3.1.05

Train In Vein


Il viaggio non richiede una spiegazione ma solo dei passeggeri. I passeggeri di treni si dividono in quelli che prenotano il posto e quelli che cercano una volta su: i primi sfidano ogni volta il caso sulla scelta dei compagni di viaggio, i secondi hanno il gusto della ricerca. Io decido a seconda delle situazioni. Per esempio questa volta ho prenotato all’andata ma non al ritorno. O forse è il contrario e la prenotazione è la sicurezza di ciò che c’è quando arriva il 366esimo giorno, quella sicurezza che non devi avere in una mattina come quella del primo di Gennaio. Porto un libro da finire nel viaggio d’andata e uno che inizierò in quello di ritorno.

All’andata avevo davanti a me una ragazza dalla bellezza normanna. Le ragazze dalla bellezza normanna non sono rare a Palermo, longilinee bionde diafane dagli occhi azzurri discendenti di uno splendore multietnico che è anche il mio. La ragazza dalla bellezza normanna ha davanti a sé una copia de Il Codice Da Vinci, è alla fine del libro anche lei. Legge una pagina e si appisola. Ne legge un’altra, testa china, libro che scivola sulle gambe spiegazzando una pagina. Io fisso il finestrino e lo scorrimento di acqua-case-binariinparallelo assorto nel paesaggio piovoso con la malinconia delle otto di mattina. La ragazza dalla bellezza normanna ogni tanto mi sbircia sul riflesso del vetro con occhi che si fanno domande. Non trovando risposte prende da un sacchetto una vaschetta di macedonia e si ingozza gonfiandosi le magre guance.

Avevamo da poco superato Novara, quando alla stazione di Barcellona sono arrivate le mie cinque compagne di caso. Con fare minaccioso hanno intimato lo sfratto alla ragazza dalla bellezza normanna, che nel frattempo voltata verso di me mi guardava disperata per l’addio, o forse soltanto perché doveva spostare con sé una valigia pesantissima. Le cinque ragazze sono tre amiche più una zia e la sua amica, tutte in viaggio verso il capodanno romano. Hanno nomi strani le cinque ragazze: passi per Federica la riccia maschiaccia, vada per Domizia la lettrice della copia di fine anno di Visto, ma sulla rossa e taciturna Nancy ho cominciato a chiedermi se l’avessero chiamata così per la Reagan o per la Sinatra. La zia dal capello corto gellato si chiamava Pia e l’amica comica Pupa.

Eletto subito mascotte del gruppo (sennò come avrei mai potuto sapere i loro nomi?) ricevo un minimars in regalo e subisco un accurato terzo grado. Dopo alcune risposte Pupa mi chiede se non ho mica anche quarant’anni e non ho capito se mi ha detto questo in quanto unica caratteristica che mi mancava per essere il suo buon partito o perché nell’ultimo anno mi sono successe cose che a tanti succedono in tempi più dilatati. Per distogliere l’attenzione dai miei confronti, alla domanda sulla mia destinazione ho risposto che dopo mezzanotte avremmo ballato rock ed electro: frasi come queste hanno un effetto sicuro, senza dover scomodare l’indie.

La situazione non era però migliorata durante i discorsi che facevano tra loro. Erano giunte agli aneddoti contemplanti la cacca quando provvidenziale è arrivato lo Stretto di Messina, il traghetto, la libertà. Per mezzora. Da quel momento in poi hanno passato il viaggio alternando cibarie (avevano portato di tutto), sonnolenze e telefonate ai cellulari interrotte da gallerie in cui ricevevano informazioni sui duemila diggei che avrebbero messo i dischi alla Fiera. Foto di rito con me dotato di gesto della pace/vittoria indice-medio similgiapponese Ciao. Ciao. Auguri. Magari ci si vede sul treno del ritorno.

Il treno del ritorno parte alle 7.27 ed è vuoto. Non ho preso uno scompartimento vuoto per me, ho preso un intero vagone. Ho chiuso le tende sul corridoio, ho abbassato la tapparella davanti al finestrino. Ho spento le luci. Ho steso le poltrone e per la prima volta sono riuscito a dormire su un treno. Nessun rumore che mi desse fastidio, nemmeno il controllore che è entrato per avvisarmi che posso prendere un vagone per me, ma sarebbe meglio prendere quello più avanti di seconda classe, anch’esso vuoto. Poco prima del passaggio sullo stretto mi risveglia una telefonata e allora salgo sul ponte del traghetto e fisso le coste assorto, senza un pensiero esatto o compiuto nel mio assortimento.

We’re not deep (babapappapapà ba ba ba baaa)*

Nel frattempo tra queste dodici ore, altre dodici ore di belle facce, corse e musica che non ricordo. Non avrei potuto passarlo senza i veri e propri fratelli che mi sono stati vicini quest’anno durante i miei spostamenti sconclusionati. E comunque sarebbe stato infinitamente meno divertente senza gli altri cari, Benty, il gigante buono che ci ha guidati alla rivolta contro i matusa della metro, Enver il genio, dagli occhiali bianchi al pippobaudismo più anni ottanta che puoi immaginare e se non sei convinto del suo genio è soltanto perché non hai l’esclusiva compila in tiratura limitata per i protagonisti della serata che contiene un delirante e gustosissimo megamix che non vi sto a dire e la citazione clintoniana di fine anno, Fio, che insieme a me si dissociava felice dai brindisi anti-2004, Mammara, beatamente sdraiato durante Caparezza e miniera di racconti come quando ha parlato della partita di calcio con gli Housemartins, Max-IBDD, che reggeva poco alcune derive canore mosse dall’alcool ed ero d’accordo con lui fino a quando però non siamo finiti sugli ABBA (e non mi si tocchino gli ABBA).

La prima parte della serata è stata ambientata curiosamente in quei luoghi dove un anno e mezzo fa andavo a cambiare la mia vita. Terminata la festa alcolica con l'immancabile (dolceconretrogusto)amaro San Simone sui gradini di una strada frequentata solo da gente che cercava altre strade, ci siamo mossi in metrò verso Cinecittà. Ora, siccome sono figo, tacerò dei cori sulla metrò e ricorderò soltanto come ci avvicinassimo all’obiettivo cantando l’omonima canzone dei Baustelle. Poi siamo andati a ballare. Nel locale Fake, nomenomen, mi hanno fottuto l’unica spilletta che indoss(av)o sullo zaino (quella dei polaroidi) e ho perso la mia amata sciarpa. Ho ballato tutto il tempo con un’altra Fiorenza, (coincidenza, ma quante Fiorenze ci sono in Italia?), chimica dottoranda per giunta di Bari (a questo punto ho urlato al complotto e ho schivato un treppiedi). Alle sei di mattina eravamo diretti verso la stazione, ma non avrei potuto prendere il treno se non mi fossi fatto riprendere prima dalle telecamere durante il cappuccino.

* ebbene sì io avrei messo quella se avessi messo dischi

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