18.7.06

Falcidia e Martello

Ad Arezzo per la serata finale di Elettrowave. Ad Arezzo entriamo soltanto per chiedere indicazioni per arrivare al centro conferenze o centro direzionale che dir si voglia. Scopriamo subito che la domanda più ricorrente da lì al nostro ingresso riguarderà come si arriva al campeggio del festival. Immaginiamo perché. Il parcheggio enorme di Largo Spallanzani è ancora semivuoto, i furgoni promozionali dell’aranciata non sono ancora all’opera e dentro il prefabbricato di legno si prepara il botteghino per la serata. Decidiamo di andare verso quello che sembra un piccolo bar circondato dal vuoto della periferia aretina, un bar sotto un traliccio dell’alta tensione. Entriamo nel recinto e la sensazione è quella di un posto strambo alla Twin Peaks: un circolo apparentemente non privato con tavolate da cena all’aperto, ping pong, interni in legno e un enorme traliccio che sembra scherzare quando un suo cartello recita poco convinto “Pericolo di morte”. Ci guardiamo intorno per capire chi sono quelle persone – nessuno sembra lì per il festival, almeno all’inizio – e ci accorgiamo che c’è gente di tutte le età che chiacchiera segmentata in gruppetti non anagrafici: giovani donne in minigonna parlano con vecchiette arzille mentre due o tre bambini giocano con un pallone tra i tavoli. Forse sono radioamatori, forse sono camionisti. Sembra una serata non diversa da quella degli altri finesettimana per il bar sotto il traliccio, eccezion fatta per i tre anziani che mettono su una piastra e preparano diverse decine di panini con salsiccia o bacon. Uno di loro indossa un cappello verdegiallorosso dal quale scendono lunghe treccine rasta finte. Si percepisce qualcosa di inquietante, ma non si sa bene cosa, e l'insieme è così composito che i due-tre gruppetti di festivalieri potrebbero benissimo essere dei frequentatori abituali del bar sotto il traliccio. Forse i frequentatori del bar sotto il traliccio mi fanno pensare al miscuglio bislacco di gente che via via arriva nel parcheggio: giovani discotecari post-costantiniani, spaesati indie-kids, fricchettame agée, punkabestia al lavoro e persino un enorme cantante death-metal con sopracciglia rasate e aspetto vagamente simile a The Undertaker.

Facciamo il biglietto. All’ingresso i gorilla ci tolgono dalle mani il biglietto integro senza lasciarci un certificato di ingresso. Succede così a una quindicina di persone intorno me. Forse i poveretti hanno stampato pochi biglietti, mica penserete che vogliano fare la cresta sulla SeeAE o che vogliano pagare meno tasse?! Nel frattempo si pone la questione di ingannare il tempo fino alle due e mezza. Le stanze si aprono poco alla volta, si sente rumore di jack inseriti nelle prese, si sente il suono di un anonimo inizio d’accompagnamento. Gli spazi enormi sono ancora vuoti e parallelepipedi col toro dell’orrida bibita campeggiano totemici. Esamino una a una le installazioni che legano immagine, suono e danza e gioco, pervenendo alla convinzione che i palloncini fanno sempre la loro porca figura. Ci stravacchiamo nell’ormai solita zona chillout pseudo-balneare e mi chiedo segretamente se a Ibiza le zone chillout hanno i pupazzi di neve e gli slittini al posto delle palme finte e dei giochi da spiaggia. Nel frattempo accendono le luci della main room e noto che anche lì sopra, sul palco circondato da enormi maxischermi, c’è un piccolo, dannato, frigo dell’orrido beverone taurino: secondo noi dentro quel frigo ci sono finte lattine contenenti acqua brillante, cedrata e passoda, che in Sicilia chiamiamo passito consci del bisticcio tra i nomi.


Slow Down (Remix) – Uniquetunes
(niente a che vedere col festival, ma mi serviva un incipit musicale coerente a quanto sopra)


Ben presto ci accorgiamo che la main room è troppo tamarra per le nostre vezzose orecchie. Rientriamo spesso ma troviamo sempre gli stessi tre suoni con Cassino e Laben e di seguito Samuel Kakatone Subsonica – abbiamo sceneggiato tra di noi il momento in cui comunica il nome del suo progetto a Boosta e agli altri – è così preso dalla sua idea perniciosamente grezza di dance che si porta dei tamarri pure sul palco, di quelli che in discoteca fanno il gesto coatto con mano a conchetta oscillante di venticinque gradi, detto anche “Daje, ammojajela”.
Preferiamo dirigerci allora verso le altre stanze, incrociando nel tragitto anche Karl Kikkoson: decisa l’impraticabilità della Super Room in mano a Signor Andreoni per il calore insopportabile e la sua mancanza di aria, scartata la Cabaret Electronique dove un gemello amerigano di Raiss separato alla nascita cantava in napulitano con un complessino elettro-jazz, optiamo per la Different Beat dove assistiamo a una doppietta non male. Eliott Lipp della Hefty mischia del breakbeat con gustosi squarci melodici. La sua andatura non è troppo sostenuta, forse fatta apposta per ondeggiare, ma due ragazze giapponesi ballano di gusto nel vuoto della pista.
Il suo set è seguito dallo scoppiettante Daedalus della Ninja Tune, frac bianco, basettoni e fare aristocratico da maestro (o da grande maggiordomo del beat). Daedalus rinnova l’estetica del laptop set con un accrocchio di legno con le lucine sopra che sembra alternativamente un display per le votazioni al parlamento e una console (si dirà così?) per gli offertori in chiesa. Con l’accrocchio comanda battiti e strumenti, genera loop e scatena effetti. Il pubblico risponde, balla, chiede bis e alla fine si fa fotografare con lui. L’immagine c’è, bisogna valutarlo su disco. Intanto sono quasi le due e mezza e la Different Beat si sposta verso rap e grime.



Il mucchio DFA è già sul palco: Marcus Shit Robot Lambkin è il signore anonimo, Juan Maclean ha lasciato per qualche minuto le riprese di un film d’azione e Tim Sweeney ha l’aspetto del geek simpatico uscito da una terza stagione di X-Files, capello alla Cobain e occhiale con montatura d’ordinanza. La doppietta Atto d’Amore (dub) di Serge Santiago + In White Rooms (Neo mix) di Booka Shade piazzata da Juan Maclean suggerisce una doppia speranza, ovvero che i set dei tre riflettano in qualche modo il loro stile e che ci sia spazio per un miscuglio di energia, suoni, sensazioni e, perché no, chicche. La speranza si mostra vana e i tre scelgono di alternarsi con frequenza di venti minuti: la conseguenza è che il tutto presto si sposta sui binari del martello uniforme e piuttosto anonimo, con gran parte del pubblico che esulta non per i pezzi quanto per l’unz unz che ogni volta riparte più deciso. Niente psichedelia da Lambkin, allora, niente rock o disco da Sweeney e quando Juan tocca il suo repertorio sceglie il più duro e grigio dei remix di Give Me Every Little Thing. Sono professionisti, hanno capito chi hanno davanti e si divertono a pestare duro. Noi usciamo fuori a prendere un po’ d’aria e fortunatamente quando torniamo Sweeney giustifica il pagamento del biglietto sottolineando quello che sospettavo, ovvero la parentela che lega il Carl Craig remix di Delia & Gavin con Rez degli Underworld: pomeriggi interi ad immaginare per gioco come sarebbe bruciarsi i neuroni come fiammiferi.

Poi alle quattro e mezza arriva a chiudere Justice. In console i Justice diventano un solo Justice, Xavier, total look nero elegante e faccia da svagato compagno di scuola. Parte subito col Martian Assault edit di Jupiter Room dei Digitalism e si esibisce nel numero dell’ “Abbasso il volume fino a zero, voi non capite che sta succedendo, poi quando parte la chitarra digitalista alzo a tutta potenza finché non vi esplodono le orecchie”, fortunatamente ripetuto poche altre volte. Tira fuori quello che ci si aspetta da un set di Justice, ovvero i nomi che si citano anche qui spesso (la Ed Banger, la Institubes, i Boys Noize, Bongo Song su cui piazzare Never Be Alone per poi farla diventare We Are Your Friends), qualche trovata strappa-sorrisi che porta indietro fino alle medie (in questo caso Pump Up The Jam dei Technotronic), qualche novità (Justice e SebastiAn riuniti come Ed Banger’s All Star per un remix durrro e purrro di La La Land di fratello Play Paul) e qualche ovvio revival (Renegade Master seguita da Smack My Bitch Up). Il tutto spesso ultra-distorto, mixato con pessima tecnica, ma con un compiaciuto senso del divertimento. La collocazione come set finale ha influito notevolmente sulla presenza del pubblico: dopo un’ora molti hanno preso la via di casa o del campeggio, alcuni sono collassati sul pavimento e altri, come un sosia di Girolami in polo a righe davanti a me, ciondolavano senza forza comunque apprezzando. Quando Carpates è sembrata terminare è partito anche un applauso e per tutta risposta JuJu l’ha fatta riprendere centrifugandola con Smoking Kills e proseguendo fino alle acque di Nazareth per un ulteriore quarto d’ora, chiuso da un pezzo lento che non ho riconosciuto (pass (o dance) the night away nel ritornello cantato da voce di donna o di uomo pitchato). Alla fine dopo il solito rumore di seghe elettriche arrugginite, è partito dal pubblico un provocatorio po poppo po popo po, mentre io mi giravo dalla poltrona gommosa dove avevo passato gli ultimi dieci minuti e mi accorgevo che fuori la luce era già alta e grigia ed era ora di ripartire in macchina verso sud.

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