26.5.08

Favola di A.D. Emo ed EVA (troppa pioggia per un solo finesettimana)

La cosa vantaggiosa di lavorare per un’azienda di Turìn è che, pagando il prezzo di un italiano incomprensibile fatto di “hai voglia di, fai che fare, di oggi, fai più che, com’è, diofà”, anche un’improvvisa trasferta fino all’ultimo minuto priva di appuntamenti garantisce le sue soddisfazioni. Non me ne vogliano i Disco Drive in chiusura di tour all’Hiroshima e Giovanni Lindo Ferretti con le sue giumente in quel di Settimo Torinese, ma il clou della prima serata era altrove. Xplosiva e QOOB riunite per EVA, una due giorni dedicata all’ElectroVideoAmbiente, hanno presentato una serie di showcase elettronici gratuiti in orari inconsueti, il clou personale dei quali è stato quello della Dial in apertura (21-23) all’Auditorium della Fondazione Sandretto con Pantha Du Prince e Lawrence. Se ci fosse stato anche Efdemin, non avrei risposto di me. Memore della facilità con cui l’Auditorium si era riempito per Murcof, mi sono presentato con un buon anticipo salvo scoprire che:

a) anche a Torino esistono gli hipster
b) a parte un b-boy e il suo amico che ronzavano intorno all’ingresso della sala come me, gli hipster non mostravano certo voglia di staccarsi dall’aperitivo in Caffetteria
c) dove c’è hipster, c’è video camera: io ho cercato di schivarle un po’ tutte, ma a un certo punto mi son reso conto che il mio rutzulano e fortissimo vodka martini era finito nel mirino di una di esse. Cercherò su youtube per farmi cancellare

Dentro guadagno subito il posto da me ambito (terza fila centrale). Lawrence si è tagliato il capello indie ed è presente nelle vesti del non più giovane che conduce il programma rap su All-Music. Il suo set è molto ambientale, tranquillo e poco incline al ritmo. Certo lui lancia le tracce con la flemma di una presentazione Powerpoint e temo che da un momento all’altro prenda a darsi cazzotti sulla faccia per onorare la somiglianza con Ed Norton, ma non aiuta certo una platea imbalsamata che concede un solo cenno di applauso quando cede il mouse al compare. Nel secondo set un pettinatissimo Pantha Du Prince carica via via il ritmo mantenendo il precedente tono ipnotico delle melodie. Rimpiango che ciò non avvenga in una situazione meno compassata e trovo sostegno nel b-boy vicino di poltrona che azzarda anche un timido gesto della legna. È chiaro però come il suono della Dial abbia sostituito l’anno scorso nelle orecchie degli hipster quello che erano state Kompakt e Border Community: techno impressionista melodica ma non troppo, organica e morbida, se non carezzevole. Sono applausi, ma la voglia di tutto questo in un contesto da ballo limita la soddisfazione. Con la curiosità se avessero in programma un doposerata segreto in qualche loft hipster, io opto invece per mettere alla prova il turco Onur Ozer, già perso in altre occasioni.





Onur Ozer suona al Suono (ahahah, non è vero: è lì as a dj, ma mi faceva troppo ridere dirlo). Io mica avevo capito che il Suono era il Barrumba. Io al Barrumba c’ero andato solo una volta nel 2004 di sabato sera: la vendevano come una serata indie ma in realtà il posto era semivuoto, c’erano più che altro diciassettenni con le magliette dei Nirvana e il dj suonava i Limp Bizkit. Ora, va bene che forse io a volte entro troppo presto nelle discoteche per evitarmi le file e usufruire di quelle fastose riduzioni da due-tre euro, ma quando dentro scopro la pista semivuota con gli stessi diciassettenni di quattro anni fa mi aspetto che da un momento all’altro parta “So you can get that cookie” in modo da agitare la mano col gesto delle corna. Invece mi accuccio sul divanetto e aspetto che il lento ingresso delle persone si faccia massa critica. Il posto non si riempie ed è già aria di fine stagione o forse solo di un weekend piovoso che ricaccia in casa ogni tentazione di festa. Io, già emotivamente provato, spero in qualche luccicone, ma l’ingresso in scena della drag-queen imitatrice di Magda mi riporta alla realtà come un vodka redbull sa fare dopo i vodka martini. Onur Ozer ridefinisce i livelli di melodramma inerte ozpetekiano e il look da zia zitella alla Renato Zero, annoiando fastidiosamente peraltro con un set di techno piatta e anonima. Io, siccome vanto anche tendenze masochiste, rimango fino alla fine per vedere dove voglia andare a parare. Quando davanti a una decina di persone per il bis passa un pezzo a caso che contiene il sample di Sinnerman dove Nina Simone dice "It's a new life, it's a new day" temo che da un momento all’altro spunti anche Neffa per una cover di una cover in turco dello scioglilingua dell’Arcivescovo di Costantinopoli del Quartetto Cetra, ma fortunatamente lo strazio termina lì. Dovevo fermarmi al kebab egiziano post-Dial.


Onur Zero ultrasoporifero: si noti il ragazzo alle sue spalle


Il giorno dopo avevo in programma lo showcase della Warp (17-21, sempre per EVA) con l’ascolto sul prato con cuffie senza fili del live di Clark e poi il concerto in Piazza Vittorio dei Subsonica alla faccia di quei piagnoni dei Six Organ Of Admittance allo Spazio 211. Ma mi sono fatto prendere dalla tristeza della pioggia incessante e ho dormito tutto il giorno.

21.5.08

Da Paura (is to the Paura, oh c’mon)

Più volte le uscite energetiche del sardo (e lo dico da figlio di sardo e di figlia di sardo™) Paolo Alberto Lodde (aka Dusty Kid) mi hanno piacevolmente impressionato, ma colpevolmente non ne ho mai parlato. A colmare tale mancanza, arriva il suo remix ‘pauroso’ per Moby. Premetto l’insana passione per il nuovo singolo di Moby, ma ciò non conta. Dusty Kid ne tira fuori qualcosa di completamente diverso e le menzogne del pezzo assumono una luce sinistra. Il parlato introduttivo, gli archi originali ultraeffettati e i toni metallici inducono una forma immediata di terrore, plateale, riprodotta anche nel finale. L’intreccio quasi minimal invece tesse una suspense ossessiva fatta della somma di un quotidiano opprimente. COME PUOI MENTIRMI? Un solo elemento lega le due diverse concezioni di paura ed è un pulsare dubstep di basso sempre uguale a se stesso, prodotto per riduzione dell’immediatezza, per diluizione dell’ossessione. Il risultato su pista spacca centomila volte di più di quanto possa un sobrio ascolto in poltrona. E mette i brividi.


Disco Lies (The Dusty Kid's Fears Remix) - Moby

16.5.08

Affittasi ubiquità (It’s the B_EAT, Giovinazzo Edition)

Ancora non si è spento il clamore per la notizia che Bari ospiterà la prima data del tour di riformazione dei Bluvertigo, quand’ecco che arriva un altro evento impedibile a segnare il prossimo weekend. All’interno delle serate legate al Fuori Biennale dei Giovani Artisti del Mediterraneo che inizierà la settimana prossima (e in corrispondenza della quale ho pensato bene di spostarmi il più lontano possibile in quel di Torino), questo finesettimana all’Arci 37 di Giovinazzo si terrà B_EAT: due giorni di concerti e dj-set con Redrum Alone, My Awesome Mixtape (non me ne vogliano, ma diciamo che il mio gusto è un po’ distante dalla loro visione musicale) e soprattuto l’attesissimo dj set di Enzo Polaroid (il primo al sud?) insieme alla gloria del luogo Tiger Town. Pare che stiano montando appositamente un banco per vedercivisi sabato sera. A suggello di questo imperdibile evento, volevo allegare un pezzo sufficientemente indiepoppe, ma data la penuria di ascolti in quel campo ripiego su una cosina con la cassa e un minimo di buoni sentimenti. Ci si vede lì (io sono quello vestito da discotecaro, penso che comprerò una maglietta DATCH per l'occasione). Giovinazzo is già burning.


14.5.08

Risuonanze (Clear, ma cosa verrà dopo?)

L’arrivo, il salvaschermo e il ballo davanti alle poltrone
I Cluster vengono colpevolmente sacrificati sotto l’effetto di un’amatriciana, maialino arrosto e fiasco di rosso dalle parti dello stadio Flaminio: sfido tutti i giovani impasticcati e le loro allucinazioni con le mie. Verso mezzanotte si preferisce il Murcof perso a Torino al dj-set di Munk e al reggae della Terrazza. Ryoji Ikeda è ancora seduto dov’era ieri e temo che non sappia dell’esistenza degli altri ambienti. Murcof è rilassante e morbido quanto basta. Mi irrita invece l’aspetto video: sembra un plug-in di quelli di Winamp o del lettore multimediale di Windows, un salvaschermo. Terminata la performanza mi sposto avanti per il concerto di Fujiya e Miyagi. Mi siedo in prima fila accanto a Ryoji. Come e meglio che al Primavera è impossibile restare fermi, ma io e Ryoji siamo seduti. Il pubblico comincia a ballare nei due corridoi tra le poltrone e presto anche davanti. Quando si alza Ikeda per Collarbone e dietro di noi i due giapponesi dell’Array Dance Company, decido di buttare alle ortiche gli imbarazzi e mi unisco alla danza. Persino il gruppo sembra stupito dell’entusiasmo che via via crescerà. Krautanza giocosa. Spero che si inventeranno qualcosa per il terzo disco.




Rock’n’Roll Star
Rinuncio (imperdonabilmente?) all’hip-hop suonato come bossa e alla bossa suonata come hip-hop con Tony Allen alla batteria e passo al Salone. Headman chiude il suo set con una revisione electro di Tainted Love mentre Erol Alkan si aggira davanti alla console al solito di nero vestito con una maglietta dei Can sui giorni che verranno. Prende le misure per la prima decina di minuti, fino a un ottimo pezzo con distorsioni in crescendo che non riconosco. Sono mazzate e ad eccitare ancora di più la folla che apprezza, lascia la consolle e fomenta il pubblico con gesti da istrione rock. Il repertorio è più o meno in stile con quello sentito al Primavera, fidget o wonky molto analogica e distorta, priva dell’aspetto cafone e molto più affine a un immaginario da rave: Proxy, Dusty Kid, ZZT, Popof, Switch, Crookers, Siriusmo. Non è esattamente quello che amo, anzi la categoria potrebbe essere più quella dell’un ascolto e metto via. Ma funziona, ci si trova un senso molto energetico e in fondo più complicato a ripensarci di quanto si percepisca sul momento. E tutti intorno ballano come matti. L’apice si raggiunge con un pezzo fatto di trombette turche. Penso a un suo tool per celebrare le origini e invece è il suo nuovo tormentone a opera di Duke Dumont. Alla fine chiude con la riesecuzione live del suo remix di Boy From School degli Hot Chip, pezzo che mi mancava per comporre l’ascolto dal vivo della trilogia balearica. Per quanto possa la razionalità o il gusto personale, ci si inchina senza diffidenza alla rock star che sa cosa fare e la si ringrazia per il mondo Beyond The Wizard’s Sleeve e per 21 dei Mistery Jets, da queste parti disco-autoradio per l’estate. Le si vorrebbe chiedere "e ora?", ma questo non sembra il suo problema.



Butta le tue mani in alto per Detroit
Amo la security di Dissonanze. Sorridente e mai arrogante, anche se decisa, invita i torsoli nudi a rimettere su la maglietta nei pressi delle transenne. So che è una questione di decoro in funzione di foto e video ufficiali, ma mi contento di poco. Nel frattempo l’esibizione storica di Juan Atkins, Mad Mike e soci in veste di Model 500 è puro piacere. Sporco funk analogico. Uno dopo l’altro i grandi classici prendono vita, io ballo davanti alla transenna, ma indietro gran parte dei grezzi si ritrova disorientata e immobile fino a far sbottare a Juan Atkins “What a dull crowd”. Verso la fine qualche invasato comincia pure a dar di matto e a urlare insulti a fianco a me (ripenso al povero Ryoji Ikeda, chiuso per sempre nell’Aula Magna, prima fila). Meno male che dalle transenne l’omone cinquantenne della sicurezza chiede al tamarro cosa c’è che non va e al suo ‘ammerda, nun balla nesuno’ risponde con un perentorio e giusto ‘a me piace’. I Model 500 chiudono con un Mad Mike visibilmente incazzato: dire che che la loro collocazione non sia stata giusta sarebbe in contraddizione col motto “One Day You’ll Understand”. Forse tra le tante visioni del futuro che hanno prodotto la techno, quella di Atkins musicista è quella più legata al tempo in cui è stata prodotta o forse pretendere comprensione da chi tratta Dissonanze come una megadiscoteca è impresa vana. Intanto a lato del palco Carl Craig osserva con uno sguardo preoccupato. Quando guadagna la console, suona Jaguar di Rolando. Un pezzo impossibile da suonare come primo disco, ma non conta, sta lì come un pugno nello stomaco a chi oggi non ha capito. Guardate il cuore in mano di Detroit, il pugno alzato al cielo. Poi passa alla sua versione di In The Trees che subito interrompe. PARLA. Io non avevo mai visto parlare Carl Craig. Farfuglia di un’unione: Rome, Italy, Detroit, Michigan, USA, connection. Penso che abbia paura e questo pensiero mi risuona come una bestemmia. Poi riparte però dritto con i Faze Action. Qualcosa non va nella console, risolve e da lì è un treno. Molta techno della vecchia scuola inframmezzata con pezzi percussivi quasi minimali (cosa cacchio era quel campionamento afro che pitchava fino a distorcere?), pochi remix recenti (Pixel Girl, il Delia & Gavin solo quasi sul finale, il remix di Gary per Alter Ego) e niente parte di tributo alle radici house come in altre occasioni. Il Palazzo dei Congressi è nelle sue mani, mentre la luce filtra dal tetto. Dopo Good Life il finale sarebbe tutto per la chiusura del cerchio con Jaguar, ma una mano burocratica e insensibile toglie l’alimentazione per fare andare a dormire i lavoratori. Mentre esco, penso a cosa potrebbe essere domani e non mi viene in mente niente: dieci anni fa a Detroit si inseguiva il futuro, oggi ci si barcamena e sembra vincere chi maneggia meglio il presente senza spostarsi di un centimetro avanti o di un centimetro indietro (come Erol o Loco Dice) e subito dopo a ruota i grandi riciclatori (che si tratti di kraut, italo-disco o dello stesso futuro ormai raggiunto e digerito). Dopo qualche giorno mi sono convinto che l’interrogativo potrebbe essere malposto: forse non si tratta di cosa sarà, ma di dove e come sarà. Quando lo capiremo, ci saremo già arrivati.





The Cat - Dusty Kid
Starlight - Model 500
Gary (C2 Remix) - Alter Ego

13.5.08

Risuonanze (Kid you’ll move mountains, why the long face?)

Antefatto di onestà pelosa (saltatelo se mi volete bene)
Dissonanze è il primo accredito della mia vita, chiesto e ottenuto in virtù di questo blog. È giusto che lo scriva, prima che si parli di un ottimo festival che (insieme al Club TO Club colpevolmente mancato) in due giorni spazza via il sentimento di inadeguatezza verso le esperienze spagnole e del resto d’Europa. È giusto che lo scriva, prima che stronchi o che faccia i complimenti a chi ha fatto il suo mestiere davanti e dietro le quinte, o prima che mi lamenti dei prezzi dei drink. La speranza è che tutto ciò possa andare oltre l’elettronica e la musica da ballo, oltre le esperienze fondamentali e gratuite stile Traffic. Magari in un bellissimo posto di mare del sud Italia (anche se, devo dire, ho una passione perversa per l’architettura fascista dell’Eur).

Prefuse ‘73
Si parte dalla Terrazza. Il Prefuso imbraccia una chitarra e si porta appresso un ragazzo di fatica e un batterista. Il risultato è molto meno pirotecnico dal punto di vista visivo rispetto a quando lo si vide al TDK di tre anni fa. Il pubblico che arriva a poco a poco apprezza, soprattutto una prima fila scatenata che secondo me non solo conosceva tutti i pezzi, ma anche i relativi titoli (che nel caso del Prefuso sono degni dei film della Wertmuller). In fondo apprezzo pure io, anche se privato della gioia di vederlo smanettare su pattern di batteria elettronica e giradischi. E complimenti al batterista, ché per fare il batterista del Prefuso ci vuole una memoria e una destrezza notevole.



Ryoji Ikeda (ma anche Pinch e Yacht)
Dalla Terrazza si scende al semivuoto Salone dove Pinch ha iniziato la sua cosa dubstep. Che per me è la sua cosa dubstep e prima o poi dovrò superare le mie ritrosie e convincermi all’annegamento nei bassi profondi e nei ritmi dilatati. Non questa volta. Inauguro così i posti a sedere dell’Aula Magna strapiena, dove i bassi profondi sono sostituiti dalle preminenti alte frequenze della performance multimediale di Ryoji Ikeda: bianco o nero sullo schermo, suoni ipercinetici molto anni Novanta e un gruppetto composito di rastapunk e scoppiati che si radunano davanti a una delle casse come se si fosse a un rave ripreso da Studio Aperto. A un certo punto ho seriamente temuto l’attacco epilettico stile Pokemon. Invece tutto finisce magistralmente prima e così c’è pure il tempo di salire per un’occhiata agli Yacht in Terrazza. Nel luogo in cui artisti elettronici e dj si sbattono per mostrare quanto possa essere musicale quello che fanno, questo sedanone nerd e questa tavola da surf in ultra-mini abito stretch lanciano delle basi pre-registrate con tanto di cori e controcanti e ci schiamazzano su in maniera scomposta. Divertente anche, ma offensivo per il contesto.




Cobblestone Jazz, Caribou e un pizzico di Italo Disco
L’inizio della maratona Italo-Cosmic Disco è affidata ai Rodion è la loro partenza è davvero gustosa, con tanto di cover di The Logical Song. La Terrazza è quasi piena e la gente balla su questi parallelepipedi enormi progettati per quando le littorie astromobili avrebbero avuto passaggi continui e cosmici sul cielo dell’Eur. Mi chiedo mentalmente come si sarebbero chiamate le cubiste se avessero iniziato sui parallelepipedi e rido come un cretino. Poi però mi sposto lesto giù dove i tre Cobblestone Jazz musicano un Salone della Cultura in via di riempimento. La formazione laptop + controller + tastierone uso vocoder, hammond, reed è la celebrazione dello spirito del progetto. La gente intorno balla, ma la sensazione è che si divertano più sul palco (e io con loro). Per la prima volta mi vergogno come un appassionato di jazz. Salto la fine per accaparrarmi un’onesta quinta fila per il live di Caribou (Ryoji Ikeda siede in prima fila centrale). Los Quarenta Luigi mi raggiunge prima dell’inizio e mi dice gran cose di ciò che succede in terrazza (dove Daniele Baldelli ha preso il posto dei Rodion). Caribou è in formazione doppia batteria e tuttavia penso che ciò possa non bastare. Il batterista che ha sostituito il precedente infortunato va però a Red Bull e suona come sei o sette batteristi in contemporanea. Il tutto però è enormemente più muscolare che su disco. A me basterebbe che lo shoegaze ritmico avesse un volume in linea con lo shoegaze melodico, con la voce sempre in secondo piano. Suonano quasi tutto Andorra e ripescano molti pezzi dal passato Manitoba che, coglione io, avevo anche stroncato nel vecchio blog. Poco, pochissimo dal primo Caribou, del quale rimangono soltanto Bees e la conclusiva Barnowl. Con volumi più bassi della batteria sarebbe stato perfetto. Però mi rendo conto che sedendomi lì davanti mi sono beccato tutto il suono vero di tamburi e piatti oltre a quello amplificato. Una specie di Icaro col budello al posto della cera.





Booka Shade e gli altri ‘de passaggio’
Scappo subito dalla terrazza per evitare i No Age. I No Age non sono malaccio su disco, un gruppo punk con un produttore shoegaze. Peccato che dal vivo perdano questa vivace particolarità, diventando un gruppo involuto e pestoso. Me ne sono accorto fortunatamente in anticipo quando avevano suonato per Amoeba. Così in attesa del live dei Booka Shade oscillo tra Salone e Terrazza. Un algido Robotnick del quale riesco a cogliere solo l’ultimo pezzo passa la mano al Francisco di casa con un terrificante saluto del tipo “Ciao, ero Alexander Robotnick. Buonanotte”. Giù becco gli ultimi due pezzi di Switch: il suo remix di Golden Skans e un remix di qualche sgallettata a caso confermano la mia grande difficoltà verso il genere (fidget, wonky o come vi pare di chiamarlo) e verso un personaggio controverso e secondo me più piccolo della sua fama (ma è sempre così). L’immortale revisione di Bump di Spank Rock non riuscirà mai a cancellare nella mia mente la sua approssimatività dal vivo, il suono pappone e il fine gusto da selezionatore di Hit Mania Dance. I due Booka Shade partono con Darko, una scelta eccessiva in barba ai dj-set che devono costruire e ai concerti che partono col quel pezzo che crea l’atmosfera ma non troppo. Il live è fortemente discontinuo: non si raggiunge la tensione continua del dj set a causa dell’alternanza tra episodi a grande impatto e riempitivi e non si organizza la scaletta come un concerto. Emergono così i difetti dei due dischi, il primo costruito in gran parte da una buona idea permutata in diversi modi a formare un suono e il secondo discontinuo e costituito da pezzi lenti e pomposi mischiati con cover dei New Order. A sprazzi però ci si diverte, come a un concerto dei gruppi di elettronica da stadio che mettono su la batteria finta e i gesti plateali per fare più scena. Luigi Los Cuarenta mi dice come certi Orbital da festival, e io penso a quegli Orbital che interrompevano Halcyon On And On e suonavano i campioni di Bon Jovi e di Belinda Carlisle. Prima dell'ovvia e acclamata Body Language finale c’è pure il tempo per la rilavorazione live di O Superman di Laurie Anderson. Poi arriva Loco Dice e dopo un pezzo e mezzo (che nel caso di Loco Dice significa circa tre quarti d’ora) decidiamo di risparmiare energie per il giorno dopo e di lasciarlo alla gran parte del pubblico accorsa lì per lui. D’altra parte, non è che ci si aspettasse molto da chi ha messo su LP l’ennesima traccia costruita sulla voce di Nina Simone o un pezzo che ripete continuamente “Dammelo, Papi”.



Fisico - Rodion
Crayon - Manitoba
Charlotte - Booka Shade

7.5.08

Da una lacrima sul viso, ho capito tante cose



Il manifesto di Dissonanze 2008 (qui anche in versione femminile) è bellissimo. Con qualche capello in più, la mia faccia davanti al concerto di Caribou mentre Switch dall'altra parte sollazza i papponi. E poi tanta Detroit (Model 500 live su tutto), Italo, Erollo si sarà ripreso dopo la pausa da produttore(?), Cobbleston Jazz live(!), gente come Booka Shade e Loco Dice alla prova, l'etnica senza la puzza da gonna fiorata (Madlib, Tony Allen e compari in Brasilintime) e tante certezze già raccontate da queste parti. Venerdì e sabato ci si commuove da quelle parti con gente di una certa età alla faccia dei bambini senza espressione facciale dell'ultimo video di Jus†ice.

Niobe - Caribou