Ma come, non sei andato a vedere i Black Heart Procession? Sì, non sono andato e ho ripiegato su King Automatic + The Chalets. Potrei addurre quintali di snobistiche scuse (non voglio certe cose col fastidioso pubblico intorno, preferisco immaginare l’immobile perfezione dei dischi, stavo-meglio-quando-stavo-peggio), ma la motivazione è riconducibile essenzialmente a due questioni:
1) I due concerti sarebbero finiti abbastanza tardi per farmi perdere gli ultimi mezzi a disposizione, costringendomi ad una piacevole passeggiata notturna. Ho preferito quindi il loco più vicino, sobbarcandomi l’onere di scegliere la giusta espressione facciale a metà tra il “non sono un fesso” e “non sono uno spacciatore rivale / finanziere”, per la traversata di Corso Oddone.
2) Non nascondo la motivazione para-feticista che può muovere verso un concerto in costume come quello di The Chalets, almeno in termini di sentito dire.
Qui sopra potete ammirare il signor King Automatic. Di solito reggo poco gli one-man-band, quelli che coi piedi smuovono un rullante e col resto degli arti alternano chitarre, tastiere e armoniche: mi ricordano tutti la perniciosa immagine di Edoardo Bennato. Il francese automatico, visivamente un Samuel dei Subsonica con i basettoni alla Elvis, aggiunge lo strumento dell’infinito loop di tastiera, ottenendo come risultato uno strano ibrido tra il garage rockabilly e le canzoncine circolari di Manu Chao. Trascurabile, eccezion fatta per uno o due spunti chitarristici surf.
Questi sono i piedi delle Chalets. Verrebbe da dire infatti le Chalets, dato che persino la disposizione sul palco convoglia l’attenzione sulle scialette, lasciando in secondo piano il resto della band. Sfortunatamente il resto della band è visibile come un triplo pugno sugli occhi: un lungagnone secco uguale al buzzurro campagnolo dei Simpson, tenuta da rodeo completa, un lungagnone ciccio uguale al Braveheart della Val Vigezzo di uno dei vecchi grandifratelli, in maglietta e jeans, un batterista nano macrocefalo che credeva di essere all’Ozzfest, per la foga con cui pestava. Il template ciccio-secco è ripetuto dalle due scialette, che dovrebbero muoversi insieme, alternare mossette vezzose e ammiccare da buone pin-up per distrarre dalla trascurabilità della propria produzione musicale. Succede circaquasi per la prima canzone. Dalla seconda il whisky che ingurgitano da buone irlandesi le fa andare fuori sincrono, inasprendo la sensazione di goffagine dello spettacolino. Poi si dimenticano di dimenarsi, suscitando più di uno sbadiglio. A questo punto si guardano tra di loro e si rendono conto di aver perso l’attenzione del pubblico. Ormai smarrite, continuano col muso per terra fino alla liberazione finale, sancita dal dj che lancia subito la musica per evitare un penoso bis non richiesto. Qui sotto, le scialette, al massimo della loro vitalità. Qualche altra foto prossimamente sul mio flickr.
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