Un sipario nero grande quanto il palco. Chiuso. Le due enormi strutture ad alveare ripiene di gas multicolorabili sono sul palco almeno dal pomeriggio. Forse stanno montando la piramide, più probabilmente è tutto pronto da dieci minuti e là dietro se la ridono per come da sempre la migliore suspence è figlia del nulla mischiato col niente. Penso questo ogni volta che il sipario viene scostato un po’ per vedere dall’altra parte. A ogni segnale la folla si eccita. A distrarla soltanto la prospettiva di un passo in avanti o la necessità di difendere la posizione. Spengono i due maxischermi, o forse i maxischermi inquadrano il sipario nero. Il niente, o forse il nulla. Decido che questo concerto è già bellissimo e affido il compito di osservare in maniera distaccata alla parte destra del mio corpo, mentre la parte sinistra si consegnerà spontaneamente alla scienza quando tutto questo sarà finito. Le cinque note di Incontri Ravvicinati del Terzo Tipo rintoccano, poi ancora il nulla. Rido perché suona come una precisazione: sì, sì, siamo i robot, ma non dimenticate che siamo anche alieni. Scoccia un po’ che si sappia già molto di quello che sta per arrivare, ma il pensiero è scacciato dall’apertura del sipario. Solo qualche riflettore bianco spezza il nero uniforme per illuminare i due robot.
Robot, umano, robot, umano. Il pensierino che percorrerà i prossimi minuti, immagino. Magari invece all’epoca avessero fatto un live con dei figuranti addobbati da personaggi di Matsumoto. L’incipit è bianco e nero col palco quasi ancora spento, freddo come una carezza sulla lamiera. Robot rock che non decolla, imprigionato in una staticità iterativa. Oh sì, che non si libera: Technologic spara spie rosse dappertutto, ma è moscia e suonata su troppe ritmiche diverse così da risultare eccesivamente lunga. Television continua sullo stesso filone: davvero troppo e ancora il palco dorme sullo sfondo.
Poi, improvvisa, comincia la festa. Come con un bit sbagliato che sfugge a un controllo di parità, parte il primo pezzo di Discovery, Crescendolls, e immagino un’enorme scritta TILT lampeggiare sulle nostre teste. Il pubblico si unisce al coro di ehi-oh e sembra di stare a una festaccia latina con le Coconuts che ballano intorno a Kid Creole. Se volessimo seguire i Daft nel pensierino robot\umano, diremmo che la disco e il divertimento aprono la strada verso l’umano e che la mutazione è indicata dal nome della band trasformata da aliena in umana. So’ tutte fregnacce, ci manca solo che vi dico che la cover daft sirtaki di Smalltown Boy all’interno di Too Long suggerisce una possibile connotazione sessuale alla liberazione dei due robot. Quello che conta è che il palco inizia a svegliarsi e sono preso da quello che succede lì, più che da pensieri oziosi come:
1) Stanno suonando in Portogallo perché quello che si chiama de Homem-Christo doveva venire a trovare i parenti?
2) Con quei caschi e quei guanti si riescono a mangiare i babaluci\caracois?
3) Non è che Bangalter indossa il casco di de Homem-Christo, e viceversa?
Al quinto pezzo ho la conferma che lo spettacolo segue una partitura rigida, dettata forse anche dall’elemento luminarie: i Daft Punk non hanno alle spalle un generatore random di frattali o un dvd che manda immagini di repertorio e la necessità di tenere viva l’attenzione con un visivo studiato e legato ai pezzi si traduce in una struttura quasi totalmente fissa e uguale a quella dei concerti sentiti su internet, su cui i due ogni tanto cambiano qualcosa nell’uso di campionamenti ed effetti. Né concerto, né dj-set, sembra più una rappresentazione teatrale organizzata per gruppi di canzoni. Come tale i pezzi sono uniti tra loro e separati da pause che spezzano il ritmo.
Quando dai vapori contenuti di Steam Machine fuoriesce il basso di Around The World scatta il primo momento apoteosi. Sì, va bene, eravate esaltati prima, ma ora si illumina tutto (evidenziando anche una parte rotta nello schermo della piramide, ahi ahi ahi) e dovreste vedere le vostre facce. Potente e di massa, vocalizzata dall’incrocio con Harder, Better, Faster, Stronger è un momento di esaltazione collettiva, di quelli con la gente che ti urla nelle orecchie e sorride pensando che dopo andrebbe bene anche una cinquantina di anni di vita vegetativa. Il palco al massimo del suo splendore poi è una figata spaziale, sembra la sovrapposizione di tutti i palchi della storia dei Kraftwerk che dopo aver studiato all’Actor’s Studio recita nel miglior film d’azione degli ultimi vent’anni.
Too Long di nuovo precede un momento notturno a base di Face To Face sul vocoder filtrato di HBFS e della coda di Short Circuit. Le luminarie si fanno così languide che spero in “quella canzone”. Invece un rintocco annuncia le trombette della seconda apoteosi. One More Time: davanti al palco le persone ormai sono distribuite su due strati in altezza. Quando Aerodynamic diventa il suo assolo trasumano: è il miglior concerto di Steve fottuto Vai della mia vita. Le persone cominciano a ruotare nell’aria, un enorme pallone gonfiabile di Denver con chitarra si innalza, il palco si produce in un head-banging forsennato. Metallo, ancora, dopo tutto. Mentre tutti urliamo “Music’s got me feeling so free” il massimo incomune moltiplicatore delle scrivanie da adolescenti di tutti i presenti scarica su di noi una pioggia di quarantacinque giri, giornali, disegni, libri, lettere d’amore, gadget, fotografie, magliette, denti da latte, libretti di giustificazione, puntine, incubi, sogni, silenzi e parole. “Music’s got me feeling so free”: liberi, prima ancora che umani. Ora potete tutto, anche utilizzare per l’ennesima volta un campionamento da Technologic.
E poi la vita, la mia vita violenta. Il primo momento della vita per i Daft Punk è monocromo di fosfori verdi e rosso di fuochi infernali. Un parto per forcipe e carta vetrata in cui il passato Rolling and scratching si alterna al presente di The Brainwasher, per diventare Alive. L’embrione della scuola massimalista francese, scongelato e portato in vita a forza di scariche elettriche. Durr durr durissimo. Su questa sezione si innesta una chiattissima versione di Da Funk con tanto di improvvisazione scassa amplificatori affiancata ai campionamenti di Daftendirekt e Funk Ad.
Il finale è affidato a Superheroes e al suo amore nell’aria su cui nasce l’ovvia Human After All. Per la prima volta dall’inizio del concerto si passa dalla luce all’immagine: sulla piramide si susseguono occhi, labbra, rughe, sorrisi, baci. Milioni di watt illumino-acustici si scaricano sul pubblico saltellante all’unisono. We’re human, appunto, after all chiude la voce sintetica, o almeno ce ne siamo convinti.
Li applaudiamo per diversi minuti e i due per la prima volta degnano di attenzione il pubblico, ringraziando a gesti. Ogni richiesta di bis è vana, lo spettacolo è quello, né un bit in più né una cellula di epidermide in meno. L’attuale tour dei Daft Punk è insomma un grande spettacolo, non privo di imperfezioni, e comunque un evento, anche per come due persone sostanzialmente immobili su una piramide riescano a magnetizzare, manipolare e divertire decine di migliaia di persone essenzialmente con suono, luce e poco altro. Mi accorgo solo in quel momento che per tutto il tempo i vicini di concerto erano miei concittadini. Mi accorgo solo in quel momento che molti dei ragazzi intorno avevano una decina di anni quand’è uscito Homework. Mi accorgo poi che tutti parlano e raccontano e ascoltano. Mentre vaghiamo confusi alla ricerca di un taxi, penso però che ho ancora un motivo per sognare un altro live dei Daft Punk.
Harder Better Faster Stronger Around The World (live) - Daft Punk
Aerodynamic One More Time (live) - Daft Punk
1 commento:
hello
PLEASE upload me harder better faster stronger around the world live, the link has broken
please upload it again and send me the link?
MANY THANKS.
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