13.2.06

Come ti suicido la serata


Il posto freddo e semivuoto accoglie la cerimonia del suicidio, non come gesto personale patetico e narciso ma come sacrificio forse inutile del sé singolo in vece del resto dell’umanità. Il suicidio di Alan Vega e Martin Rev era questo, l’autodistruzione di Elvis affogata di sintetizzatori, l’America che scopre l’impossibilità di essere ancora giovane e bella e col ciuffo, gli zombi dei motociclisti e delle ragazze con la coda di cavallo e le gonne vaporose. La fine di un sogno e la positiva disillusione seguente.

Non fa specie allora che la serata parta con l’iteratività della nostra esistenza, con le frasi ripetute in litania finché vanno oltre di noi, con le canzoni che si suicidano riflessive. I Judah sono due e sono devoti al culto di Vega e Rev, ma con uno scarto di riferimenti: è come se il Dead Elvis avesse passato il testimone a Jim Poster-per-adolescenti Morrison (ascolta per credere). Le musiche sono molto belle, ma non si sfugge all’impressione di vedere – per quanto ben fatte – le canzoni dei Suicide su una Smemoranda accanto a Riders On The Storm e accanto a un disegno in bianco e nero delle urla trascurabili alla Alec Empire.

Poi entra in scena Martin Rev, vestito con un completo di pelle di serpenti di plastica. Gli occhiali enormi si spalmano sul suo volto come se la velocità degli ultimi decenni glieli avesse sciolti addosso. Ogni canzone è un singolo campionamento techno martellante su cui lui si muove rockabully, prendendo a pugni la tastiera e borbottando yeah yeah samfing like hmmm. Non balleresti mai queste cose, ma intorno a te la gente si dondola in trance, ma così in trance che mentre due enormi riflettori rossi sparano migliaia di watt sulla tua retina, non chiudi gli occhi perché non senti il riflesso del caso. Non riterresti mai interessante dal punto di vista del musicista un pulsante che fa partire una traccia e due o tre tasti saltellati prima di un ghigno e hmmm drbgl. Consapevole del mio divertimento e inerme, parte l’ipnosi a velocità doppia di quelle due note ripetute, America America is killing its youth. Un attimo, e si ritorna al rave dell’anziano popolato fino alle tre e mezza di Guantanamere in decomposizione e dischi da garçonniere incantati su se stessi. Stacca il campionamento al momento sbagliato. Prende a mazzate il bianco e il nero. Non con un bang, ma con un ghigno.

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