L’ULU sarebbe l’Unione degli studenti dell’Università di Londra. È un posto fichissimo di quelli che ti fa chiedere se ci sia qualcosa di simile in un’università seria italiana: un palco enorme da teatro, una buona acustica, tre bar, di cui uno con terrazza e una bella atmosfera senza troppe pose, fighetterie o punkabbestialità di ritorno. Non si capisce però perché sulle pareti siano appese a un metro di distanza tra di loro decine e decine di foglietti che avvisano riguardo l’uso continuo di “strobe light” che sarà fatto durante la serata. Non si capisce soprattutto dopo l’inizio del live del primo gruppo spalla, i Port O’Brien: capitanati dal sosia obeso di Kurt Cobain, bivaccano sulle ceneri della tristezza adolescenziale americana dei primi anni Novanta. Non che siano fastidiosi, ma sono più che indifferente. Altra storia sono i successivi Monotonix: brutti sporchi e cattivi, potrebbero essere noiosi quanto il loro hard-rock e invece montano su uno spettacolino a base di lanci continui di birra, strumenti che vagano tra il pubblico, salite e salti dai parapetti e un cantante più vecchio pazzo che sciamano che si denuda via via e quando tutti pensano che avesse già dato il meglio mostrando le chiappe, si toglie i calzini e se li ficca in bocca, continuando a cantare. Strappano più di una risata, ma vale più che altro l’effetto sorpresa. David Berman dei Silver Jews se li porta appresso da quando gli fecero da supporto nella loro Tel Aviv, suppongo per creare un forte momento di stacco tra spalla e inizio della loro esibizione. Durante il cambio strumenti chiedo a Valido se abbia voglia di scrivere qui qualche racconto sulla scena techno e disco in quel di Londra, ma lui diniega gentile e probabilmente con una citazione degli Scorpions che non colgo.
Presentati dal vecchio pazzo, i Silver Jews iniziano con la vecchia Random Rules. La perfezione viene curata, sin dal 1984. David Berman ha l’eleganza di un Jarvis Cocker nato e invecchiato per sbaglio in Tennessee. Sembra anche un po’ un Antonello Venditti indie: pensateci, una faccia simile, canzoni generazionali, personaggi, volemose bene, i giovani che lo citano di continuo nelle loro canzoni e nei titoli dei loro gruppi. Sembra un po' Enver, anche. Cullato dalla matematica alternanza tra pezzi vecchi e nuovi e dalla celebrazione dell’amore coniugale sul palco, vengo riportato alla realtà dalla pressione del folto pubblico. I Silver Jews conquistano applausi via via crescenti e io sento il bisogno di una sedia a dondolo e di una veranda che non arriverano certo in allegato al bis. Vi chiederete se almeno loro abbiano usato le luci strobo. La risposta è no, ma oggi ho scoperto che la sera prima all’ULU avevano suonato i Booka Shade.
Per chiudere in bellezza, saremmo andati a ballare, visto che le serate di venerdì e sabato erano a rischio. Scartati Jennifer Cardini e Danton Eproom al T-Bar, la scelta più soft era tra la serata della Innervisions al Plastic People o quella di beneficenza per War Child allo Scala con Punks Jump Up, Filthy Dukes e un dj set aggiunto all’ultimo minuto degli Hot Chip dopo i concerti di Autokratz, Kid Harpoon, Rumble Strips e Does It Offend You Yeah?. Dato che Dixon della Innervisions si è fatto male con la bicicletta, preferiamo lo Scala ai soli Âme. Il tipo della security all’ingresso non ci ha convinto abbastanza dicendoci che in un’ora avrebbero chiuso: con un’ora di ballo saremmo stati persino più freschi per il nostro mestiere da turisti alla mattina. Dentro scopriamo invece l’ineluttabile: l’ora finale sarà occupata dal concerto dei Does It Offend You Yeah, finora evitati con maestria dal sottoscritto. I dj-set in realtà erano due o tre dischi suonati tra un gruppo e l’altro. Il dramma. Il mischione tra qualche beat electro inoffensivo, chitarroni, urla e voci filtrate eccita un pubblico composto esclusivamente da diciottenni maschi ubriachi. Praticamente l’inferno sulla terra. Seguo così il tutto annoiato dalla balconata nella posizione che al Rolling Stone di Milano occupano di solito i matusa. L’unico divertimento è un roadie-buttafuori hooligan di mezza età che scaccia dal palco i giovani, asciuga gli strumenti e il palco con carta igienica e risolleva il cantante quando si butta per terra. Secondo me con quella carta igienica voleva dirci qualcosa. Alla fine accendono le luci ed è chiaro quello che avevamo vagamente intuito prima. Non resta che prendere un taxi e dirigersi verso la camera accanto alla cucina del ristorante indiano e verso un meritato riposo tandoori.
Random Rules - Silver Jews
Strange Victory, Strange Defeat - Silver Jews
Strange Victory, Strange Defeat - Silver Jews
3 commenti:
I Does It Offend You Yeah sono un raro esempio in cui approvo la violenza cieca come mezzo di comunione tra i popoli.
Però pensa che fighi, qui mettiamo un cd tra un gruppo e l'altro, lì spendono dei soldi per hot chip, 1/2 ame & co.!
mioddio, c'avevano la batteria con il logo del gruppo con gli ideogrammi giapponesi?!
relativamente alla spesa dei soldi, l'evento era per beneficenza, quindi è anche pensabile che fossero lì a gratis o dietro rimborso spese. resta il rammarico comunque di non essere andati dall'altra parte dagli Ame
this is a serata pacco!
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