All'improvviso un disco mi racconta. Racconta il peso degli anni passati a sentire musica pensata per far divertire (gli altri). Le gambe stanno cedendo, dopo una certa ora senti il mal di schiena e il battito è rianimatorio. Bilanci. Certi dischi rappresentano e raccontano chi li ascolta con un valore stellarmente più importante dei dischi belli in assoluto. Ma poi è bello in assoluto, anche, poche storie: come quel cavallo in copertina scoppia con le sue vene, i suoi muscoli e il suo crine nella polvere.
Imperfezioni, io amo le imperfezioni (le increspature di Selfoss, l'accostamento analogico zingaropolislamica di Selfoss, il tzan tzan di Selfoss, i polyrhitmi di Be With Me, la memoria dei primi due pezzi nel terzo, il ticchettio di un tempo che non è il secondo in Deep Inside, l'assenza di imperfezioni mentre si enumerano i difetti in Over, il cello slabbrato che prelude a granule della voce in Within You, il sinth gommoso fuori fase del cavallo arabo e gli echi a fette delle sue voci, i cigolii liquidi di Magnified Love e quell'urletto, la metrica impossibile del ritornello di When Your Lover's Gone, i rimbalzi di mille sport non giocati di mille strumenti non suonati in Benched)
Self(l)oss. Il letto è una prigione senza di te in cui ci rigirarsi (Be With Me now). Deep Inside commuove quando urla deep e aggiorna a suoni da via lattea i Blue Nile (così come When Your Lover's Gone): congelata fuori posto inceppata è il suono del non si sa perché non vada. Over. Finito. Oltre. Abbiamo fatto i nostri sbagli. Siamo andati su e giu. Una volta dopo l'altra. Incrociato, tradito. Non abbiamo nemmeno provato a far funzionare le cose. Make me over vuol dire trasformami. Nella solenne Within You arpeggio archi e grani di disturbi vocali puntano tutti sul falsetto del vocione. Lacrime nelle vene, cuori nelle mani, ho venduto il mio oro. Arabian horse (il pezzo) scompare come l'inizio di un lato b che si perde nei suoi rivoli e si aggrappa al ritornello non sellato. Un lato che si arrende e si lascia perdere nel club fumoso.
Messi in panchina non aspiriamo con orgoglio alla vita da mediano. Con l'orgoglio vano di un cavallo senza sella che scalpita nel deserto, incurante che nessuno sia intorno. I Gus Gus sono tornati. Arabian Horse.
(e visto che il pezzo in streaming è stato rimosso, eccoli in tutto il loro splendore live)
Intro: si arriva presto e la prima ora è una birretta sul parco di erba sintetica coi cuscini giallo e blu e i Za! che rompono le palle a The Tallest Man Of Earth appropriato per l'atmosfera rilassata.
Yuck: concerto del pomeriggio del festival. Sono fatti per dargli addosso e invece le loro perfette ovvietà pop da pischelli sono ultrafunzionali per l'auto, la spiaggia e il vento nei capelli. Una lentissima Rubber chiude le carezze.
tUnE-yArDs: ne ignoravo l'esistenza fino al primo pezzo. Ma cosa sono le Cocorosie afrobeat? Musicalmente tocca anche cose che mi piacciono, ma siamo un altro mondo.
Fleet Foxes: sanno suonare insieme, sanno cantare insieme, potrebbero rompere le palle insieme e invece incantano insieme. E poi quei Sim Sala Bim, Mykonos, IwasfollowingtheI sono gli elementi fuori posto che trasformano la normalizzazione nella psichedelia fuoriditesta che sono.
Gang Gang Dance: Santa Dnympha sarà stata la patrona dei malati mentali, delle vittime di incesto e dei fuggiaschi, ma loro sono la spazzatura del mondo sul palco (sono zingari, mi si chiede?). Già si percepisce pesante la cappa di PJ, ma comunque mantengono occupato il Pitchfork Stage, con un live incentrato sull'ultimo discusso (e ottimo) disco. Accompagnati da due Mangoni (uno sbandieratore di lavori stradali e uno storpio che fa la verticale) e con la cantante che indossa la canottiera rigata della salute su una tutina di latex, sono l'effetto Pisapia del Primavera.Il ballo tra la spazzatura umana termina solo quando lo urla il muezzin.
Matthew Dear Live Band: nel pieno del live di PJ non c'è esattamente il pienone per il concerto di Matthew Dear, irricchionito in uno smoking bianco e in atteggiamenti pesantemente new romantic. Stranamente però il live sembra una roba acid house dell'89 grazie alla struttura dilatata e all'apporto costante del trombettista. Menzione d'onore al manipolo di quattordicenni spagnoli (figli di qualche organizzatore?) che conoscono a menadito i pezzi e trasformano il sottopalco nello studio di Non è La Rai.
James Blake DJ Set: le donnine inglesi delle prime file urlano come nemmeno al concerto. Il dj set è tutto quello che ci si aspetta, dagli harmonimix che prendono di mira la musica nera (compreso Bills), ai tentativi di carica techno, dai suoi pezzi non cantati al dubstep puro col basso wahwah scorreggione. Purtroppo manca quel senso di costruzione poco caro al djismo dubstep e molto più presente negli orizzonti dei dj techno.
Animal Collective: merda. Dispersivi e poco propensi a misurarsi col fatto di trovarsi sul palco principale, annegano la prima mezzora in pezzi sconosciuti (era per caso la musica di Oddsac?), in un suono che non convince e in pause che spezzano tutto l'interesse. Si rimpiange l'aver perso gli Odd Future e si corre da DJ Shadow.
DJ Shadow: la trovata visiva del festival è semplicissima. Una palla che contiene il protagonista e tira fuori le tre dimensioni dai visual. Musicalmente non viene fornita nessuna concessione al qui e ora. Il concerto è la visione del mondo musicale di Shadow, forse ora vecchia eppure energetica come quasi nessun'altra esibizione elettronica del festival. Mi sono perso il primo quarto d'ora per colpa dell'organizzazione (ha fatto Midnight?) ma per il resto dopo un po' di inediti è partita una sequela di tesissime riletture dei primi due dischi. Forse ancor più dei Pulp, per la distanza da quei giorni e da quei beats, questo è stato il vero momento nostalgia del festival. E il finale, coi titoli di coda in Orbovision.
Persi della giornata: John Cale, Damo Suzuki, The Soft Moon, Mercury Rev, Einstürzende Neubaten, Galaxie 500, Jon Spencer Blues Xplosion (ma sentita di passaggio Flava), Odd Future, Holy Ghost, Kode 9, Caspa, Mogwai (Messi Fear Satan)