19.12.05

Mine’s on the 45


Cosa c’è di più indie di una pista da ballo vuota? (sono provocatorio, tra parentesi). Qui lo scorso weekend la (contro)radio del luogo ha organizzato il suo consueto (contro)festival, ovvero tre giorni in cui ininterrottamente un centinaio di gruppi della regione si spartiscono il palco di un (contro)teatro all’insegna del volemose bene, del c’è posto per tutti e del fatto che comunque non si suona per caso alle 21 del sabato sera o alle 5.30 del sabato mattina. Cosa encomiabile, per carità, ma in città hanno pensato bene di organizzare anche una serata di dj set della Rough Trade in contemporanea. Ora, non che qui si ritenga una serata di dj set della Rough Trade particolarmente eccitante in astratto, anche perché ultimamente Endeacott e soci hanno suonato anche alla sagra della scamorza cotognata e già ai tempi del concerto dei Delgados a Bologna snobbammo Ben Ayers dj. Pur tuttavia, la minima ipotesi di ballare qualcosa di meno scontato ci ha fatto preferire tale evento alle canzoni pseudo-ska su Matarrese, alla pizzica e agli epigoni degli Stereolab in scala 1:43.

Mal ce ne incolse, verrebbe da dire a mente fredda, se non fosse che ci si è mattamente divertiti con tutto ciò che avrebbe dovuto buttare giù la serata. Serata inizialmente programmata per venerdì scorso e spostata a sabato sera per i motivi di cui sopra. E sabato sera ci siamo presentati a un orario non da star alle porte del posto in questione e informandoci dell’eventuale orario di apertura ci è stato consigliato di ripassare dopo un’ora. Si è provato invano allora un salto al (contro)teatro, abbandonato per difficoltà di parcheggio in favore di un sano temporeggiamento al coperto di un pub scozzese come le orecchiette con le cime di rapa. Passata l’ora abbiamo fatto l’ingresso nel posto dove i ruvidi erano già dietro ai piatti, davanti a una sparuta decina di persone.

Tutto quello spazio intorno può solo ingenerare nel ballerino due reazioni: imbarazzo nella danza o sana stupidaggine. Vi lascio immaginare cosa qui noi e altri astanti abbiamo preferito. I ruvidi, per parte loro, tenevano splendidamente conto della situazione permettendosi di tutto: distratti a s-messaggiare e a scaccolarsi si alternavano senza soluzione di continuità in un unico set il cui filo conduttore erano 45 giri d’epoca sospesi tra il rockabilly e il northern soul, legati con tecnica ignorante quasi che avessero un unico piatto. E in mezzo a questi, senza un apparente perché, i pezzi di oggi: come quando nel momento mod hanno preso un 45 con etichetta bianca e hanno infilato gli Artic Monkeys o come quando gli Arcade Fire sono spuntati da un’oscurità riconducibile a un’età indefinita tra gli Ottanta e i Novanta. Tra la solita banalità di un Gene Vincent e un Eddie Cochran hanno piazzato la non scontata banalità di A Minha Meninha, rendendo il sottoscritto felice come un bambino e afono come un tifoso dopo la finale dei Mondiali vinta contro il Brasile al Maracanà. Verso la fine quando ormai solo in due stavano al centro della pista e un gruppetto di ebbri ballava sui tavolini e il personale del locale mandava un messaggero sul palco perché voleva forse anche giustamente far ritorno a casa per dormire, verso la fine i ruvidi pensavano bene di inscenare un rave con techno acida, mosse comiche e pose sulle manopole degli effetti che avrebbe avuto il suo culmine in una solitamente banale Fuck Forever, accolta come un orgasmo dal sottoscritto che per questo successivamente meritavasi l’appellativo di grillo salterino. Quando i superstiti ormai si avviavano verso i loro vezzosi doppio-petto, il tipo dei Cornershop lasciava esaurire la puntina sul banale che più banale non si può Bacharach e noi concedevamo al personale il permesso di chiudere le porte.

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