16.8.06

Alla fiera del Sudoeste, per due soldi, due robottini il qui presente aspettò

Fin dall’arrivo a Zambujeira il Sudoeste ci suggerisce di dimenticarci di Benicassim. Se non fosse per l’enorme quantità di orrendi braccialetti blu di plastica lucida, festival e paesino sembrerebbero due fidanzati imbronciati che non si rivolgono sguardo e parola se non per dire “Ehi, sai, l’ultimo autobus per i concerti è alle 18.30. Oh, sono le 18.15? Scuuuuusa”. Tanto più che i molti che desiderano ripartire la mattina dopo, come noi per esempio verso Porto, decidono di fare il biglietto del pullman tutti allo stesso momento nell’unica cartoleria del paesiello, alle 18.10. Visto che nella notte non ci saranno autobus per tornare indietro decidiamo di memorizzare la strada (partono vocalizzi stile Organ), ma quando ci accorgiamo che stiamo per espatriare incrociamo le dita sperando nella presenza di taxi che ci evitino l’autostop, che ci avrebbe sicuramente consegnato nelle grinfie di un gruppetto di fan di Skin. Io sarei partito con battute e imitazioni e avrei rischiato le mazzate (frase pronunciata in italiano anglo-falsettato).

Morale di metà favola: cinque ore di anticipo sull’orario rispetto al quale intendevamo presentarci. La fortuna è che il Sudoeste è anche una specie di festa di paese a metà tra la sagra del polpo di Mola di Bari e una fiera multinazional-solidale. Così sbolliamo la rabbia per il fatto che il biglietto giornaliero non si traduca in un orrendo braccialetto e che una volta dentro l’area concerti non potremo uscire, chessò, per fare una passeggiata nel polveroso deserto inneralentejano, sbolliamo la rabbia, dicevo, nel simpatico tendone esterno in stile festa delle medie della Kellog’s dove la distribuzione gratuita di scodelle di cereali e tetrapak di latte preconizza le ore successive in cui regrediremo fino a giocare in massa con due action-figure di robot a grandezza in-naturale.

Dentro, l’unico palco attivo passa dei trascurabili complessini rock autoctoni. Dopo un giro sulla ruota panoramica (davvero, mancava solo l’autoscontro e il punching ball, ché c’era anche il karaoke da qualche parte) e la raccolta di svariati inutili gadget siamo passati al censimento degli stand gastronomici: fermati di continuo da gente che ci proponeva assaggi, abbiamo posto l’attenzione su un fantastico tizio che arrostiva un maiale intero allo spiedo e su una rivendita di giganti churros ripieni (foto seguiranno anche sul flickr). Il mio sport preferito diventa la ricerca degli spettatori privi di braccialetto e vengo ripagato con la visione dei caratteri più disparati: dalla coppia di turisti tedeschi con carrozzina al seguito (ma in teoria non dovevano bloccarli all’ingresso? La carrozzina potrebbe essere tirata sul palco, per esempio, contro Skin) ai reduci dei bei tempi andati con pancetta alla Boy George, passando per gli inequivocabili fan dei Daft Punk, riconoscibili dall’assenza di elementi estetici distintivi.



Intorno alle otto parte la musica anche sugli altri palchi. Il palco reggae è esilarante, col suo bolso host di mezza età finto giamaicano di Cascais e con i gruppi che propongono scalette miste per accontentare un po’ tutti tra ska, rocksteady, dub e roots. Mi faccio prendere e comincio ad aggiungere una rassegna di luoghi comuni raga-verbali a quelli che sento cantare e vengo trascinato via per paura di risse mentre urlo riverberato “Reggaeton Zion, Reggaeton Zion” e “Legalize the tripa”. Il palco centrale vede all’opera il gruppo hip-hop portoghese Boss AC: niente di che, buoni alcuni passaggi, fino a quando intrecciano un rap e un fado, quasi a un passo dalla plasticosa sensazione Gotan Project, declinata da quelle parti da diverse compilation di fado lounge revisited.

Il tendone rock è ancora in mano a un’insostenibile patchanka e allora torniamo al palco principale, dove il brasiliano Marcelo D2 è impegnato con un socio in una sessione di beatbox del tipo genere musicale / ritmo in cui incastonano Seven Nation Army – giuro che il giorno dopo a Porto ho assistito al triste spettacolo in cui un italiano, per fare capire alla gente che gli cammina accanto che è italiano, canticchia il po-po-po-po-po fissando i passanti negli occhi in cerca di assenso. Marcelo D2 sul palco è circondato da una moltitudine di persone che svia l’hip hop sulla samba, sulla bossa nova, sull’electro e sull’inevitabile baile-funk, per il quale si ringrazia una sgallettata sosia della tizia dei Black Eyed Peas: almeno in questo caso il colpo riesce, non sembra che l’eclettismo serva a sviare dalla povertà di scrittura e la gente muove il popozuda persino nella fila ai bagni chimici.

Nel tendone intanto i messicani Los de Abajo si presentano mascherati e inscenano i prodromi di un irritante miscuglio di retorica politicoguerrigliera, festa mariachi ed elettronica subsonica. L’entusiasmo con cui vengono accolti è sensibile, ma all’arrivo di una canzone su Zapata che invita festaiolamente alla benevola sospensione del giudizio, continuo a ripetermi mentalmente le parole filtrate di Daftendirekt per convincermi della mia resistenza a tutto ciò. Siccome il tendone non vaporizza l’acqua come l’anno scorso a Benicassim, usciamo per un attimo per una boccata d’aria e invece veniamo investiti da piagnistei molesti. Dev’essere Skin che si è accorta della crescita di un capello sulla sua testa, suo equivalente rough di quando mi si spezza un’unghia. La visione mentale di un bassista rasta che per riprendersi dal rincoglionimento della cantante del suo gruppo decide di duettare con Jovanotti mi consiglia l’interruzione del mio mash-up vocale Skin meets Pino Daniele meets Cugini di Campagna. È quasi ora di sentire musica più affine ai nostri gusti e nel tendone un giovane dj mescola davanti al palco vinili minimali, ma così minimali che si sente più la prova degli strumenti dietro di lui che Trentemoller. A tal proposito, mi ha sempre colpito lo scarto tra quello che strimpellano i roadie quando accordano le chitarre e quello che dopo sarà suonato sul palco. Peccato che quello vestito da camionista terzo classificato al campionato di braccio di ferro interreggionale che imbraccia la chitarra gigante memorabilia dei Kiss sia proprio il chitarrista della successiva band, guardacaso un po’ electro, un po’ indie e un po’ nerd.(…continua…)

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