Circa un mese fa davo per scontato il fatto che sabato 28 luglio sarei rientrato in parrocchia. Fu lei (o forse lui) che ai tempi del singolone degli I’m From Barcelona ebbe a coniare questa gustosa similitudine. Oratorio sweeter, buoni sentimenti, palloncini colorati e il mondo chiuso fuori dalla porta. Per alcuni un inferno pre-dentistico, per me un pericoloso assecondatore delle mie tendenze schizofreniche da cinico twee. In questi mesi però io ho peccato, di sintetizzatore e di assenza di zuccheri ostentati. Quale migliore occasione allora di redimere la mia povera anima catto-twee nella moltiplicazione esponenziale del fenomeno, ovvero la gita al mare della parrocchia. Immaginavo già scenari degni di un bagno di mezzanotte ripreso da Pupi Avati e il Carlo Delle Piane (c’ho pure un’età) che bisbiglia dentro di me già fremeva. Tempestiva come una tentazione del maligno arrivava però la notizia del contemporaneo dj-set di Michael Mayer in un lido quasi sotto casa. Mi dibattevo nel dilemma. Da un punto di vista razionale sembrava non esserci storia: Michael Mayer fondatore della Kompakt, l’etichetta della techno coi pois multicolore, nell’anno del ritorno ai fasti passati. L’etichetta del mio disco dell’anno, svedese anch’esso. Le due cose poi se la giocavano anche dal punto di vista meno razionale: melodie, simpatia, divertimento e insofferenza per il purismo rendevano meno distante la serata techno da quella in spiaggia con la parrocchia svedese. Eppure, in barba a ogni convinzione storiografica o a ogni considerazione su ciò che è importante per me oggi, non avevo cambiato idea. Poi a poco a poco la carovana con cui dovevo arrivare ha cominciato a farsi indietro. Finché anche l’ultima voce ha detto “senti, non so se ne valga la pena / mi interessa / ci voglio andare”. Non so se fosse quello il segno che aspettavo. Come un riflesso incondizionato mi è uscito un ‘vabbé allora vado a ballare da Michael Mayer’.
Bambina guarda Disco Drive
Di riflesso, rimanendo a Bari, nella stessa serata partiva il Giovinazzo Rock Festival con Disco Drive e Amari oltre a due gruppi del luogo. Chi mi legge li avrà probabilmente visti cento volte, ma per me e per molti del luogo era la prima e quindi la curiosità era bastevole a bilanciare la mia paranoia della serata: non mi faranno entrare per un qualche motivo al djset dall’altra parte della provincia. La solidità intra-pezzo dei Disco Drive è stata minata solo da problemi tecnici alla strumentazione: più dritto-punk che rotondo-funk e con qualche pezzo nuovo tra cui la cavalcata conclusiva di What Are You Talking About And Why Are You Talking About It?, sono da riprovare in un contesto più raccolto e incline al ballo. Poi gli Amari. Gli Amari sono gli Amari, punto. Se prendi un campione di tre persone, il primo li vorrebbe schiaffeggiare, il secondo vorrebbe essere uno di loro e il terzo vorrebbe essere uno di loro per schiaffeggiarsi meglio. Due pezzi nuovi, il secondo dei quali chiuso con l’innesto di From Disco To Disco e la sparata di lustrini, la controversa cover degli Smiths e le magliette gangsta-baby. Avevamo preventivato un abbandono per mezzanotte e mezza e invece rimaniamo per la suggestiva rilettura post-rock di Whale Grotto e per chiamare il “Tre-no, tre-no” prima di andarcene. E il treno arriva, andante in cassa come l’indimenticabile remix cazzone e poi ibridato con i New Order e poi in Yeah con l’ausilio pestante dei Disco Drive. Su Love Management tagliamo la corda mentre il festival proseguirà al chiuso coi dj set di Gae/Stereo4 e degli stessi Disco Amari Drive.
Amari Smoking Machine
Sono le due e mezza e sulla complanare c’è un traffico da ora di punta. Sono le tre meno venti e non c’è fila per il parcheggio. Sono le tre meno un quarto e c’è fila per la selezione all’ingresso. Se fossi andato in parrocchia, sarei già a letto, ma non ho sonno. Sono le tre e c’è la fila dei biglietti con riduzione rigorosamente svanita alla cassa. Sono le tre e dieci e non c’è quasi fila all’ultima fila. Sono le tre e un quarto ed entriamo in corrispondenza del primo pezzo di Michael Mayer. Il posto non è stracolmo e nemmeno enorme, ma questo può anche essere un bene. Tralasciando le considerazioni di estetica per il quale rimando alla futura galleria fotografica qui in pieno stile londinese-milanese, mi concentro sul lato tecnico. I minimal-puristi solitamente lo attaccano per il suo comportamento da selezionatore alla maniera dei dj indirocche: tracce suonate quasi per intero, senza intersezioni-sovrapposizioni-uso di tool; scelta di pezzi enfatici se non pomposi e melodie canticchiabili; passaggi effettuati con la tecnica della smoking-machine (la ‘macchina spara-fumo’ che stava anche sul palco di Disco Drive e Amari), ovvero effettoni di riverbero e distorsione incasinanti dal quale far nascere la cassa del pezzo successivo. In realtà Mayer passa la prima mezz’ora del suo set fino all’arrivo del primo cocktail cercando il mix in battuta e cannandolo con conseguenze fastidiose all’orecchio. Fortunatamente l’incremento di tasso alcolico lo sposta sull’espediente, che a lungo andare però attira sbuffi anche da parte mia.
Michael Mayer
Ci si concentra allora sui pezzi. La prima metà è kompakta di tondini e buoni bassi ma, tranne qualche spruzzata ai limiti della disco, l’andamento è piano e composto fino al primo dei due picchi. Beautiful Life di Gui Boratto sgorga dal solito geyser eterea e la sua costruzione continua provoca l’unico momento da concerto rock: la We Are Your Friends del popolo techno 2007 aspetta solo di arrivare nei club indie italiani del prossimo inverno (da mixare rigorosamente con gli LCD Soundsystem di All My Friends). Gente che salta, gente abbracciata, altre braccia al cielo, forse l’unico momento coinvolgente in maniera pop che giustifica la fuga dalla parrocchia su un piano scevro da ogni razionalità. Quasi da pelle d’oca se non fosse per l’umidità circostante. La seconda parte della serata sembra come un prisma che scompone le influenze del suono di Colonia: a una sezione deep ne segue una vagamente più cattiva fino a riprendere le fila della prima parte prima del gran finale mentre la luce del sole sorge e comincia a sollevarsi. Il pre-finale è annunciato dall’immancabile remix di Carl Craig di Don’t Give It Up, visto per la prima volta in azione dal vivo. Ora, la struttura di quel pezzo è un’architettura diabolica che sta diventando la croce e delizia di ogni dj: non puoi fare a meno della tensione incrementale della prima parte, non puoi fare a meno della seconda parte con l’eco del cantato e i sintetizzatori ruggenti e in mezzo la musica se ne va, per una manciata di interminabili secondi. Senti, non so se ne valga la pena / mi interessa / ci voglio andare. Tutti guardano il dj e lui deve fare qualcosa. Michael Mayer che è uno con la faccia simpatica congiunge i palmi delle mani li ruota a novanta gradi e appoggia la guancia e poi fa il gesto di “andatevene, orsù, è finita anche questa parrocchia al contrario”. La cassa riparte scheletrica da quella manciata di secondi e poi attira su di sé gli elementi che canticchi anche sul pezzo successivo. Mi aspettavo sfraceli dopo. Invece si mantiene per altri due vinili a basso profilo fino alla chiusura con due minuti buoni di smoking machine raccogli applausi. La gente chiama ‘altri quattro pezzi’ (si sa, è un dj set, mica un concerto), ma niente The Art Of Letting Go dal nuovo Supermayer, nessuna sbracata ultra-pop, nessuna Bessoniana Lovefood da fischiettare sulla macchina impestata dalla resina degli alberi del parcheggio fantasticando di amanti killer. Non ci ha nemmeno guidato verso la spiaggia come in un trito finale in stile Nouvelle Vague. Anche perché, alle sei e mezza, il proprietario del lido gli ha fatto il gesto taglia-testa del dito che attraversa orizzontalmente il collo.
Mayer Smoking Machine
Out Of Sound (Dariellandia Remix) - Disco Drive
CGST (Don't Jump Back In Flanger maxcar edit) - Amari vs Madonna Lu Cont
Beautiful Life - Gui Boratto
CGST (Don't Jump Back In Flanger maxcar edit) - Amari vs Madonna Lu Cont
Beautiful Life - Gui Boratto