Ascolta Velocifero, il nuovo dei Ladytron
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31.3.08
27.3.08
Tutti i sabati in casa della nostra giovinezza
Son giorni in cui certi trentenni come me han da far conti dal punto di vista musicale. Uscite come quelle di Portishead, Notwist e Matmos mettono davanti ad un come eravamo / come siamo / come saremo denso di attese prolungate, scelte diverse e umori ormai più o meno distaccati. Forse dovrei scaricare anche il nuovo Moby. Invece cerco di venire a capo di Saturdays = Youth degli M83. Sono affezionato agli M83: i cauti post dalla forma incauta sul vecchio e sul nuovo blog stanno lì a ricordare quanto si possa crescere ed essere menopeggio.
L’uguale non tragga in inganno. Saturdays = Youth è un disco per vecchi. Vecchi che da giovani passavano i loro sabati ad ascoltare musica già vecchia e soprattutto inutile. Quale giovane donna quindicenne metterebbe sulla testata del suo myspace/twitter/facebook parole come “The cemetery is my home, I want to be a part of it, invisible even to the night…I'm 15 years old and I feel it's already too late to live. Don't you?”? Qualcuna di sicuro ci sarà, ma il problema siamo noi, quelli che maciniamo revival a velocità così alte (dove eravamo quando avevamo altri gusti?!) che ormai amiamo anche il revival al quadrato. Il revival dell’ascolto revival.
Non si confronti allora S=Y con i vecchi dischi degli M83. I suoi stracci di Kate Bush sono oltre Rossana Casale che fa Kate Bush nel jingle della pubblicità della Coppa del Nonno e oltre le cover dei Chromatics, siamo alla ristampa dei dvd di Twin Peaks e quest’estate ormai tutte le band shoegaze avranno perfezionato la loro reunion. Balliamo sia la techno di Detroit che Redshape che chi copierà Redshape. E i giovani sono da qualche altra parte, con qualche altra diavoleria troppo noiosa. Sui quindici minuti iniziali remix (gli unici amabili) di My Blueberry Night di Wong Kar Wai, temevamo amavamo l’idea di un remake afro-beat de Il Giardino Delle Vergini Suicide. I Portishead mi hanno sorpreso, i Notwist mi hanno ricordato che non riesco più a essere così ghei e i Matmos, beh, quelle cose le trovo più divertenti in salsa techno sul nuovo ep di Four Tet. Forse dovrei scaricare anche il nuovo Moby.
L’uguale non tragga in inganno. Saturdays = Youth è un disco per vecchi. Vecchi che da giovani passavano i loro sabati ad ascoltare musica già vecchia e soprattutto inutile. Quale giovane donna quindicenne metterebbe sulla testata del suo myspace/twitter/facebook parole come “The cemetery is my home, I want to be a part of it, invisible even to the night…I'm 15 years old and I feel it's already too late to live. Don't you?”? Qualcuna di sicuro ci sarà, ma il problema siamo noi, quelli che maciniamo revival a velocità così alte (dove eravamo quando avevamo altri gusti?!) che ormai amiamo anche il revival al quadrato. Il revival dell’ascolto revival.
Non si confronti allora S=Y con i vecchi dischi degli M83. I suoi stracci di Kate Bush sono oltre Rossana Casale che fa Kate Bush nel jingle della pubblicità della Coppa del Nonno e oltre le cover dei Chromatics, siamo alla ristampa dei dvd di Twin Peaks e quest’estate ormai tutte le band shoegaze avranno perfezionato la loro reunion. Balliamo sia la techno di Detroit che Redshape che chi copierà Redshape. E i giovani sono da qualche altra parte, con qualche altra diavoleria troppo noiosa. Sui quindici minuti iniziali remix (gli unici amabili) di My Blueberry Night di Wong Kar Wai, temevamo amavamo l’idea di un remake afro-beat de Il Giardino Delle Vergini Suicide. I Portishead mi hanno sorpreso, i Notwist mi hanno ricordato che non riesco più a essere così ghei e i Matmos, beh, quelle cose le trovo più divertenti in salsa techno sul nuovo ep di Four Tet. Forse dovrei scaricare anche il nuovo Moby.
We Own The Sky - M83
Up! - M83
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17.3.08
Puntini di sospensione
Sono vivo. Se tutto va bene, dalle prossime settimane potrò anche tornare più spesso da queste parti. Ovvero via da Torino, dai live di Tiger Stripes, Shout Out Louds, 2000 And One e dell’I Am Festival (con Funk’d’Void, Los Hermanos, Fumiya Tanaka, A Guy Called Gerald, Ananda ed Eulberg)
Una volta c’erano nei pub i gruppi di diciottenni che scopiazzavano Sonic Youth e Blonde Redhead. Oggi sei passato ai club e i diciottenni imitano in console Nathan Fake, persino nella capigliatura pennellona. Una volta andavi a vedere al Cinema Massimo il film muto Dans La Nuit musicato dai Gatto Ciliegia contro il Grande Freddo. Oggi vai al King Kong MicroPlex a vedere Three Ages di Buster Keaton musicato da Jeff Mills.
Non sono potuto andare alla data torinese dei Baustelle. Tutto esaurito giorni prima. Io non sono abituato ai ‘tutto esaurito’. Con una forma di rimozione nervosa, per me il concerto non avviene più, così come nel caso di eventi a cui non si può partecipare. Alcuni credono di avere visto i Pixies quattro-cinque anni fa e invece si era trattato di allucinazione collettiva.
In compenso il giorno dopo sono andato a sentire Juan Atkins, l’uomo che con Model 500, Cybotron e un’altra dozzina di nomignoli ha segnato la transizione dall’electro funk alla techno di Detroit. Col cervello mangiato dagli alieni dei suoi pezzi, il succedersi impreciso dei consueti capisaldi aveva un che di spettrale. Pesante e techno nella prima parte, malinconicamente disco nella seconda. L’aria da revival in casi come questi è giustificabile, ma di fronte al rullo compressore di The Bells, alla lussuria di I Feel Love e all’unico pezzo del bis – quella Jaguar che risveglierebbe gli entusiasmi anche a una mandria di elefanti sedati – testa e cuore non superavano il contrasto tra pezzi oggettivamente “inutilizzabili” e l’effetto potente che continuano ad avere.
La settimana dopo, l’enorme fila davanti all’Hiroshima Mon Amour per gli Autechre è fatta di giovani, vecchi, sinistrati, cubiste del Club 21, manovalanza impiegatizia e uomini e donne di mezza età che non hanno superato indenni la frequentazione con le droghe chimiche della seconda metà degli anni Novanta. Sono solo le 22e30 e Rob Hall sfugge al concetto di djset di apertura con una techno molto inglese, acida ma rotonda, ritmicamente dritta ma ornata di break spezzati. I SND si presentano sul palco con due martelli pneumatici della Apple: per due minuti in mezzo mi sono divertito, per il resto credo che abbiano iniziato i lavori del nuovo capolinea della metro al Lingotto. Fortunatamente Rob Hall torna in scena alla destra del palco, mentre al centro attaccano i jack. Poi si fa buio. Buio nero. Niente schermi e visuals, niente strobo e riflettori, niente luce verde per le uscite di sicurezza. Gli Autechre cominciano spediti, ballabili e belli grassi. Il buio non va via. Se hanno degli schermi sono orizzontali e privi di illuminazione. Il concerto è il contrario di Quaristice, solido e continuo. Al primo rallentamento quasimelodico scoppia l’applauso. Ma tutto rimane buio. Ballano tutti, il live trasuda esperienza e mi chiedo se qualcuno ci avesse già pensato: più che inquietante quel buio sapeva di rimozione dell’inutile, dei capelli rosso finto, dei cardigan, dei jeans dentro gli stivali, dei pallini sui maglioni infeltriti, dei giubbotti di pelle nera, del vuoi qualcosa, del che mi dai un sorso, della chiacchiera in mezzo al concerto, dei flash delle macchine digitali, di tutti voi. Chiunque e qualunque cosa voi siate. Poi dopo un’ora senza cadute di tono le luci si sono riaccese sull’applauso e non si sono rispente per un bis. Rob Hall prende in consegna la ventina di persone che decide di restare per la sua chiusura, che non andrà oltre un’ulteriore gustosa mezzora. Sono le 2e30, tutto è finito e mentre torno a casa mi sembra di risentire di tre ore di fuso orario.
Rae - Autechre
Vessels In Distress - Model 500
Una volta c’erano nei pub i gruppi di diciottenni che scopiazzavano Sonic Youth e Blonde Redhead. Oggi sei passato ai club e i diciottenni imitano in console Nathan Fake, persino nella capigliatura pennellona. Una volta andavi a vedere al Cinema Massimo il film muto Dans La Nuit musicato dai Gatto Ciliegia contro il Grande Freddo. Oggi vai al King Kong MicroPlex a vedere Three Ages di Buster Keaton musicato da Jeff Mills.
Non sono potuto andare alla data torinese dei Baustelle. Tutto esaurito giorni prima. Io non sono abituato ai ‘tutto esaurito’. Con una forma di rimozione nervosa, per me il concerto non avviene più, così come nel caso di eventi a cui non si può partecipare. Alcuni credono di avere visto i Pixies quattro-cinque anni fa e invece si era trattato di allucinazione collettiva.
In compenso il giorno dopo sono andato a sentire Juan Atkins, l’uomo che con Model 500, Cybotron e un’altra dozzina di nomignoli ha segnato la transizione dall’electro funk alla techno di Detroit. Col cervello mangiato dagli alieni dei suoi pezzi, il succedersi impreciso dei consueti capisaldi aveva un che di spettrale. Pesante e techno nella prima parte, malinconicamente disco nella seconda. L’aria da revival in casi come questi è giustificabile, ma di fronte al rullo compressore di The Bells, alla lussuria di I Feel Love e all’unico pezzo del bis – quella Jaguar che risveglierebbe gli entusiasmi anche a una mandria di elefanti sedati – testa e cuore non superavano il contrasto tra pezzi oggettivamente “inutilizzabili” e l’effetto potente che continuano ad avere.
La settimana dopo, l’enorme fila davanti all’Hiroshima Mon Amour per gli Autechre è fatta di giovani, vecchi, sinistrati, cubiste del Club 21, manovalanza impiegatizia e uomini e donne di mezza età che non hanno superato indenni la frequentazione con le droghe chimiche della seconda metà degli anni Novanta. Sono solo le 22e30 e Rob Hall sfugge al concetto di djset di apertura con una techno molto inglese, acida ma rotonda, ritmicamente dritta ma ornata di break spezzati. I SND si presentano sul palco con due martelli pneumatici della Apple: per due minuti in mezzo mi sono divertito, per il resto credo che abbiano iniziato i lavori del nuovo capolinea della metro al Lingotto. Fortunatamente Rob Hall torna in scena alla destra del palco, mentre al centro attaccano i jack. Poi si fa buio. Buio nero. Niente schermi e visuals, niente strobo e riflettori, niente luce verde per le uscite di sicurezza. Gli Autechre cominciano spediti, ballabili e belli grassi. Il buio non va via. Se hanno degli schermi sono orizzontali e privi di illuminazione. Il concerto è il contrario di Quaristice, solido e continuo. Al primo rallentamento quasimelodico scoppia l’applauso. Ma tutto rimane buio. Ballano tutti, il live trasuda esperienza e mi chiedo se qualcuno ci avesse già pensato: più che inquietante quel buio sapeva di rimozione dell’inutile, dei capelli rosso finto, dei cardigan, dei jeans dentro gli stivali, dei pallini sui maglioni infeltriti, dei giubbotti di pelle nera, del vuoi qualcosa, del che mi dai un sorso, della chiacchiera in mezzo al concerto, dei flash delle macchine digitali, di tutti voi. Chiunque e qualunque cosa voi siate. Poi dopo un’ora senza cadute di tono le luci si sono riaccese sull’applauso e non si sono rispente per un bis. Rob Hall prende in consegna la ventina di persone che decide di restare per la sua chiusura, che non andrà oltre un’ulteriore gustosa mezzora. Sono le 2e30, tutto è finito e mentre torno a casa mi sembra di risentire di tre ore di fuso orario.
Rae - Autechre
Vessels In Distress - Model 500
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