Il la me lo da lui, con quell’ultimo paragrafo sulla malattia dell’eterno viaggio, sull’essere perennemente turisti fino al paradosso che si diventa turisti della propria scrivania, della propria città natale, della propria camera da letto. Gli oggetti che compriamo diventano souvenir che forse lasceremo indietro alla prossima destinazione, tanto si torna indietro e avanti, in case in affitto, in case aziendali e in case una volta familiari. Il fatto è che non si sta nemmeno male, perché tanto le radio preferite ormai le senti da internet e non conta stare a Palermo o a New York. Forse il trucco diventa prolungare il viaggio ai suoi estremi, l’Oriente, la Cina. Magari la prossima volta vi racconto perché non potrebbe mai piacervi l’arrivederci/addio dei Junior Boys.
All The Way To China - James Figurine feat. Erlend Øye
FM - Junior Boys
29.5.06
23.5.06
Las Bicicletas Son Para El Verano
Mi stropiccio un po’ gli occhi davanti all’estate appena arrivata. Con la faccia sulla strada del bronzo, metto da parte la carta vetrata elettronica, solo per un po’. Dovrei stirare le magliette, prima di riporle nell’armadio per l’inverno, lo so.
Il singolo dei Phoenix mi soddisfa in tutte le sue forme, nella sua versione standard che gioca nel non andare, in quella veloce venticinque-ore-al-giorno con le sue chitarre artificiali e in quella di Sebastian Tellier. Sebastian Tellier ne fa una marcetta che sguazza tra le onde verdi. I ragazzi del campo di beach-volley in coro urlano in lontananza “Long time no see, long time no say”.
Long Distance Call (Sebastian Tellier Mix) - Phoenix
Le palme ondeggiano peggio di quelle giamaicane della parte centrale di Cocktail, sulla televisione della domenica pomeriggio. I terrazzi dell’ottavo piano musicati da isole sono l’equivalente architettonico della musica canadese da spiaggia.
Jogging Gorgeous Summer - Islands
Hey Lloyd. Tu chiedi a chi ascolta Arthur Lee se è pronto a sanguinare e se qualcosa spazzerà via quel sorriso e i Camera Obscura ti rispondono che non riescono a guardare oltre il proprio naso. Hey Lloyd, siamo pronti, ti rispondono.
Are You Ready To Be Heartbroken? - Lloyd Cole And The Commotions
Lloyd, I’m Ready To Be Heartbroken - Camera Obscura
La cappa di umidità esalta il giallo e l’azzurro intorno. C’è un cocktail che ti voglio suggerire, il battito di un pezzo che da internet è arrivato alla colonna sonora di Lucignolo, incrociato con un trio che per il nome poteva frequentare Phil Spector e invece qui si affida a Bacharach e Williams. Gnarls Barkley coi cori delle Shirelles diventa il melodramma che merita di essere.
Crazy Baby It’s You - Gnarls Barkley vs The Shirelles
Pestilenza e colera, febbre e dub. Io il dub d’inverno non lo riesco a immaginare, lo associo all’aria che frigge e distorce il paesaggio. Brennan Green gonfia di profondità gli arpeggi di Lindstrom e quando libera il giro di melodia, sembra di incrociare un branco di pesci tropicali fucsia e gialli.
Pest Og Kolera (Brennan Green Saucey Version) - Lindstrom
Meno male che i Nouvelle Vague si erano già occupati degli XTC nel primo disco con una ben riuscita e deliziosa Making Plans For Nigel. Già, perché il loro nuovo episodio Bande A Part è abbastanza deludente e tende a infarcire le canzoni di rumori ambientali tipo canarino sul balcone o bistrot in franchising e allora si è contenti che non abbiano sfogato la loro fissa ornitologico-ambientale anche su Summer’s Cauldron e sui suoi ronzii e cinguettii onomatopeici. A volte l’autan serve!
Summer’s Cauldron - XTC
Il singolo dei Phoenix mi soddisfa in tutte le sue forme, nella sua versione standard che gioca nel non andare, in quella veloce venticinque-ore-al-giorno con le sue chitarre artificiali e in quella di Sebastian Tellier. Sebastian Tellier ne fa una marcetta che sguazza tra le onde verdi. I ragazzi del campo di beach-volley in coro urlano in lontananza “Long time no see, long time no say”.
Long Distance Call (Sebastian Tellier Mix) - Phoenix
Le palme ondeggiano peggio di quelle giamaicane della parte centrale di Cocktail, sulla televisione della domenica pomeriggio. I terrazzi dell’ottavo piano musicati da isole sono l’equivalente architettonico della musica canadese da spiaggia.
Jogging Gorgeous Summer - Islands
Hey Lloyd. Tu chiedi a chi ascolta Arthur Lee se è pronto a sanguinare e se qualcosa spazzerà via quel sorriso e i Camera Obscura ti rispondono che non riescono a guardare oltre il proprio naso. Hey Lloyd, siamo pronti, ti rispondono.
Are You Ready To Be Heartbroken? - Lloyd Cole And The Commotions
Lloyd, I’m Ready To Be Heartbroken - Camera Obscura
La cappa di umidità esalta il giallo e l’azzurro intorno. C’è un cocktail che ti voglio suggerire, il battito di un pezzo che da internet è arrivato alla colonna sonora di Lucignolo, incrociato con un trio che per il nome poteva frequentare Phil Spector e invece qui si affida a Bacharach e Williams. Gnarls Barkley coi cori delle Shirelles diventa il melodramma che merita di essere.
Crazy Baby It’s You - Gnarls Barkley vs The Shirelles
Pestilenza e colera, febbre e dub. Io il dub d’inverno non lo riesco a immaginare, lo associo all’aria che frigge e distorce il paesaggio. Brennan Green gonfia di profondità gli arpeggi di Lindstrom e quando libera il giro di melodia, sembra di incrociare un branco di pesci tropicali fucsia e gialli.
Pest Og Kolera (Brennan Green Saucey Version) - Lindstrom
Meno male che i Nouvelle Vague si erano già occupati degli XTC nel primo disco con una ben riuscita e deliziosa Making Plans For Nigel. Già, perché il loro nuovo episodio Bande A Part è abbastanza deludente e tende a infarcire le canzoni di rumori ambientali tipo canarino sul balcone o bistrot in franchising e allora si è contenti che non abbiano sfogato la loro fissa ornitologico-ambientale anche su Summer’s Cauldron e sui suoi ronzii e cinguettii onomatopeici. A volte l’autan serve!
Summer’s Cauldron - XTC
17.5.06
Melody Of Certain Damaged Citrus (sesso giocoso e non)
Asobi Seksu vuol dire sesso giocoso. Cominciamo con uno slogan tautologico. L’ascolto di Citrus provoca al sottoscritto fremiti di nippo-gaze-ploitation che lo rendono felice quanto Tarantino davanti ad un horror alla Miike in-the-ghetto. Con la differenza che il j-pop e lo shoegaze hanno una contiguità non ascrivibile al solo fatto che circa il 60% della produzione della musica shoegaze sia catalogabile come edizione speciale limitata per il Giappone. Sia il pop delle aidoru che la musica dei guardascarpe hanno in comune un’eterea distanza, virginea e di arcopal nel primo caso, fuggitiva e post-elettrica nel secondo. Sono generi che vivono di alienazione, di rimozione della corporeità, l’uno nelle voci esili e nell’immaginario adolescenziale, l’altro nelle chitarre effettate e sovrapposte fino a diventare carezzevoli anche quando graffiano e sovrastano le voci distanti. Gli Asobi Seksu, newyorkesi con cantante di origine giapponese, accoppiano giocosamente in Citrus i due stilemi, puntando ora sulle somiglianze, ora sugli scarti espressivi. Ne vengono fuori così ballate dal classico ritmo incatenato con voci mielose a mandorla in evidenza che solo nel ritornello si fanno riverberate prima che parta una coda a metà tra il finale retro-sixty e il deliquio del pedale (Strawberries) e cavalcate elettriche con intermezzi confidenziali che si infrangono contro faraglioni di distorsioni (New Years). Poster di Karen O appesi su carte da parati che ciclano sui muri copertine senzamore e gemelle (Thursday, Lions And Tigers), un pizzico di indie-nosauri (Pink Cloud Tracing Paper e Goodbye), sirene elizabettiane che si tuffano lente nel mare rosso sbattendo la testa contro una barriera corallina di chitarre, gomma da masticare finita sotto le scarpe (Nefi+Girly, Mizu Asobi). Se i Raveonettes avevano spaesato lo shoegaze tra i giubbotti di pelle del garage rock o tra le gonne a palloncino delle voci di Phil Spector e della provincia americana degli anni Cinquanta, gli Asobi Seksu lo situano in un immaginario artificale che ha riempito una tabula rasa con detriti pop occidentali e smack e sgrang onomatopeici. Disco ludico, di generi per il gusto del genere, super-fluo ed evasivo. Proprio come il paradiso, con tanto sesso giocoso.
Mizu Asobi - Asobi Seksu
Thursday - Asobi Seksu
E visto che siamo in tema sessuale, continuiamo. Per esempio con il Trentemøller Remix di Sodom dei Pet Shop Boys. Ora Trentino si sarà anche imborghesito e avrà messo le pernacchiette a lui tanto care in secondo piano rispetto a variazioni tonali e ruffianerie anni Ottanta, ma qui lo si apprezza perché ricorre al mio trucco preferito che crea l’atmosfera come il famoso brandy: intermezzo con chitarrona in evidenza e minaccia di orgasmo per viulini, violoncelle, vocette e appunto pernacchiette, di quelli che si mulinano le braccia in aria in pose fluide e plastiche. Poi quando sta per scoppiare, prende un sacchetto di plastica e lo stringe attorno alla testa di Neil Tennant per un’eiaculazione di tecno soffocata, che soddisfa più lui che noi. Intanto, scoprendolo dai remix, mi sa che prima o poi sarà necessario recuperare Fundamental.
Sodom (Trentemøller Remix) - Pet Shop Boys
In tema di torrida sessualità, Disco 2 Break di The MFA è uno sguardo squilibrato e insieme tenero, una sorta di preliminare ruvido, tossico e malinconico che si esaurisce in sé, nella completezza di non essere seguito dall’atto. Peccato per la voce che blatera di disco e break.
Disco 2 Break - The MFA
Tornando indietro nel tempo di Carl Craig c’è un pezzo che parte da un campionamento dei Goblin per Dario Argento e diventa un embrione dei più fumosi Boards Of Canada. Suspiria è del 1997 ed è il simbolo della generazione come ciclo, della sessualità come ripetizione che genera esseri, sensazioni o forse solo illusioni.
Suspiria - Carl Craig
Ma ricordiamoci che il sesso serve per far nascere i bambinipunk-funk neu-rave. Another pill in the wallet.
Somebody’s Property - Mash
Mizu Asobi - Asobi Seksu
Thursday - Asobi Seksu
E visto che siamo in tema sessuale, continuiamo. Per esempio con il Trentemøller Remix di Sodom dei Pet Shop Boys. Ora Trentino si sarà anche imborghesito e avrà messo le pernacchiette a lui tanto care in secondo piano rispetto a variazioni tonali e ruffianerie anni Ottanta, ma qui lo si apprezza perché ricorre al mio trucco preferito che crea l’atmosfera come il famoso brandy: intermezzo con chitarrona in evidenza e minaccia di orgasmo per viulini, violoncelle, vocette e appunto pernacchiette, di quelli che si mulinano le braccia in aria in pose fluide e plastiche. Poi quando sta per scoppiare, prende un sacchetto di plastica e lo stringe attorno alla testa di Neil Tennant per un’eiaculazione di tecno soffocata, che soddisfa più lui che noi. Intanto, scoprendolo dai remix, mi sa che prima o poi sarà necessario recuperare Fundamental.
Sodom (Trentemøller Remix) - Pet Shop Boys
In tema di torrida sessualità, Disco 2 Break di The MFA è uno sguardo squilibrato e insieme tenero, una sorta di preliminare ruvido, tossico e malinconico che si esaurisce in sé, nella completezza di non essere seguito dall’atto. Peccato per la voce che blatera di disco e break.
Disco 2 Break - The MFA
Tornando indietro nel tempo di Carl Craig c’è un pezzo che parte da un campionamento dei Goblin per Dario Argento e diventa un embrione dei più fumosi Boards Of Canada. Suspiria è del 1997 ed è il simbolo della generazione come ciclo, della sessualità come ripetizione che genera esseri, sensazioni o forse solo illusioni.
Suspiria - Carl Craig
Ma ricordiamoci che il sesso serve per far nascere i bambini
Somebody’s Property - Mash
15.5.06
Your Kisses Are Wasted On Me
Ma come, non sei andato a vedere i Black Heart Procession? Sì, non sono andato e ho ripiegato su King Automatic + The Chalets. Potrei addurre quintali di snobistiche scuse (non voglio certe cose col fastidioso pubblico intorno, preferisco immaginare l’immobile perfezione dei dischi, stavo-meglio-quando-stavo-peggio), ma la motivazione è riconducibile essenzialmente a due questioni:
1) I due concerti sarebbero finiti abbastanza tardi per farmi perdere gli ultimi mezzi a disposizione, costringendomi ad una piacevole passeggiata notturna. Ho preferito quindi il loco più vicino, sobbarcandomi l’onere di scegliere la giusta espressione facciale a metà tra il “non sono un fesso” e “non sono uno spacciatore rivale / finanziere”, per la traversata di Corso Oddone.
2) Non nascondo la motivazione para-feticista che può muovere verso un concerto in costume come quello di The Chalets, almeno in termini di sentito dire.
Qui sopra potete ammirare il signor King Automatic. Di solito reggo poco gli one-man-band, quelli che coi piedi smuovono un rullante e col resto degli arti alternano chitarre, tastiere e armoniche: mi ricordano tutti la perniciosa immagine di Edoardo Bennato. Il francese automatico, visivamente un Samuel dei Subsonica con i basettoni alla Elvis, aggiunge lo strumento dell’infinito loop di tastiera, ottenendo come risultato uno strano ibrido tra il garage rockabilly e le canzoncine circolari di Manu Chao. Trascurabile, eccezion fatta per uno o due spunti chitarristici surf.
Questi sono i piedi delle Chalets. Verrebbe da dire infatti le Chalets, dato che persino la disposizione sul palco convoglia l’attenzione sulle scialette, lasciando in secondo piano il resto della band. Sfortunatamente il resto della band è visibile come un triplo pugno sugli occhi: un lungagnone secco uguale al buzzurro campagnolo dei Simpson, tenuta da rodeo completa, un lungagnone ciccio uguale al Braveheart della Val Vigezzo di uno dei vecchi grandifratelli, in maglietta e jeans, un batterista nano macrocefalo che credeva di essere all’Ozzfest, per la foga con cui pestava. Il template ciccio-secco è ripetuto dalle due scialette, che dovrebbero muoversi insieme, alternare mossette vezzose e ammiccare da buone pin-up per distrarre dalla trascurabilità della propria produzione musicale. Succede circaquasi per la prima canzone. Dalla seconda il whisky che ingurgitano da buone irlandesi le fa andare fuori sincrono, inasprendo la sensazione di goffagine dello spettacolino. Poi si dimenticano di dimenarsi, suscitando più di uno sbadiglio. A questo punto si guardano tra di loro e si rendono conto di aver perso l’attenzione del pubblico. Ormai smarrite, continuano col muso per terra fino alla liberazione finale, sancita dal dj che lancia subito la musica per evitare un penoso bis non richiesto. Qui sotto, le scialette, al massimo della loro vitalità. Qualche altra foto prossimamente sul mio flickr.
1) I due concerti sarebbero finiti abbastanza tardi per farmi perdere gli ultimi mezzi a disposizione, costringendomi ad una piacevole passeggiata notturna. Ho preferito quindi il loco più vicino, sobbarcandomi l’onere di scegliere la giusta espressione facciale a metà tra il “non sono un fesso” e “non sono uno spacciatore rivale / finanziere”, per la traversata di Corso Oddone.
2) Non nascondo la motivazione para-feticista che può muovere verso un concerto in costume come quello di The Chalets, almeno in termini di sentito dire.
Qui sopra potete ammirare il signor King Automatic. Di solito reggo poco gli one-man-band, quelli che coi piedi smuovono un rullante e col resto degli arti alternano chitarre, tastiere e armoniche: mi ricordano tutti la perniciosa immagine di Edoardo Bennato. Il francese automatico, visivamente un Samuel dei Subsonica con i basettoni alla Elvis, aggiunge lo strumento dell’infinito loop di tastiera, ottenendo come risultato uno strano ibrido tra il garage rockabilly e le canzoncine circolari di Manu Chao. Trascurabile, eccezion fatta per uno o due spunti chitarristici surf.
Questi sono i piedi delle Chalets. Verrebbe da dire infatti le Chalets, dato che persino la disposizione sul palco convoglia l’attenzione sulle scialette, lasciando in secondo piano il resto della band. Sfortunatamente il resto della band è visibile come un triplo pugno sugli occhi: un lungagnone secco uguale al buzzurro campagnolo dei Simpson, tenuta da rodeo completa, un lungagnone ciccio uguale al Braveheart della Val Vigezzo di uno dei vecchi grandifratelli, in maglietta e jeans, un batterista nano macrocefalo che credeva di essere all’Ozzfest, per la foga con cui pestava. Il template ciccio-secco è ripetuto dalle due scialette, che dovrebbero muoversi insieme, alternare mossette vezzose e ammiccare da buone pin-up per distrarre dalla trascurabilità della propria produzione musicale. Succede circaquasi per la prima canzone. Dalla seconda il whisky che ingurgitano da buone irlandesi le fa andare fuori sincrono, inasprendo la sensazione di goffagine dello spettacolino. Poi si dimenticano di dimenarsi, suscitando più di uno sbadiglio. A questo punto si guardano tra di loro e si rendono conto di aver perso l’attenzione del pubblico. Ormai smarrite, continuano col muso per terra fino alla liberazione finale, sancita dal dj che lancia subito la musica per evitare un penoso bis non richiesto. Qui sotto, le scialette, al massimo della loro vitalità. Qualche altra foto prossimamente sul mio flickr.
11.5.06
Er Più (Storia De Voci E De Cortelli)
Non si può parlare di ritorno all’uso delle voci. Molta dell’indietronica giocava sul fattore umano dato dalle corde vocali. Forse non si può parlare nemmeno di creatività, visto che in gioco ritornano componenti quali la teatralità o la meccanizzazione, già ampiamente sfruttate in passato. Credo che sia il modo a tratti inquietante con cui queste componenti sono state mischiate. Non amo alla follia The Knife, ma mi interrogo su di loro per i consensi che mietono ovunque e tra insospettabili. E alla fine come in un labirinto mi ritrovo sempre allo stesso punto: l’orrore proto-tecnologico della soffitta dei nonni. Macchine da cucire elettro-meccaniche ricoperte di ragnatele, bambole guercie capaci di parlare senza batterie e piccoli mangiadischi arancioni, capaci di mangiare anche te. Un magnetismo oscuro che nasce fumetto e per caso si trova in sintonia con lo spirito sonoro degli ultimi tempi, diventando oggetto trasversale capace di far colpo tanto sul cantautorato acustico, quanto sui dj più alla moda del momento. Siccome però sapete tutto su The Knife, la “Storia De Voci E De Cortelli” partirà per la tangente per ritornare solo alla fine sull’argomento.
Jim Noir è un cantautore inglese dedito alla manifattura di piccoli bozzetti di pop psichedelico, con molte allusioni ai Beatles e Brian Wilson. My Patch sembra il racconto ai genitori via telefono delle prime vacanze al mare da solo, con il rumore di fondo del juke-box del baretto che manda i classici dei Beach Boys. La voce è in linea con il cantato debole attuale alla Hot Chip e guarda caso gli Hot Chip sono stati chiamati per un remix che clippa la voce come se la rete wi-fi della spiaggia fosse improvvisamente vittima di una tempesta solare. La video telefonata si inceppa, senti versare un’aranciata, ma i fotogrammi si alternano sempre uguali. Il giovane turista di Manchester alle Baleari preme un tasto sul jukebox a mp3: sente ancora la chitarra, ma la voce è ormai corrotta nei suoi bit più intimi.
My Patch – Jim Noir
My Patch (Hot Chip Remix) – Jim Noir
Quella chitarra mi fa ripensare a un’altra chitarra, quella infinita di Aranda degli Egoexpress, pezzo di pop sint-acustico crauto. In Aranda una voce ripete “A life, a room, a street, a house”, in maniera cadenzata come a rendere una sensazione di spazio. Il Lawrence Remix cambia l’ordine dei fattori e lo riporta all’originale come una pulsazione cardiaca. Se il pezzo di partenza tirava fuori una persona ripiegata su se stessa, il remix rende una dinamica più simile alla successione di momenti rannicchiati in un angolo a momenti in strade affollate. La voce non abdica mai allo strumento.
Aranda – Egoexpress
Aranda (Lawrence Mix) – Egoexpress
Nel disco di The Juan Maclean c’è un pezzo che si chiama Love Is In The Air dove la voce sintetica parla di amore. Caro ne tira fuori un Heart Of The Sun Remix dolcemente etereo, ma il vero punto a suo favore è la seconda metà, dove una chitarra elettrica sepolta sotto coltri di effetti e ri-sintetizzata copula con la voce sintetica sotto lenzuola di fibra di vetro. Sessuotronico.
Love Is In The Air (Heart Of The Sun Mix by Caro) – The Juan Maclean
Qui si fa servizio pubblico. Non si trascura infatti che le piumate squow (augh) Bat For Lashes possano suscitare qualche brivido nel pubblico hippie-chic. Quello che non gira è proprio l’uso banale delle voci. Puoi anche rischiare l’anonimato melodico su una canzone che nel titolo rimanda ai tempi d’oro di Marina Lothar, ma almeno evita la piattezza da cantautrice folk fine anni Novanta, cribbio.
Horse And I – Bat For Lashes
Con un gustoso gioco di parole pare che la scena della musica che più ascoltiamo recentemente si chiamerà Neu-Rave. Adesso il gioco è farci entrare dentro quante più band possibili al grido di “non c’entrano niente, ma quella sirena…” o “il loro funk è davvero matematico tra il primo e il secondo minuto di quell’extended da tredici e quaranta”. Vi ho nominato spesso gli assennati Fujiya & Miyagi, una via di mezzo tra gli Who Made Who e il kraut, che dal punto di vista vocale esternano tutto il loro senno con sussurri che per iterazione diventano frenesia. Dalla Svezia ancora arriva invece Dibaba che in Don’t Forget You Were Saved In Dada Land confonde con effetto impressionista: è difficile infatti capire se le voci sono distorte o se l’effetto è ottenuto da un sintetizzatore in parallelo. Imogen Heap invece si presta ai Temposhark per il Metronomy Mix di Not That Big per un altro gioco che va tanto per adesso: è la voce di uno, dell’altra o dei due incrociati?
Collarbone – Fujiya & Miyagi
Don’t Forget You Were Saved In Dada Land – Dibaba
Not That Big (Metronomy Mix) – Temposhark feat. Imogen Heap
Non mi sento ancora di annetterli al Neu-Rave, ma la prima anticipazione dei nuovi Giardini di Mirò è interessante per come resiste alla tentazione di fondere repertorio passato e indietronica, optando in favore di qualcosa più contemporaneo, sognante ma non evanescente. Che si possano persino ballare in futuro tra l’Erol Alkan che remixa gli Hotchippi e il pezzo successivo di Alex Smoke? (Si ringrazia enver per l’emmepitre)
Othello – Giardini Di Mirò
Abbiamo quasi finito. È il momento dell’epico pathos. Never Want To See You Again di Alex Smoke è una canzone triste come lascia intendere sottilmente il titolo. Alex Smoke ha una voce piena, fumosa (pardon), di quelle che potrebbero andare bene in un buon pezzo degli ultimi Massive Attack. Eppure sembra che qualcosa non torni, che la voce sia leggermente rallentata o abbassata di tono, senza che questa perda in naturalezza. Non viene mai in mente un bit nel suo dark blues sconsolato, solo pura inquietudine umana. Intorno il malinconico remix di Ada non concede speranza nemmeno sul finale.
Never Want To See You Again (Ada Remix) – Alex Smoke
Torniamo a The Knife. Nel Trentemøller Mix di We Share Our Mother’s Health più o meno a metà arriva la voce bassa e oscura, inquietante e animalesca. Si ripete salendo di tono fino a che la voce non diventa quella della cantante. Il trucco viene svelato e con lui se ne va parte dell’inquietudine collegata. Adesso possiamo dormire sonni tranquilli, sotto la soffitta.
We Share Our Mother’s Health (Trentemøller Mix) – The Knife
Neu-Rave: KLF was gonna rock you
Prima che diventi la moda del momento (cfr l’inizio del nuovo singolo dei Klaxons), sottolineo che ho sempre amato 3 A.M. Eternal e Next Is The E.
5.5.06
Nobody Loves The Computer, Because The Computer Doesn’t Dance (Aldo9 mi fa male edit)
Si avvicina il triste fine-settimana in cui il circondario si convoglierà a celebrare l’ingiusto tributo a chi pronuncia nel testo di una delle sue canzoni il fatidico “Più stratocaster e meno digei” e ci si appresta una volta finito uno dei libri che mi ha sviluppato più senso di colpa negli ultimi tempi a sporcarsi letteralmente le dita di blu con questo. Il tutto sarà musicato da una serie di dischetti e singoli freschi freschi mentre si preparerà la valigia per la prossima due settimane torinese, che giungerà puntuale a privarmi del concerto barese dei Casiotone For The Painfully Alone.
Intanto ecco a voi una selezione, quella che mescolata avrebbe potuto essere
DJ Tri-scalcia (la minaccia).
Intro! (Eurovisione makes us nonsipuòdire)
No, scherzo. Si inizia in un altro modo. C’era una volta un gruppo con il mento rivolto verso l’alto che pronunciava le parole sempre come se non avessero fine. Chin Up (Prins Thomas Miks) di Snuten insieme ai Fox’n’Wolf mi fa pensare agli Spiritualized, per i quali avevo un debole e che ritenevo adatti essenzialmente a due momenti: l’intro e l’apice, il decollo e lo spazio profondo. Sui Fox’n’Wolf ho sentimenti alterni, amo tanto Rules Out quanto non sopporto come abbiano infestato la Popper di Christopher Just. Qui però sostengono la parte degli spiritualizzati con Snuten, mentre Prins Thomas li circonda dello sciabordio della Via Lattea. Cosmico, avrebbe detto Fontecedro.
Cosmico. Non riesco a pensare niente di più cosmico di questo CAPOLAVORO. Se siete miei vicini di casa saprete già che periodicamente moog e sintetizzatori della sua versione originale vanno spesso in sottofondo al telegiornale o invadono lo spazio circostante a volumi assurdi. Da bambino non sognavo di diventare astronauta, da bambino sognavo Relevée di Delia & Gavin e non capivo bene cosa fosse: un parco giochi rotante su Marte, un videogioco con centomila quadri e sette dimensioni, un incubo di quelli che non ti svegli per vedere come va a finire. Carl Craig popolarizza il delirio e ne fa il pezzo elettronico dell’anno, una tuta da esploratore delle stelle a cui all’improvviso manca l’ossigeno. Perché gli alieni ci vogliono morti. Il pianoforte del prefinale è come una di quelle basi lunari che si immaginavano, uguali all’interno in tutto e per tutto al paesaggio terrestre, con molto verde. Inutile verde, perché gli alieni stanno per distruggere la cupola a tenuta stagna. Paranoico come la paura di un bambino-a.
Ho provato a trattenermi, ma se il Carl Craig Mix di Relevée è il pezzo elettronico dell’anno, lo Shit Robot Mix di Dragon di Dondolo è quello del mese, forse per gli stessi motivi. Due tracce gemelle, che ossessionano per la minaccia stellare che incombe su di loro. Gli alieni forse non ci sono, le nostre macchine sono perfette e non faranno di testa loro, ma forse c’è un dragone dietro l’angolo che ringhia con voce di donna manco fossimo in Shrek 4. Lo spazio visto dalla droga della Beat Generation, pitturata su un muro di un bilocale in periferia. (purtroppo non è la versione completa, ma solo un rip da Beats In Space bastevole a decretarne il massimo della gloria possibile). Il fuoco, urlato dal drago.
La paura via via scende verse il basso, è metropolitana e in mezzo a noi. Who’s Afraid Of Detroit? di Claude Von Stroke la rende in maniera molto anni Novanta con una voce soffocata, meglio, auto-soffocata. Gente che lavora per venticinque ore al giorno e trova vie di fuga da se stessa nell’oppio del tormentone di una nenia popolare ripetuta all’infinito. Il foglio ore da compilare, le pareti separatorie negli open space, la macchina distributrice del caffè che termina i cucchiaini e lascia il tuo caffè amaro. Eliminare la flessibilità non vi salverà.
Come fuggire? Come fuggire se pensi che se Prince fosse nato oggi forse avrebbe vissuto la sua vita davanti a Excel e Matlab attendendo che ogni giorno il custode del posto dove lavora lo butti fuori dall’ufficio, sperando che il calcinculo ben assestato lo faccia arrivare dritto dritto alla sedia del suo bucolocale dove consumerà insipido seitan al tofu. Non resta che agire sui simboli, cambiare nome per fuggire da tutto e mettere in quello nuovo parentesi quadre e dieresi difficili da trovare sulla tatiera. Alt + [T]ékël, everyday.
E ti devi sorbire anche quelli che ai concerti ti fumano attorno. Perché la legge vale un po’ meno se si è tra belle persone che hanno gusti comuni. E diventi aggressivo e vorresti fargliela ingoiare quella dannata sigaretta alla stronza o allo stronzo che ti puzza i capelli perché non vuole prendersi una bella polmonite all’esterno. E diventi aggressivo dopo giornate come queste e a chi ti ferma per strada rispondi: che. cazzo. vuoi. SebastiAn è ripetitivo, ma almeno qui è horror, horror come un serial killer che ammazza ragazzi carini che non hanno cura dei loro polmoni. Non è una questione di salutismo.
Arrivi a metà e capisci tutto. “Hai bisogno di un corpo da uno che sa risorgere?” non è un’arguta proposta oscena alla ragazza carina lì avanti. È una frase con mille risvolti, a partire dal fatto che non è detto che si possa risorgere e non è detto che il verbo possa essere transitivo. La b-side dei Pet Shop Boys invece è una dichiarazione arpeggiata di superiorità rispetto agli altri umani. Trevor Horn fa quello che non ha avuto il coraggio di fare con Belle And Sebastian. Non li riportiamo in vita, li trasciniamo via dalla morte.
Prima o poi si accorgeranno che la loro è una bolla speculativa linguistica destinata a scoppiare. Quando non riusciranno più a tenere una mano e balleranno senza tensione, pensando al loro meeting e al corso di self-confidence orientata al management della vita amorosa, si fermeranno un attimo e si accorgeranno che il Disco Drama di Tiga sulle e-parole dei Soulwax viene musicato da Rex The Dog. Tre è il numero della rivelazione.
Prenderanno un aereo e andranno a vedere una gruppo kraut-funk trascurabile dall’altra parte dell’emisfero. Non saranno gli storici !!!, non saranno i Fujiya e Miyagi (Fujiya! Miyagi!) sensazione del momento da tenere sott’occhio, ma saranno i Padded Cell, qualche bleep in più e una tromba facilona. Fare cose senza senso, almeno una volta al giorno.
Per esempio non sapere che l’aereo atterrava in Giappone. Che i bonghi sono, subito dopo l’arpeggio, l’accessorio del momento. Prima o poi bisognerà fare i conti con questa ossessione per il Giappone, per il nostro splendido immaginario pastello figlio di nevrosi e di pance che non fissano l’alcool. Qui si dichiara l’odio verso chi continua a usare il Giappone come simbolo troppo semplice per amplificare una storia. Per liberarci dalle nostre nevrosi, chiediamo gentilmente al Giappone di assumere un nuovo stile di vita, cambiando nome in Gianaba.
La liberazione è vicina, i bonghi sono più fastidiosi che a un raduno regionale dell’Internazionale Punkabestia, i Technicrati vengono avvertiti che non otterranno quello che hanno programmato ma solo quello che hanno desiderato. I vibracall suonano a ritmo, si balla sui tavoli della mensa, con gli alieni, i dragoni e i fumatori con le sigarette dentro le orecchie come in un retro di copertina pop. Per l’estate saranno previsti tre mesi di ferie, sospensione delle guerre e disoccupazione o al massimo un lavoro precario per le eredi di Bush. Squelch rock fino a scassare le casse e sei palchi per ogni quartiere!
Si chiude o quasi con la pazzia, che quando è consapevole è sempre un buon rifugio. Un gruppo che negli anni settanta faceva musica disco-black e tirava fuori un inno che più nerd non si poteva. Quattordici minuti di voce sintetica e violini e trombette da telefilm a zampa d’elefante, di plip-e-plop e di voci sospiranti. Nessuno ama il computer, perché il computer non sa ballare. E allora balla!
Traccia fantasma a luci spente, qualcosa che non c’entra niente con il resto. Come sarebbero stati Elio e Le Storie Tese se al posto del prog fossero stati innamorati della musica nera? Sarebbero stati The Coup? Non so, ma Baby Let’s Have A Baby Before Bush Do Something Crazy è un soul da divanetto filologicamente, politicamente e sessualmente perfetto. Auguriamo una buona notte a tutti i ministri della difesa e degli esteri, e al presidente. Bum.
Intro
Chin up (Prins Thomas Miks) – Snuten feat. Fox’n’Wolf
Relevée (Carl Craig Mix) – Delia & Gavin
Dragon (Shit Robot Mix, not complete) – Dondolo
Who’s Afraid Of Detroit? – Claude Von Stroke
Smet – [T]ékël
Smoking Kills? – SebastiAn
The Resurrectionist (Goetz B. extended mix) – Pet Shop Boys
thrEEE-Talking – Soulwax vs Tiga vs Rex The Dog
Konkorde Lafayette – Padded Cell
Misen Gymnastics – Oorutaichi
Technicrats – Shy Child
Summer – Shy Child
Nobody Loves A Computer – Computer
Bonus
Baby Let’s Have A Baby Before Bush Do Something Crazy – The Coup
I computer non ballano, ma i Robomerda sì!
Italia per principianti
Tre mesi fa saltellando da un myspace all’altro sono finito su quello di Beirut e ho proposto la deliziosa Postcard From Italy. Negli ultimi giorni la canzone è in testa alle classifiche di segnalazione degli aggregatori di m-blog e Pitchfork l’ha recensita oggi nella rubrica dedicata alle singole canzoni iniziando il pezzo con un sintomatico “Bloggers are falling over themselves re: who heard Beirut first, but that shit matters not” . Non è questo che però ci interessa, quanto il fatto che nello stesso giorno mi sia arrivata una richiesta di amicizia sempre su myspace da parte dei TTC, supergruppo legato al colletivo Institubes, composto dai rapper Cuizinier, Teki Latex e Tido Berman e dai produttori Para One e Tacteel. E appunto lì ho trovato un pezzo di Cuiziner con Teki Latex chiamato Vacances En Italie (cercalo qui) che ripropone i soliti luoghi comuni con cui gli italiani vengono visti all’estero, passando per un inquietante “Giochiamo al giuoco delli patatini” e utilizzando per base, e qui viene il bello, Sarà perché ti amo dei Ricchi e Poveri. L’Italia, questa terra così amata.
4.5.06
Abball’ ‘o funk (u mannaggia o baccalà)
Più o meno due anni fa Diplo importava dal Brasile il baile funk, la musica della gioventù disintegrata delle favelas (cfr il suo Favela On Blast). Recentemente il baile funk innesta sempre più spesso chitarroni alla AC/DC come nel caso di Popozuda Rock’n’Roll o del recente successo (per il suo genere) dei Bonde do Role, Melo do Tabaco. Poi stamattina mi è partito sul lettore un pezzo del 1976 che a volumi insani sembra il baile funk secondo la DFA. Ah, se solo avesse un finale diverso con qualche arpeggio psichedelico.
Nuova Compagnia di Canto Popolare - Secondo Coro delle Lavandaie (da La Gatta Cenerentola)
3.5.06
Finlandesi Per Caso
Levan Polka - Loituma
(ovvero il quartetto vocale finlandese dietro il tormentone che fa strage da Inkiostro)
Update: il maggiore esegeta dei Loituma in Italia rende disponibile il primo remix per l'estate
2.5.06
Dai nostri inviati a Coachella
Ecco come è iniziato il concerto dei Daft Punk a Coachella
e poi
Robot Rock diventa Technologic via Oh Yeah
Technologic
Aerodynamic che diventa One More Time
One More Time
Around The World
Around The World che diventa Television Rules The Nation
Da Funk
Human After All
Too Long
e altro che qui non viene riportato
La qualità e quella che è, ma è quanto basta per schiattare d'invidia
La messa rossa
Offlaga Disco Pax due anni dopo, in quel di Bari, la notte dell’insediamento delle camere. Ha un senso scriverne? È come andare al Molfetta Outlet in cerca di sensazioni tessili griffate settecento giorni fa? Probabile, soprattutto poi per uno come me che vive il fenomeno dall’esterno di un’infedeltà alla linea fatta di divergenze e distinguo. Comunque ero lì, in prima fila davanti al cantante, forse a distinguermi con gli sguardi dal coro intorno, come quando negli ultimi anni mi è capitato di essere in chiesa per motivi essenzialmente funebri e ho attirato l’attenzione del prete con la mia non partecipazione alla messa. E non è un caso che tiri fuori il termine messa, perché l’impressione era quella di trovarsi a una di quelle messe in cui arriva il papa in provincia o il cardinale nel quartiere. Dal palco venivano distribuiti messalini con i testi che pochi dei molti fedeli utilizzavano: alcuni zitti per una qualche vergogna, pochi muovevano il labiale non ricordando bene le parole, molti urlavano e anche in anticipo le parole feticcio salvo poi sbagliare qualche volta il coro. Una messa cantata di sinistra è pur sempre una messa cantata, sia che la si veda come un momento di unione di un gruppo in qualcosa di alto, sia che la si veda come un momento di spersonalizzazione atta al controllo dell’individuo. Il PCI in fondo ha vissuto per tanto tempo l’ambivalenza di aver risolto teoricamente il dilemma del consenso e della rivoluzione con l’intuizione dell’egemonia gramsciana, praticandola però anche attraverso forme italo-catto-democristiane. All’inizio poi i giovani intorno, come tanti papaboys con tragico senso dell’ironia, inneggiavano in coro non a Gio-Vanni Pao-Lo ma a Fran-Cesco Ma-Rini e a Cle-Mente Ma-Stella, attirando la carezzevole reprimenda del sacerdote: “Siete dei NAD, Nuclei Armati Democristiani”.
Per il resto le notazioni sono le solite, a parte che riflettevo sul valore dello spirito di Orietta Berti nella transustaziazione del passato in revival dal potere taumaturgico-leni(n)tivo: Orietta Berti negli anni Sessanta de La Rotonda Sul Mare di Red Ronnie e della vanziniana Fininvest, Orietta Berti negli anni Settanta di Anima Mia di Labranca/Fazio e del mammobuonismo Rai, Orietta Berti negli anni Ottanta degli Offlaga come fantasma dell’altra Emilia. Mancano le foto alla merce protagonista, dato che ho perso la mia macchina fotografica ammaccatissima ballando electro dell’anno scorso dopo il concerto, ma Collini a tratti sembrava aver paura che le prime file rubassero il cilindretto di Doraemon o i peluche della talpa. Dal punto di vista estetico il cantante esibiva una cravatta su polo, cosa che ho visto rischiare soltanto a Nicola Savino, il chitarrista una maglietta di Maria Esangue Taylor e il moogista si distingueva per l’essere un clone totale di
delio con barba alla Bonnie Prince Billie, vestito con una maglietta di Star Wars chiara citazione da Il Caimano. Il capitolo paraculaggine ha previsto citazioni calcistiche riguardanti Parente, Protti e Tovalieri. Musicalmente fedeli a quello che ci si attendeva, con un piccolo appunto per Enver mozzata nella sua ballabilità e per la voce mescolata con un volume inizialmente troppo basso, hanno proposto due inediti che lasciano intendere che un possibile seguito di Socialismo Tascabile chiuderà alcune ellissi diventate poi tormentoni. Abbiamo comprato un cd per un amico su commissione e abbiamo ricevuto delle monete faticosamente racimolate come resto. Oggi le utilizzerò alla macchinetta dell’ufficio per comprare un Kinder (pausa pregna) Cereali.
(Visti anche settecento giorni dopo da Lablog e il giorno prima da Benty, con spiriti diversi dal mio)
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