Ci si accorge che è cambiato qualcosa, almeno a Londra, entrando da Rough Trade a Talbot Road. Quasi metà del negozio è occupato da cartoni dei vinili indie-electro di cui hai parlato tanto per un anno. Certo se vuoi comprare il singolo dei Jakobinakarina, l’anti-folk o un gruppetto NME-approved li trovi, ma fa paura vedere tutti insieme in una volta tutti quei piattoni che non si portano appresso nemmeno i dj più quotati della scena che vanno avanti a ultra-advanced o self-edited cd-r. Non nego che la tensione ci sia fin dalla mattina e non serve un’ottima cheese-cake a scacciarla. Così fin dalle ventuno e trenta si ronza nei pressi del The End, anche se l’ingresso è assicurato da un biglietto comprato come autoregalo la vigilia di Natale. Nel pub subito accanto un cartoncino avvisa che il piano di sopra è riservato per un party privato dalle 6.30 del mattino in poi. Noi migriamo verso quello subito dopo. Sono le dieci e mezza quando decidiamo che è ora. Lo spettacolo quando arriviamo è da non credere. Il posto sta in un palazzo su Oxford Street ma l’ingresso è su una sua parallela. La gente circonda interamente il palazzo con una fila che non avevo mai visto in vita mia. Corro dietro e tiro un sospiro di sollievo quando vedo che accanto alla fila da centinaia di persone c’è un altro cordone con una decina di ragazzi dal volto rilassato. Spelling del nome, carta di credito con cui hai effettuato il pagamento, lascia la mail perché sei dei nostri, braccialetto di carta come a un festival e sei dentro. Non ancora però, perché prima devi essere perquisito come nemmeno all’aeroporto il giorno dopo un attentato. Si scende una scala e ti immergi in un’esplosione fluò di giovani in ghingheri. I pochi tamarri alla vista, comunque presenti, sono lì per la musica. Questa sera gli indie sono loro. Perlustriamo i diversi ambienti. Nella main room c’è un sosia di Graham Coxon che passa martelloni fastidiosi. Nella lounge Brendan Long procede eclettico, spaziando tra remix di Audion (indovinaquale) e l’Herve di See-me-hear-me-feel-me-touch-me. Il foglietto di carta appeso con lo scotch parla chiaro: nel lounge Boys Noize 0:30-2:30 e altri che non interessano, nella main room Digitalism live 01:30-02:30, Erol Alkan 02:30-04:30, Simian Mobile Disco 04:30-finche c’han voglia. Un salto all’AKA, il locale adiacente dove possiamo comunque accedere, e sembra di essere finiti in una tremenda discoteca di provincia. Torniamo indietro ed è già bolgia, ma nessuno ha un capello scomposto, anche perché se entri nel bagno delle ragazze, questo è il necessaire gratuito che ti viene fornito (ma voi vi pettinereste con quella spazzola, anche in condizioni di estrema necessità?)
Quando inizia Alex Boys Noize il lounge è intasato perché tutti convergono lì. Non riesco nemmeno a vederlo o ad avvicinarmi per quanto si sta schiacciati, tanto che per mostrarvelo, qui sotto ho messo una sua foto mentre mi scatta una foto ed Alkan scatena la folla. Il suo set è arrotato, scartavetrante, ahrararra, insomma, il suo set è una parola con molte erre. Gli inglesi dovrebbero sostituire la parola noise con una parola con almeno due erre, ecco. Mi eccito per
My Love, quanto gli inglesi quando schiaffa su il suo rework dei Kaiser Chiefs o lo Switch di Lily. Su
Phantom è delirio. La battuta non si alza mai ed è una goduria per quello e perché le casse soffrono come se fossero delle crash test dummies per tutte le casse della loro gamma. Un peccato che sia a inizio serata e che sia già ora di correre dai digitalisti.
I Digitalism sono tedeschi (come Boys Noize di cui sopra) e quindi si dovrebbe dire Dighitalism, magari con la cura di accennare un tocco di zeta sulla esse. Il rosso e il grosso sono su un palchetto laterale ma tutti premono su di loro come se fosse il concerto in cui siamo, tanto che a un certo punto li affianca il tipo della sicurezza che mi ha tastato in precedenza, un rosso per niente muscoloso ma con la faccia da hooligan pazzo. Per tutta la prima parte lavorano trattenendo, tanto che i vocalist Dave Gahan e Robert Smith non emergono mai completamente dalla trama electro. A un certo punto
Zdarlight e la sua chitarra scatenano urla simili a quando arriva un ritornello e da quel momento è un alternarsi di vuoti melodici ed electro-rotante. La ragazza del grosso si improvvisa cubista accanto (caro, quanto me piace la canzone tua nuova) e su
Jupiter Room non si capisce più niente. Suonano anche quel loro inedito che sembra tanto un pezzo di quegli altri due robbott. Il set vola in un lampo, applausi, e già la voce sintetica dice eeee, rrrrr, oooo, llll.
Barba lunga e ciuffone, occhiali alla Mario Carotenuto e giubbotto di pelle, maglia bucata e anelli sulla collana. Erol Alkan è un indie-non-fighetto dentro, un rocker senza band, uno che insegue un’idea senza farsi sopraffare. Almeno per ora. Parte chino sulle manopole con un martellazzo che non conosco a cui fa seguire ancora il remix di
No Fit State di cui sopra. Al terzo pezzo guarda già l’orologio. Sembra un po’ teso. Il set procede technoide ma con un retrogusto funk. Alle sue spalle succede di tutto e lui sembra imperturbabile. Il Boys Noize duetta col Baffo, che prende alla lettera il mio commento sui fazzoletti di carta e si inventa il balletto del kleenex sventolino. Costringe tutti quanti allo sventolio, a volte inserendo bacchette fluorescenti tra la carta a doppio strato. A un certo punto decido che è ora di agitare alla sua volta il mio fazzoletto di cotone e lui ne rimane tanto colpito che chiede di vedere e toccare con mano. La sua faccia esprime ammirazione arcuando verso il basso gli angoli della bocca e mi restituisce il quadrato di stoffa. Del siparietto non esistono prove fotografiche, quindi consolatevi con uno dei suoi gesti sbandieranti cellulosa.
Intanto Alkan solleva improvvisamente lo sguardo. Da quel momento sembra di stare a un concerto metal. La musica si imbastardisce, prende a colpi di gomito i piatti dei cd, segue le distorsioni con mani e braccia, aizza la folla e viene affiancato dal suo doppio3000. Parte ancora il campionamento dei Goblin e la gente grida. Seguono Werol Alkman,
Just An Edit e si prende nuovamente la strada arrotina. Una voce sembra
Britney Spears e invece è solo Peaches. Accompagno ad alta voce il
pappa-pappapara di
Moving Like A Train su cui interseca Yello (o cosi mi è sembrato) e mi spacco letteralmente le corde vocali su
Standing In The Way Of Control. Quello che ci si aspetta, ma voglio viverlo almeno una volta prima di criticarlo come qualcosa di ovvio. E infatti sottolineo la prima battuta di ogni nuovo pezzo con un urlo. Lui beve di tutto come un dannato, ma ci porge una bottiglia di acqua visto che non ci schiodiamo dal posto. Un sorso della bottiglia di vodka che a ripetizione gli avvicinano non sarebbe stato male. Nel finale torna alla battuta dritta, vagamente tra il rave e il balearico, tipo
Destroy di The Proxy. I Simian sono già su e lui continua a ripeter loro “un altro pezzo”. Anzi due, anzi tre. Quelli montano il computer e gli chiedono se cominceranno dal cd di destra; lui fa il conto con l’indice e risponde di sì.
It’s A Fine Day scorre sul suo remix degli Scissor Sisters (
Kirsty Hawkshaw non ha più i capelli rasati edit), quando parte come finale quella cosa enorme. Fa il gesto del pianoforte, sale in piedi sulla console, lancia i palloni verso di noi, mentre commosso urlo a ripetizione “Puoi dimenticare i nostri piani per il futuro”. Si inchina verso tutti. Per un momento sta tutto lì, nella gente in preda a un orgasmo, nel reset dell’anno passato, nel piacere di chiudere e sapere che da lì in avanti ci aspetterà qualcosa che non ci aspettavamo. Poi indossa il giubbotto di pelle e va, anche se non ce n’è bisogno perché scende a ballare tra di noi.
I due Simian sono un biondino assai indie e un incrocio tra Telespalla Bob e il Cugino di Campagna grosso, allergico al mio obiettivo. A differenza di cd-r Alkan (ma la SIAE?!), loro alternano vinile e Mac. Partono con Switch Bump, poi il loro remix di
Magick ed Erol sale a cavalcioni di un tizio come se fossimo in un qualunque Festivalbar. Il biondino addetto al vinile sembra andare in panico a ogni cambio come se i dischi non fossero in un qualche ordine, ma è tutta una finta perché i passaggi tra i pezzi sono sempre pulitissimi. Electro corposa, e antiteticamente la vocina ripete
People don’t dance no more. La people balla, siamo noi un po’ provati che tendiamo all’ascolto o a sbirciare il grosso digitalista e la fidanzata o il Baffo. Pezzi dal nuovo disco, distorsioni nuovamente rotoidali e l’immancabile nuovo di Justice, vero tormentone della serata.
Sono le sei quando soddisfatti da
Lovelight/Ravelight decidiamo di abbandonarci a delle sane tre ore di sonno prima di ripartire verso casa. Ci offrono dei flyer per i prossimi tre mesi tutti raccolti in un cellophane, della cocaina, persino un intero taxi abusivo. È Londra, ed è stato così divertente che a viverci sempre non lo sarebbe altrettanto. Meglio la sana soddisfazione da gita del liceo con il sabato disco. Dopotutto, anche Erol ha iniziato in una discoteca di Leicester Square.
It's A Fine Day - Opus III