniano, non a caso prodotto da Wes Anderson. Le giacche di velluto intorno ridono rumorosamente di se stessi, come se vedessero a casa con gli amici un filmino in super 16 del loro divorzio anni Ottanta. E poi c’è Jeff Daniels, attore secondo me amabile ma sottovalutatissimo fin dai tempi di Scemo e più scemo.
Scena chiave: lo sperma appiccicato ovunque dal bambino
Napoleon Dynamite di Jared Hess: Ah, la sana e classica demenza, in camera fissa. Le giacche di velluto abbandonano alla spicciolata durante il film. Grasse risate e alla fine immaginiamo la gara a chi trova il commento giustificatorio più intellettualoide e meno filisteo. Per la cronaca, la bellona (cessa anzichenò) della scuola è la sorella di Hillary Duff, mentre la protagonista femminile Tina Majorino recitò nell’indimenticato classico tappabuchi di Canale 5 Corrina, Corrina.
Scena chiave: troppe, dal Rex Kwan Do al lancio della bistecca in faccia

Quarta giornata: Pop Art
Face Addict di Edo Bertoglio: oggi unica proiezione è questo documentario sulla downtown di fine anni Settanta, primi anni Ottanta. Blondie, Wahrol, Basquiat e compagnia bella. Io però devo andare a pagare l’affitto. Magari si riprende dalla quinta giornata.
Scena chiave: la madre novantatreenne della mia padrona di casa che mi chiede le solite cose con un accento materano strettissimo

4.11.06

Piangina

Due sere fa agli Europe Music Awards di MTV We Are Your Friends di Justice vs Simian ha vinto il premio come Miglior Video, battendo il balletto degli OK Go, le macchie cantanti di Crazy, la solita menata autoironica da due lire di Pink e sopratutto Kanye West. Mentre veniva assegnato il premio a distanza (i due Justice sono in tour negli Stati Uniti), Kanye West è salito sul palco e ha cominciato a piagnucolare, dicendo che il suo video è costato unmilionedidollari, c'era dentro Pamela Anderson, lui veniva sparato con un razzo su un canyon e "se questo video non vince, la manifestazione perde di credibilità". Ora, lungi dal dedurre elucubrazioni su come questo premio abbia celebrato la viralità indipendente e cazzona a fronte dell'industria pseudoilluminata, non finisco di stupirmi (e di ridere) per come persone universalmente, e forse a torto, ritenute intelligenti siano capaci di ricoprirsi di ridicolo in pochi secondi con una goffagine che non si può addebitare solo alle sostanze.


(il video è preso da iFilm perché gli upload su Youtube sono stati prontamente cancellati)

2.11.06

Poi non è vero che sono proprio un cretino

Mentre chiudo il portatile dopo una pesantissima giornata lavorativa non so se deponga più a mio sfavore la mia faccia da cretino mentre canticchio la Bongo Bong di Robbie Williams, o quella da demente mentre mi autobullo di avere inventato dopo il Two-Step e dopo il Dub-Step, signore signori, il Twee-Step! (altro che Simon Reynolds...)

What's wrong Rico?



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Ho passato il pomeriggio (ndBR: di due giorni fa) a sentire Fizheuer Zieheuer e What's Wrong My Friend e nonostante mi sia passata addosso tutta la banda del paese, nonostante l'orchestrina jazz, nonostante i pigmei e i titoli gustosamente nonsense alla Toti "Topo topo / senza scopo / dopo te / cosa vien dopo?" Scialoja, posso definitivamente affermare che io Villalobos preferisco non capirlo, perché, dovendolo capire, forte è l'idea che ami (anche lui) prenderci (prenderli) per i fondelli. Nonché, non essendo appassionato di troche, quando ascolto Rico ("Hola Chico!") l'indice freme sullo skip e molte volte (tra di noi, sempre!) ha la meglio, sui buoni propositi, sulla buona opinione pubblica, sul fatto che dietro quella password possa esserci qualcosa che giustifichi più di un pomeriggio o di una notte con lui.

(Potrei dirvi cose simili anche di Luciano, ma lui lo odio e lo amo perché ogni volta che sento la sua versione per orchestra robottina della colonna sonora di Amélie mi commuovo come un agnello e non mi vien voglia di cavare un occhio col cucchiaio ad Audrey Tatou)