Non andavo a un concerto da quasi otto mesi e se devo tornare indietro fino all’ultimo bel concerto visto i mesi crescono. Ho serie difficoltà nel trovare (e perché no, nel provare) quel movente che ti fa uscire di casa in cerca di gente che imbraccia strumenti e intona parole. In un certo senso i chilometri aiutano a mettere le cose in prospettiva, se non altro perché rendono le cose giusto un po’ più difficili. Fatto sta che sabato scorso ho fatto i chilometri e ne è valsa la pena.
A me sembrava di stare dentro il 2009. Dondolavo aggrappato all’arco superiore del 2, facevo uno slalom dentro gli 0 e sfidavo la gravità in un antiscivolo che dal 9 mi sparava verso l’alto. Solo per caso fuori un’insegna diceva Rolling Stone, ma era il presente, circondato da un posto morente, da gente che forse ancora non capisce e che di sicuro non balla perché preferisce esserci.
Alle otto e mezza Pantha Du Prince suona un vero campanello e da rumori di fondo solleva la sua techno pop tintinnante. Mentre ballo sul posto vedo intorno facce che dicono disorientate “Che c’entra la unz alle otto e mezza”, ma il buon Hendrik ha il merito di montare un set dall’energia crescente che smuove alcuni gruppetti, fossero anche solo in vena di mossette goliardiche, fino al finale con due ottimi pezzi nuovi, il primo con aperture vocali femminili alla Orbital e l’ultimo techno abrasivo e corposo.
Tra il suo shutdown e il primo bottone degli Animal Collective capisco perché certi posti devono chiudere: su quell’insensato pezzo hard rock per sonorizzare l’intermezzo avrei voluto lanciarmi in un reverse ram jam verso il selezionatore della piccionaia. Il palco è fico in parte: belli i drappeggi a nuvola dai quali sorgono i macchinari e la perpendicolarità tra i cosi di Avey Tare e quelli di Panda Bear, ma i due tengono avulso Geologist sulla sinistra, la palla non salta sul pubblico e non è una piñata, non ci sono i leddoni verticali e la copertina di Merrychristmas è sullo sfondo lontana, rabbuiata e soprattutto non illude otticamente ma sembra più la tappezzeria di un divano dei nonni.
I'm the dancer.
In The Flowers comincia così come comincia il disco, giusto con le briglie più trattenute e meno detonante sul finale. Avey Tare che avanza crooneggiante verso il pubblico è simbolo di confidenza e confidenzialità, ma la vera gioia è nell’emozione che nasce da manopole e tasti premuti non come orpelli ma come strumenti che influenzano la scrittura e le possibilità.
Lion In A Coma va e viene come uno scacciapensieri siciliano ed è solo con
My Girls che alcuni tra gli smorti del pubblico si scuotono e saltano, coi campioni che svariano asincroni e un prolungamento che destabilizza ipnotico i fedeli dei limiti temporali della canzoncella pop. In mezzo i pezzi vecchi sono rimaneggiati all’occorrenza:
Slippi è tirata a lucido dalle sporcizie blackdiciane,
Winter’s Love è sospensione sentimentale e
Chores parte solenne come un inno nazionale che all’improvviso esce fuori di testa. L’impianto che sembrava ottimo per Pantha Du Prince, messo alla prova mostra i suoi limiti acustici mancando di quella definizione che a Roma sarà stata ottima, ma è pur sempre meglio di certi altri postacci a cui purtroppo ormai si è fatta l’abitudine.
Daily Routine è un dondolo e la corsa verso il finale è tutto un crescendo: il pezzo nuovo noto come
Blue Sky inizia come Orb + breakbeat e si solleva piroettando con un uso circolare di un campione vocale che ricorda certe soluzioni del recente Jens Lekman. Il palpito arpeggiato di batteria di
Lablakely Dress, variato nel passo, introduce una
Fireworks che è lo stupore, i colori e la gioiapaura dei primi fuochi d’artificio visti su una spiaggia familiare coi tizzoni che ti cadono sui piedi e la rincorsa verso quel 2009 che è il finale.
Brother Sport pesta e rincuora gli entusiasmi in vista del bis trasognato su
Guys Eyes e su una conclusiva
Summertime Clothes saltata a squarciagola. Gli Animal Collective hanno visto e incasinato tanto, ma (come su disco) sembra che solo oggi abbiano compiuto un cammino in cui la comprensione dei propri limiti e delle proprie possibilità ha portato al pop più bello che abbiamo in circolazione. Poi non ho avuto la possibilità di urlare
Are You Also Frightened (ma forse era un momento troppo à la Flaming Lips da desiderare), non ho avuto la mia amata
Bluish e soprattutto il primo pezzo post-concerto è stato
Ulysses dei FranziFerdinandi (e non certo quella giuoia aphexata di
Fentiger) che mi ha sfollato verso un meritato sonno già a mezzanotte, schivando il delirante volantinaggio di Rockit e pensando che è una di quelle serate in cui fai scorta per tempi sicuramente più bui.
Fireworks (live at Bowery Ballroom NYC) - Animal Collective