20.12.05

Cripple Crow pt. 6


“Se soltanto per oggi fossi libero di parlare” (Il Corvo Joe)
“A che cosa pensano questi umani fragili?” (La Canzone del Parco)
“Voglio essere Gainsbourg […] voglio il ciuffo di De André” (Il Musichiere 999)

Sono in fase di rivalutazione critica de La Mala Vita dei Baustelle, dove per rivalutazione critica si intende essenzialmente che sono arrivato alla conclusione che in ogni canzone che mi piace c’è un elemento che me la rovina (l’orribile chiusa de Un Romantico A Milano) e che in ogni brutta canzone c’è un appiglio interessante (la musica di A Vita Bassa). Tra le tante, però, mi va di soffermarmi su uno dei migliori episodi. Il Corvo Joe. Non sembra, ma è una delle mie canzoni di questo Natale: l’inizio potrebbe vedere tranquillamente Bianconi in versione busker in una via del centro mentre gli zampognari lo accompagnano, e anche oggi è domenica, tutta d’oro la gente luccica. Ché sempre il sentimento da noi preferito rispetto alle feste comandate è stato quello del corvo, quello della partecipazione distaccata, dell’esser lì e non del fuggire, presente e distante allo stesso tempo.

La canzone inizia con uno scarto bellissimo tra il racconto in prima persona e l’immagine del narratore animale che mastica una lucertola. Procede poi per antitesi tra rotondità e spigoli, tra le anatre e i corvi simboli per caso di felicità e paura, tra bambini sorridenti e bestiacce scure. Sembra il secondo episodio de La Canzone Del Parco, la colomba ora è corvo, con gli alberi che consolano e i ragazzi che si baciano mentre mezzogiorno sta per scoccare. Sembra un secondo episodio ed è in ciò che la canzone riassume la poetica dei Baustelle, quella che ormai povera di un immaginario proprio cerca sollievo effimero nell’immaginario altrui, meglio se impolverato e non vissuto. Gainsbourg è stato, De André è stato, Poe è stato e allora come dicevano alla fine del Sussidiario non resta che essere secondo episodio, non resta che voler essere Gainsbourg, che voler essere De André, non resta che usare simboli sdruciti in una forma postmoderna dell’ormai impossibile cantautorato.

Eppure Il Corvo Joe, nonostante le immagini e le onomatopee abusate, si avvicina a quello che è inavvicinabile, anche se per il solo spazio di cinque minuti e mezzo. E poi, non riesco a togliermelo dalla testa, quella sua circolarità e quell’inserto di campanelli e quell’organo ne fanno una perfetta canzone di Natale, che sta lì, fuori posto.

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