15.2.06

I’m having a last good time


L’insensatezza di ogni fine. La voce incantata del bambino che si chiede cosa sia successo al gatto è un nastro che si attorciglia su se stesso. La sensatezza di ogni fine. Quel pianoforte che insieme strappa e asciuga lacrime cerca di spiegare che a volte, per quanto ingiusto e incomprensibile, il termine è la nostra essenza. E allora ci sediamo per terra, le gambe che si incrociano, e ammiriamo la fine intorno a noi e il passato su uno specchietto retrovisore tutto sgangherato. L’estate finisce per l’ultima volta, gli aerei cadono intorno a noi, resteranno solo gli animali. Siamo fan di queste cose, (della fine) dei blip bzz tic dei coin-op del baretto scalcinato sulla spiaggia, la modernità sulla spiaggia dimenticata dal futuro o meglio sul deserto della nostra infanzia. Per questo diamo un altro colpo all’asfalto, mentre l’altra scarpa tiene lo skateboard, perché siamo sicuri che quello che ci ha salvato due volte, alla terza ci accompagnerà fuori dal palcoscenico sani, e salvi, e poi inesistenti. Resteranno forse tutte le nostre cose nel posto dove non siamo più, i ritornelli-miagolii del gatto registrati su una manciata di bit, i pogo solitari nelle stanze vuote e l’autoironia dei proclami sulle nostre magliette: “Io non voglio lavorare ogni notte e giorno scrivendo canzoni che facciano piangere le ragazzine”. Certo ogni possibile giudizio su tutto ciò si esaurisce nell’essere parte della fine, nell’essere il segreto che tormenta il bambino. La disconnessione arriva. Tutto era stabile ieri, tutto viene spazzato via oggi, rimane solo il rumore di un bicchiere che si schianta per terra per un goffo movimento del gomito.



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