Chissà quanti concerti di Paolo Benvegnù avrete visto. Forse se siete qui, poi preferireste una oscurissima dissertazione sul perché improvvisamente siano tornati di moda i White Magic del pezzo degli zingari. Forse se siete qui, poi vi aspettereste i miei pianti greci per aver perso Âme la settimana scorsa per l’eccessiva distanza da Castellaneta Marina. Invece faccio i conti con simmetrie e distanze e ripenso al concerto di Paolo Benvegnù di ieri sera davanti alle navi da crociera in partenza. Via via che il concerto procedeva mi sentivo sempre più colpevole. Da quando quella bella storia è finita ho avuto paura della sua carriera solista e me ne sono tenuto lontano. Ieri invece ero in pace con me stesso e in più avevo il vantaggio che ogni cosa era una sorpresa. Le melodie che si arrotondavano circolari. I testi ancora su fragili equilibri di invenzione e di emotività. Anche il plexiglass. Nel bis in un attimo passavo dal rapimento di tutto il folle amore della pasoliniana Che cosa sono le nuvole (per una volta antiteatrale) e di Simmetrie al sorriso scemo del vaudeville di Troppo Poco Intelligente. Tutto resta uguale, ed è finale. Ci chiudono dentro al porto e tutti si affollano davanti al catenaccio. Da un’uscita lontana arrivano le macchine per il dj set seguente. Tutti davanti a un cancello chiuso e io mi stacco, come sempre, e cammino per decine di minuti in cerca di un passaggio aperto. Dopo un quarto d’ora mi rompo e scavalco come in un video di David Guetta. Quando ripasso con la macchina sono ancora tutti lì, dietro alle sbarre. Andare fuori dal porto, li farebbe respirare.
Il Mare Verticale (live 2004) - Paolo Benvegnù
Cerchi Nell’Acqua (live 2004) - Paolo Benvegnù
È solo un sogno (live 2004) - Paolo Benvegnù
(qualche foto di navi della Costa Crociere sul flickr)
28.6.07
27.6.07
Indovina chi
È lui o non è lui?
Rushup I Bank 12 - The Tuss
Update: Aphex che suona il pezzo al Traffic di Torino due anni fa
Rushup I Bank 12 - The Tuss
Update: Aphex che suona il pezzo al Traffic di Torino due anni fa
25.6.07
21.6.07
Manimal, backstrokes e pom pom pom
Qualche giorno fa mi sono imbattuto in questo video. Ero distratto e un’occhiata fugace mi aveva fatto pensare che i baffi a manubrio di Grinderman/Cave si erano già meritati una pessima cover band che sembrava prodotta da Marylin Manson. Oltre tutto, caro Arnoud, non ti si può vedere conciato da Tony Manero. Meglio quando eri un po’ più techno e indossavi le magliette del socio Blixa. Un pezzo obbrobrioso. Meno male che esiste Matthew Dear. Il bello dei remix a nome Audion è che a volte non rimane proprio niente dell’originale. Qui invece la voce rimane e quanto era innocua e di maniera nell’originale, tanto diventa oscura e disturbante. Quando lì sembrava dire “I’m A Man” con voce da patata in bocca tipo Little Tony, qui digrigna e sputa un “I’m a Man” che diventa un “I’m an Animal”. Sembra quasi un Grinderman-naro che entra in una discoteca tedesca e fa strame di frotte di biondini e biondine ciuffati.
Comunque caro Matthew, ti si vuole bene anche quando fai i dischi elettropoppe evasivi e obliqui e un po’ poseur-non-poseur. Perché ieri leggevo questo articolo su un giornale fighettino come XLR8R e ti si faceva notare che in quel tuo checcoselamor coi coretti amore-amore-amore da spiaggia, canti dell’amore che “Can include diamond rings”. Insomma, cosa ha detto tua moglie di ciò?! E tu hai risposto all’intervistatore che lei si è fatta una risata e che se tutte le canzoni che scrivi in genere sono astratte ed evasive, può benissimo esserlo anche quella. E poi ti devo un riconoscimento, visto che l’anno scorso quando ho fatto il mash-up alla Nathan Bongo Bong Fake di Bolognina Revolution, non avevo esitato nel saccheggiare e rallentare la tua Tide all’uopo. Ma tanto non se n’era accorto nessuno. Però caro Matthew ti preferisco quando spargi acidità con magniloquenza e per questo attendo impaziente il secondo dei tuoi tre album di quest’anno col nomignolo di False, quello di dark techno ambientale da ascolto. Il pezzo folk con l’ukulele e la faccia scema che dice Mouth To Mouth dell’intervista li rimandiamo al 2010, va bene?
I'm A Man - Blackstrobe (video)
I'm A Man (Audion's Donation Remix) - Blackstrobe
I'm A Man (Audion's Donation Remix) - Blackstrobe
Comunque caro Matthew, ti si vuole bene anche quando fai i dischi elettropoppe evasivi e obliqui e un po’ poseur-non-poseur. Perché ieri leggevo questo articolo su un giornale fighettino come XLR8R e ti si faceva notare che in quel tuo checcoselamor coi coretti amore-amore-amore da spiaggia, canti dell’amore che “Can include diamond rings”. Insomma, cosa ha detto tua moglie di ciò?! E tu hai risposto all’intervistatore che lei si è fatta una risata e che se tutte le canzoni che scrivi in genere sono astratte ed evasive, può benissimo esserlo anche quella. E poi ti devo un riconoscimento, visto che l’anno scorso quando ho fatto il mash-up alla Nathan Bongo Bong Fake di Bolognina Revolution, non avevo esitato nel saccheggiare e rallentare la tua Tide all’uopo. Ma tanto non se n’era accorto nessuno. Però caro Matthew ti preferisco quando spargi acidità con magniloquenza e per questo attendo impaziente il secondo dei tuoi tre album di quest’anno col nomignolo di False, quello di dark techno ambientale da ascolto. Il pezzo folk con l’ukulele e la faccia scema che dice Mouth To Mouth dell’intervista li rimandiamo al 2010, va bene?
Pom Pom - Matthew Dear
Fed On Youth - False
Fed On Youth - False
19.6.07
Mouth To Mouth
Il disco d’esordio di Annie Clark, ovvero St. Vincent, ovvero la chitarrista dei Polyphonic Spree, è disparato e a volte eccessivo, per quanto uno a cui piacciano i Map Of Africa possa dare del disparato e dell’eccessivo a qualcun altro. Per quel che conta, mi sono fissato con le giravolte alla Matthew Dear di Now, Now. Nonostante il disparatissimo ed eccessivo coretto alla Polyphonic Spree/Sufjan, nonostante il disparato ed eccessivissimo assolo finale Paranoi Ahinoi.
Now, Now - St. Vincent
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vorrei ma ancora non posso
18.6.07
Ogni mattina, uoh uoh
15.6.07
Tormientoni
7.6.07
Slave to the rhythm (ma più to the pop)
L’incontro con la padrona di casa, una passeggiata alla spiaggia e un pranzo insoddisfacente fanno saltare la scelta tra Kimya Dawson e i 6PM. L’ultimo giorno comincia così con Shannon Wright. Shannon Wright sarà una così cara ragazza, ma le sette di mattina con cui ho terminato la giornata precedente rendono il mio cuore di pietra e tutto quello che combina mi provoca fastidio. Oltretutto sculetta quasi quanto la tipa dei Bonde do Role su alcune nenie tristanzuole appiattite da una chitarra elettrica effettata sempre uguale a se stessa. La bella voce a volte mi rimanda ai Mazzy Star, ma il pensiero ricorrente è che PJ Harvey abbia fatto del male a tante ragazze. Usciamo così verso il sole, il caldo, il palco col mare a lato e gli Apples In Stereo. Un concerto bello, melodico e fresco come mi attendevo. Sul palco sembrano bambinoni di mezza età e io amo tantissimo chi scrive canzoni radio-friendly come le loro anche se in radio probabilmente non le passeranno mai.
Sul palco principale i modaiolissimi Long Blondes. Cioè, io mica mi ero mai accorto che il loro batterista era Simone Cristicchi?! Comunque passo il tempo a scattare foto su foto, tutte uguali tra di loro. Tanta immagine, un pizzico di arguzia a stemperare l’aria da divertissement in costume. Se non fossero così impomatati sarebbero assimilabili a un bel cartone di fish’n’chips o alla sua negazione. Eppure manca loro quel qualcosa che li faccia andare oltre l’aura da fenomeno passeggero.
Chiudiamo la pregevole escursione pop con gli Architetti a Helsinki. Meno di quanti mi aspettavo sul palco, eseguono gran parte del nuovo disco svelando piacevoli risvolti electroidi. Si canta, si balla, nanana, papapa, etcetc. Ritmo frenetico, stop, ritmo frenetico. Pubblico con il sorriso stampato sulla faccia, coinvolgimento alle stelle, scambi vorticosi di strumenti. Una tizia a fine concerto urla “Please come to Canada”. A confronto mi sono vergognato e non ho urlato loro “Please come to Bari”.
Cena con Patti cover girl Smith e poi diretti verso i The Good The Bad And Zulù dei 99 Posse. Il supergruppo ha le violiniste e un tendone dietro che proietta un’immagine di decadenza vittoriana sui palazzi con le parabole in cima. Il più fico di tutti è il batterista Tony Allen che tocca la batteria in istanti che non ti aspetti e con quelli ci crea un ritmo che non avevi mai sentito prima. E poi è l’antitesi del batterista spaccone, una gran lezione di stile e di capacità musicale insomma. Damon Albarn è contento del giocattolo, di quando Simonon gli punta addosso il basso e così via. Simonon è Simonon, e più non dimandare. I loro bassi volumi risentono del fuoco di fila degli altri palchi (Isis e Lisabö, in pratica un esorcismo doom hardcore verso cui Albarn impone i due indici a forma di croce. Non è escluso anche un ruolo del più lontano dj set tamarro degli Shitdisco). Tutto molto bello, anche se il concerto nella sua interezza risente della prescindibilità del disco da super-gruppo. Poi non ho capito perché alla fine sia salito sul palco un grassone con la kefiah che ha rappato sul pezzo conclusivo (ma c’è anche su disco?).
Sul palco principale cominciano i Sonic Youth play Daydream Nation e il mio giudizio è bilanciato tra il fatto che fosse la mia prima volta con loro e quello che DN non sia esattamente il mio loro preferito. Molta curiosità, il rammarico di vederli così tanto tempo dopo, eppure un’impressione ottima che li allontana dal pericoloso campo della mostrosacraggine imperante al festival. Nei dintorni si aggirano poi molti degli artisti in libera uscita, da pezzi degli Architecture in Helsinki fino ad Erol Alkan. Non resto fino alla fine però perché mi muovo verso il palco Vice dove partirà il mio segmento techno di festival.
La gente è ancora più inquietante del giorno prima. A parte che avevo visto qualcuno che si lavava i denti con la polvere bianca solo nei film, ma incrocio delle tizie con le corna rosse a brillantini che celebrano un addio al nubilato, dei sessantenni e i consueti punkabbestia tanto amanti della techno (seee…). Comincia Luomo. Su disco Luomo non mi dispiaceva. Dal vivo mi rendo conto di quanto sia gonfiato: gira solo manopole di riverbero, non accenna a legare i pezzi, mantiene il set sul binario costante della palla fastidiosa. Fortuna che duri quaranta minuti. Di seguito Nathan Fake comincia con Stops (eheh). Nathan Fake purtroppo non suona i pezzi del disco, ma della techno plink plonk che nei migliori casi rimanda a Holden e nei peggiori al fratello scemo di Aphex Twin. Se ciò non bastasse a deludermi, quando inizio a ballare ammazza il ritmo intersecando Grandfathered (che avrei anche atteso, ma cavolo, perché lì? Cos’è un dj set o un coitus interruptus?) o Falmer. Anche lui finisce presto e in fondo provo un po’ di pena per questi poveri dj costretti a un minutaggio infame e all’impossibilità di creare una qualche atmosfera e/o di legarsi alla precedente. Si migliora un po’ con Dominik Eulberg. L’inizio è moscio e mi viene persino quasi voglia di andare a(gl)i Wilco, ma complice la distrazione dell’impossibile impresa di comprare il mio primo cocktail – bastava uscire dalla zona elettronica, a volte è bene avere a fianco qualcuno che ragiona più di te – rimango e fortunatamente vengono fuori i pezzi migliori da Heimische Gefilde e qualcuno dei singoli sparsi. Mi convinco che forse un festival indie non è esattamente il posto dove troverò un dj set di quattro ore di Villalobos e corriamo verso il momento fritto conclusivo.
Non avete idea della faccia che ho fatto quando ho scoperto che al camioncino dei churros vendevano anche la cioccolata calda. No, dico, la morte del churro è affogarlo dentro densissima cioccolata calda. La redbull gli fa ‘na pippa. E io per tre giorni mi sono privato di ciò?! Comunque il churro intinto nella cioccolata calda ha potenziato l’ascolto dell’ultimo concerto del festival, ovvero quello dei Battles. I Battles li avevo visti a Milano due anni fa e diciamo che mi hanno confermato l’idea che mi ero fatto allora: in concerto, come la cioccolata coi churros, amplificano l’opinione che vi eravate fatti su di loro su disco. Nel mio caso che siano la unz unz, o il punk funk per i politicamente corretti, degli Oompa Loompa. Atlas ha spaccato tutto. Atlas è stata suonata da Erol Alkan ma solo nella festa di chiusura della domenica, quando non c’ero.
Molti abbandonano ma la nostra conclusione è il dj set di Erol Alkan. Giubbotto di pelle uguale a quello sfoggiato a Londra e polo a righe, concede pochissimo al pubblico festivaliero. Electro dritta quasi techno, il cui picco di popolarità è rappresentato dal Simian Mobile Disco mix di Let’s Make Love And Listen Death From Above. La gente apprezza e intanto sorge il sole, punteggiato dal solito loop dei Devo a volumi insensati. Non manca il suo solito edit di Sweet Dreams e intanto arrivano a ballare i ragazzi dei camioncini del cibo, con i grembiuli tutti sporchi di senape e ketchup. Raggiungiamo il palco e assistiamo a un simpatico siparietto tra una ragazza inglese sboccatissima e un ligio addetto alla sicurezza con la faccia di Double U dietro le transenne. La chiusura è la stessa di Londra a Gennaio: solito remix di Herbert inframezzato da solito Yello che si trasforma nel suo solito remix dei Scissor Sisters su cui adagia i solit Opus 3 di Fine Day. Finché il plin plin sfuma e parte Today degli Smashing Pumpkins e la ricanto ad alta voce. L’eterno tramonto è diventato un’alba eterna e in fondo è bello e consolatorio quando il passato, anche quello che vogliamo dimenticare, non pesa sulle nostre spalle ma lo possiamo riporre comodamente in una custodia di dischi. Lontano dai nostri occhi e pronto per essere ripescato quando si vuole, senza esserne schiavi. Liberazione e schiavitù, in fondo, non esistono se non insieme.
Sul palco principale i modaiolissimi Long Blondes. Cioè, io mica mi ero mai accorto che il loro batterista era Simone Cristicchi?! Comunque passo il tempo a scattare foto su foto, tutte uguali tra di loro. Tanta immagine, un pizzico di arguzia a stemperare l’aria da divertissement in costume. Se non fossero così impomatati sarebbero assimilabili a un bel cartone di fish’n’chips o alla sua negazione. Eppure manca loro quel qualcosa che li faccia andare oltre l’aura da fenomeno passeggero.
Chiudiamo la pregevole escursione pop con gli Architetti a Helsinki. Meno di quanti mi aspettavo sul palco, eseguono gran parte del nuovo disco svelando piacevoli risvolti electroidi. Si canta, si balla, nanana, papapa, etcetc. Ritmo frenetico, stop, ritmo frenetico. Pubblico con il sorriso stampato sulla faccia, coinvolgimento alle stelle, scambi vorticosi di strumenti. Una tizia a fine concerto urla “Please come to Canada”. A confronto mi sono vergognato e non ho urlato loro “Please come to Bari”.
Cena con Patti cover girl Smith e poi diretti verso i The Good The Bad And Zulù dei 99 Posse. Il supergruppo ha le violiniste e un tendone dietro che proietta un’immagine di decadenza vittoriana sui palazzi con le parabole in cima. Il più fico di tutti è il batterista Tony Allen che tocca la batteria in istanti che non ti aspetti e con quelli ci crea un ritmo che non avevi mai sentito prima. E poi è l’antitesi del batterista spaccone, una gran lezione di stile e di capacità musicale insomma. Damon Albarn è contento del giocattolo, di quando Simonon gli punta addosso il basso e così via. Simonon è Simonon, e più non dimandare. I loro bassi volumi risentono del fuoco di fila degli altri palchi (Isis e Lisabö, in pratica un esorcismo doom hardcore verso cui Albarn impone i due indici a forma di croce. Non è escluso anche un ruolo del più lontano dj set tamarro degli Shitdisco). Tutto molto bello, anche se il concerto nella sua interezza risente della prescindibilità del disco da super-gruppo. Poi non ho capito perché alla fine sia salito sul palco un grassone con la kefiah che ha rappato sul pezzo conclusivo (ma c’è anche su disco?).
Sul palco principale cominciano i Sonic Youth play Daydream Nation e il mio giudizio è bilanciato tra il fatto che fosse la mia prima volta con loro e quello che DN non sia esattamente il mio loro preferito. Molta curiosità, il rammarico di vederli così tanto tempo dopo, eppure un’impressione ottima che li allontana dal pericoloso campo della mostrosacraggine imperante al festival. Nei dintorni si aggirano poi molti degli artisti in libera uscita, da pezzi degli Architecture in Helsinki fino ad Erol Alkan. Non resto fino alla fine però perché mi muovo verso il palco Vice dove partirà il mio segmento techno di festival.
La gente è ancora più inquietante del giorno prima. A parte che avevo visto qualcuno che si lavava i denti con la polvere bianca solo nei film, ma incrocio delle tizie con le corna rosse a brillantini che celebrano un addio al nubilato, dei sessantenni e i consueti punkabbestia tanto amanti della techno (seee…). Comincia Luomo. Su disco Luomo non mi dispiaceva. Dal vivo mi rendo conto di quanto sia gonfiato: gira solo manopole di riverbero, non accenna a legare i pezzi, mantiene il set sul binario costante della palla fastidiosa. Fortuna che duri quaranta minuti. Di seguito Nathan Fake comincia con Stops (eheh). Nathan Fake purtroppo non suona i pezzi del disco, ma della techno plink plonk che nei migliori casi rimanda a Holden e nei peggiori al fratello scemo di Aphex Twin. Se ciò non bastasse a deludermi, quando inizio a ballare ammazza il ritmo intersecando Grandfathered (che avrei anche atteso, ma cavolo, perché lì? Cos’è un dj set o un coitus interruptus?) o Falmer. Anche lui finisce presto e in fondo provo un po’ di pena per questi poveri dj costretti a un minutaggio infame e all’impossibilità di creare una qualche atmosfera e/o di legarsi alla precedente. Si migliora un po’ con Dominik Eulberg. L’inizio è moscio e mi viene persino quasi voglia di andare a(gl)i Wilco, ma complice la distrazione dell’impossibile impresa di comprare il mio primo cocktail – bastava uscire dalla zona elettronica, a volte è bene avere a fianco qualcuno che ragiona più di te – rimango e fortunatamente vengono fuori i pezzi migliori da Heimische Gefilde e qualcuno dei singoli sparsi. Mi convinco che forse un festival indie non è esattamente il posto dove troverò un dj set di quattro ore di Villalobos e corriamo verso il momento fritto conclusivo.
Non avete idea della faccia che ho fatto quando ho scoperto che al camioncino dei churros vendevano anche la cioccolata calda. No, dico, la morte del churro è affogarlo dentro densissima cioccolata calda. La redbull gli fa ‘na pippa. E io per tre giorni mi sono privato di ciò?! Comunque il churro intinto nella cioccolata calda ha potenziato l’ascolto dell’ultimo concerto del festival, ovvero quello dei Battles. I Battles li avevo visti a Milano due anni fa e diciamo che mi hanno confermato l’idea che mi ero fatto allora: in concerto, come la cioccolata coi churros, amplificano l’opinione che vi eravate fatti su di loro su disco. Nel mio caso che siano la unz unz, o il punk funk per i politicamente corretti, degli Oompa Loompa. Atlas ha spaccato tutto. Atlas è stata suonata da Erol Alkan ma solo nella festa di chiusura della domenica, quando non c’ero.
Molti abbandonano ma la nostra conclusione è il dj set di Erol Alkan. Giubbotto di pelle uguale a quello sfoggiato a Londra e polo a righe, concede pochissimo al pubblico festivaliero. Electro dritta quasi techno, il cui picco di popolarità è rappresentato dal Simian Mobile Disco mix di Let’s Make Love And Listen Death From Above. La gente apprezza e intanto sorge il sole, punteggiato dal solito loop dei Devo a volumi insensati. Non manca il suo solito edit di Sweet Dreams e intanto arrivano a ballare i ragazzi dei camioncini del cibo, con i grembiuli tutti sporchi di senape e ketchup. Raggiungiamo il palco e assistiamo a un simpatico siparietto tra una ragazza inglese sboccatissima e un ligio addetto alla sicurezza con la faccia di Double U dietro le transenne. La chiusura è la stessa di Londra a Gennaio: solito remix di Herbert inframezzato da solito Yello che si trasforma nel suo solito remix dei Scissor Sisters su cui adagia i solit Opus 3 di Fine Day. Finché il plin plin sfuma e parte Today degli Smashing Pumpkins e la ricanto ad alta voce. L’eterno tramonto è diventato un’alba eterna e in fondo è bello e consolatorio quando il passato, anche quello che vogliamo dimenticare, non pesa sulle nostre spalle ma lo possiamo riporre comodamente in una custodia di dischi. Lontano dai nostri occhi e pronto per essere ripescato quando si vuole, senza esserne schiavi. Liberazione e schiavitù, in fondo, non esistono se non insieme.
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Life can't get stranger than this
Polpi al sugo con pimento. Una grigliata mista di cannolicchi, seppie, tranci di tonno, tranci di spada, mezze orate e gamberoni. Verdure grigliate a contorno e vino bianco fresco. Una crema catalana buona come nemmeno nei sogni. Veniva davvero voglia di porre il sigillo sulla giornata in quel momento, al Bar Central, sulla perfezione dello sgabello rotante in fondo al mercato della Rambla. Il bello rispetto ai festival dove si campeggia è questo, che il giorno dopo si riesce a gustarsi i piaceri della vita invece di annaspare nell’afa o galleggiare nel fango. Si trova persino il tempo per girare per negozietti di dischi quasi tutti uguali (eccezion fatta per il fichissimo CD Drome e per quello appena precedente con una gustosa e fornita sezione dance), a patto di saltare l’incipit delicato dei Mus.
La nostra giornata al festival inizia poco più tardi dalle parti dello stand di Myspace dove sono previste per i prossimi due giorni esibizioni acustiche di alcuni degli artisti presenti sul posto. In particolare siamo lì per la Merenda Warp, ovvero Grizzly Bear e Maximo Park più pasticcini e pizzette. I Grizzly Bear sono ancora più tenui e delicati del solito e per quanto non mi riesca quasi mai di arrivare alla fine di una loro canzone, eseguono Plans che è la mia loro preferita e non sbuffo neanche. It’s a long way to South America.
Di seguito Maximo Park in formazione cantante più chitarra: Paul Smith mi sta simpatico, non ci posso fare niente. Non mi strappo le vesti per la loro musica, per le loro canzoni, per i loro live, eppure su tutto svetta questo buon uomo che seppellisce il concetto di cantante stronzetto di gruppo brit con la bonarietà del suo sorriso e del suo modo di fare. Le tre canzoni scorrono via che è un piacere ed è un peccato che i nomi dei prossimi giorni non siano particolarmente interessanti vista la situazione così riuscita. Più tardi non oso pensare cosa possano fare di acustico i Bonde Do Role.
Al palco principale i Rakes si esibiscono nel numero del clone puzzone malriuscito dei Franz Ferdinand. Al Rockdelux guardiamo tranquilli sulla gradinata l’ennesimo nostro concerto dei Blonde Redhead, altezzosi come al solito nonostante le sbatacchiate di vento che i secchi prendono sui reni. Il maestoso Mark E. Smith sonorizza la cena, dove poniamo fine al dilemma che ci attanagliava fino a questo momento: le trombette hip di Beirut o il gospel spaziale degli Spiritualized in versione acustica + quartetto d’archi + coro. Scegliamo la salvezza, scegliamo Lui. La fila per entrare all’Auditori è interminabile, si contorce, comincia quasi dall’uscita della zona festival. Riusciamo a entrare ed è tutto un rapimento per me. L’Auditori è una cavità uterina blu tappezzata di un silenzio sacrale e Jason Pierce toglie l’ed agli Spiritualized e i suoi inni di chiesa spazio-elettrici si spogliano fino a diventare il canto ipnotico e sognante di un uomo ferito, con troppe medicine e troppo amore nel passato e con quel sogno infantile di campi di cotone idrofilo su Saturno. Ladies And Gentlemen We’re Floating In Space si innesta sul precedente pezzo. Il pubblico applaude quando parte, io oscillo tra brividi e groppi in gola, Elvis galleggia come un dio dell’antidolorifico, l’amore è la medicina e la medicina è l’amore, il coro gospel rianima Elvis, dieci anni scorrono in due minuti. Liberazione e schiavitù coincidono. Da quando sono tornato non faccio che riascoltarla. Poi chiudono con Oh Happy Day ed è Natale il primo giugno, nevica e scambio regali coi vicini di poltrona. Life can’t get stranger than this.
Mezzora di Maximo Park e poi corriamo verso i Modest Mouse. Siamo tutti lì a quanto pare e noi siamo in fondo, così in fondo che Johnny Marr è un omino piccolo (io che mi aspettavo che fosse un gigante o che mostrasse in qualche modo fisico il suo essere sovrannaturale) e non vedo l’occhio nero di Isack Brock. In compenso lì dietro ci sono i ciarlieri scazzati che non applaudono nemmeno Float On. I topi non sono certo il gruppo della mia vita ma tengono ottimamente la scena ancorché siano immobili e non cerchino lo spettacolo in nessun modo. Abbiamo l’ennesima conferma che quest’anno la cassa dritta infesta diversi pezzi indie e sarà un messaggio subliminale, ma per questo si fa un salto al Vice tra i topi e i Low per l’inizio del dj set di Reinhard Voigt: il braccio destro di Michael Mayer ha un fastidioso fare da aizzatore di folle techno, di quelli che tolgono la cassa per chiamare i fischi e rimetterla dopo durissima per scatenare la folla di impasticcati. Ogni girata di manopola è risolta con ampi gesti plateali. Due pezzi non bastano per farsi un’opinione, anche perché corriamo di nuovo verso l’ATP per l’inizio dei Low. Intanto l’area elettronica è stata separata da quella dei concerti e loschi figuri cominciano a popolarla variegando l’impatto visivo finora rigorosamente indie. Sull’altro palco elettronico l’inglese DJ Yoda si esibisce appiccicando ritornelli di tutto uno sull’altro: Bon Jovi, hip hop, house, Fred Buongusto, le canzoni dei cartoni animati, Raffaella Carrà, Gino Bramieri e l’orchestra dei pompieri di Viggiù. Per venti secondi a testa.
Vediamo i Low dall’alto della piccionaia. Come ebbi a dire l’altra volta per gli Yo La Tengo, soffrono dell’ora, del posto e del pubblico. Seduti, l’audio ci arriva come da sottacqua. Passo in rassegna, canzone per canzone, quello che avrei provato in altra condizione. Ascoltiamo religiosamente Amazing Grace e scappiamo prima della fine verso il momento fritto di oggi. Mastichiamo ancora i churros quando sul palco escono ricoperti di carta igienica i Bonde Do Role ancora una volta sui Goblin. Immaginate tre adolescenti brasiliani, uno con la faccia di quelli bravi a scuola col sette in condotta, l’altro *uguale* ad Andy Milonakis e infine l’ultima una gnappetta colla maglia di topolino iperbolicamente sconcia. Tali adolescenti urlano e mimano porcate su campionamenti di Metallica e ACDC, su Final Countdown e su Robot Rock passando per Grease. Frittissimi. Sul palco li raggiunge un tizio con coppola bordeaux e maglia rosa dei !!! che ingannevolmente scambio per Diplo, ma il vero delirio è alla fine quando il palco si riempie di sconosciuti tra cui persino il cantante nasone dei Grizzly Bear. Un raro momento di festoso ‘un giorno vi pentirete di tutto ciò’.
Intanto un giovane allo sportello informazioni diffonde notizie sbagliate dicendo che di lì a qualche minuto avrebbero suonato i Battles al posto degli Hot Chip che, a loro volta, avrebbero preso il posto dei cancellati Klaxons l’indomani. Al Rockdelux invece suonano regolarmente gli Hot Chip, ancora più scazzati e mosci che a Milano. Una pena. Tanto che preferisco andare a fare la fila da qualche parte per qualcosa da bere. Mentre molti si fermano qui e si dirigono verso le case passando per una gustosa fila per la metropolitana, io resto anche per Diplo. Diplo ha un’asta con un microfono a lato e ogni tanto abbassa il volume e parla alla folla con degli smozzichi incomprensibili e con un fare da figosissimo dj anni settanta. Barslna. Siete bellissimi. Yo. Diplo parte con dell’elettronica tesa, punteggiata ogni tanto da inserti vocali baile. Verso le sei meno un quarto i Booka Shade con sopra un cantato brasiliano segnano il passaggio verso la chiusura cazzona: ancora rap brasileiro sugli Smashing Pumpkins, edit fatti in casa dei Daft Punk e di DJ Shadow, fino all’apoteosi di una Young Folks alle sei e mezza a sole già sorto, con le ragazze sulle spalle dei ragazzi e il crowdsurfing di alcuni temerari (ho registrato anche un video, magari prima o poi lo metto su youtube). E subito dopo le trombe di Jump Around degli House of Pain, i telefonati Technotronic, i Cure di Lovecats e via di festa. La stessa musica che mettono i dj merdoni alle serate pseudo-rock, eppure sembrava miscelare vinili rarissimi con fare da grande. Alle sette meno un quarto chiude con un pezzo soft rock che non riconosco, la folla chiama a gran voce un ulteriore ultimo pezzo, ma gli staccano la corrente e l’amplificazione del microfono e nonostante continui a fare il gesto dell’uno solo con l’indice al tizio del mixer, non gli resta che fare spallucce e rimettere il disco in tasca con la faccia triste di un bambino che non capisce perché non può stare sveglio altri cinque minuti, quando è sicuro che tra cinque minuti andrà a dormire.
La nostra giornata al festival inizia poco più tardi dalle parti dello stand di Myspace dove sono previste per i prossimi due giorni esibizioni acustiche di alcuni degli artisti presenti sul posto. In particolare siamo lì per la Merenda Warp, ovvero Grizzly Bear e Maximo Park più pasticcini e pizzette. I Grizzly Bear sono ancora più tenui e delicati del solito e per quanto non mi riesca quasi mai di arrivare alla fine di una loro canzone, eseguono Plans che è la mia loro preferita e non sbuffo neanche. It’s a long way to South America.
Di seguito Maximo Park in formazione cantante più chitarra: Paul Smith mi sta simpatico, non ci posso fare niente. Non mi strappo le vesti per la loro musica, per le loro canzoni, per i loro live, eppure su tutto svetta questo buon uomo che seppellisce il concetto di cantante stronzetto di gruppo brit con la bonarietà del suo sorriso e del suo modo di fare. Le tre canzoni scorrono via che è un piacere ed è un peccato che i nomi dei prossimi giorni non siano particolarmente interessanti vista la situazione così riuscita. Più tardi non oso pensare cosa possano fare di acustico i Bonde Do Role.
Al palco principale i Rakes si esibiscono nel numero del clone puzzone malriuscito dei Franz Ferdinand. Al Rockdelux guardiamo tranquilli sulla gradinata l’ennesimo nostro concerto dei Blonde Redhead, altezzosi come al solito nonostante le sbatacchiate di vento che i secchi prendono sui reni. Il maestoso Mark E. Smith sonorizza la cena, dove poniamo fine al dilemma che ci attanagliava fino a questo momento: le trombette hip di Beirut o il gospel spaziale degli Spiritualized in versione acustica + quartetto d’archi + coro. Scegliamo la salvezza, scegliamo Lui. La fila per entrare all’Auditori è interminabile, si contorce, comincia quasi dall’uscita della zona festival. Riusciamo a entrare ed è tutto un rapimento per me. L’Auditori è una cavità uterina blu tappezzata di un silenzio sacrale e Jason Pierce toglie l’ed agli Spiritualized e i suoi inni di chiesa spazio-elettrici si spogliano fino a diventare il canto ipnotico e sognante di un uomo ferito, con troppe medicine e troppo amore nel passato e con quel sogno infantile di campi di cotone idrofilo su Saturno. Ladies And Gentlemen We’re Floating In Space si innesta sul precedente pezzo. Il pubblico applaude quando parte, io oscillo tra brividi e groppi in gola, Elvis galleggia come un dio dell’antidolorifico, l’amore è la medicina e la medicina è l’amore, il coro gospel rianima Elvis, dieci anni scorrono in due minuti. Liberazione e schiavitù coincidono. Da quando sono tornato non faccio che riascoltarla. Poi chiudono con Oh Happy Day ed è Natale il primo giugno, nevica e scambio regali coi vicini di poltrona. Life can’t get stranger than this.
Mezzora di Maximo Park e poi corriamo verso i Modest Mouse. Siamo tutti lì a quanto pare e noi siamo in fondo, così in fondo che Johnny Marr è un omino piccolo (io che mi aspettavo che fosse un gigante o che mostrasse in qualche modo fisico il suo essere sovrannaturale) e non vedo l’occhio nero di Isack Brock. In compenso lì dietro ci sono i ciarlieri scazzati che non applaudono nemmeno Float On. I topi non sono certo il gruppo della mia vita ma tengono ottimamente la scena ancorché siano immobili e non cerchino lo spettacolo in nessun modo. Abbiamo l’ennesima conferma che quest’anno la cassa dritta infesta diversi pezzi indie e sarà un messaggio subliminale, ma per questo si fa un salto al Vice tra i topi e i Low per l’inizio del dj set di Reinhard Voigt: il braccio destro di Michael Mayer ha un fastidioso fare da aizzatore di folle techno, di quelli che tolgono la cassa per chiamare i fischi e rimetterla dopo durissima per scatenare la folla di impasticcati. Ogni girata di manopola è risolta con ampi gesti plateali. Due pezzi non bastano per farsi un’opinione, anche perché corriamo di nuovo verso l’ATP per l’inizio dei Low. Intanto l’area elettronica è stata separata da quella dei concerti e loschi figuri cominciano a popolarla variegando l’impatto visivo finora rigorosamente indie. Sull’altro palco elettronico l’inglese DJ Yoda si esibisce appiccicando ritornelli di tutto uno sull’altro: Bon Jovi, hip hop, house, Fred Buongusto, le canzoni dei cartoni animati, Raffaella Carrà, Gino Bramieri e l’orchestra dei pompieri di Viggiù. Per venti secondi a testa.
Vediamo i Low dall’alto della piccionaia. Come ebbi a dire l’altra volta per gli Yo La Tengo, soffrono dell’ora, del posto e del pubblico. Seduti, l’audio ci arriva come da sottacqua. Passo in rassegna, canzone per canzone, quello che avrei provato in altra condizione. Ascoltiamo religiosamente Amazing Grace e scappiamo prima della fine verso il momento fritto di oggi. Mastichiamo ancora i churros quando sul palco escono ricoperti di carta igienica i Bonde Do Role ancora una volta sui Goblin. Immaginate tre adolescenti brasiliani, uno con la faccia di quelli bravi a scuola col sette in condotta, l’altro *uguale* ad Andy Milonakis e infine l’ultima una gnappetta colla maglia di topolino iperbolicamente sconcia. Tali adolescenti urlano e mimano porcate su campionamenti di Metallica e ACDC, su Final Countdown e su Robot Rock passando per Grease. Frittissimi. Sul palco li raggiunge un tizio con coppola bordeaux e maglia rosa dei !!! che ingannevolmente scambio per Diplo, ma il vero delirio è alla fine quando il palco si riempie di sconosciuti tra cui persino il cantante nasone dei Grizzly Bear. Un raro momento di festoso ‘un giorno vi pentirete di tutto ciò’.
Intanto un giovane allo sportello informazioni diffonde notizie sbagliate dicendo che di lì a qualche minuto avrebbero suonato i Battles al posto degli Hot Chip che, a loro volta, avrebbero preso il posto dei cancellati Klaxons l’indomani. Al Rockdelux invece suonano regolarmente gli Hot Chip, ancora più scazzati e mosci che a Milano. Una pena. Tanto che preferisco andare a fare la fila da qualche parte per qualcosa da bere. Mentre molti si fermano qui e si dirigono verso le case passando per una gustosa fila per la metropolitana, io resto anche per Diplo. Diplo ha un’asta con un microfono a lato e ogni tanto abbassa il volume e parla alla folla con degli smozzichi incomprensibili e con un fare da figosissimo dj anni settanta. Barslna. Siete bellissimi. Yo. Diplo parte con dell’elettronica tesa, punteggiata ogni tanto da inserti vocali baile. Verso le sei meno un quarto i Booka Shade con sopra un cantato brasiliano segnano il passaggio verso la chiusura cazzona: ancora rap brasileiro sugli Smashing Pumpkins, edit fatti in casa dei Daft Punk e di DJ Shadow, fino all’apoteosi di una Young Folks alle sei e mezza a sole già sorto, con le ragazze sulle spalle dei ragazzi e il crowdsurfing di alcuni temerari (ho registrato anche un video, magari prima o poi lo metto su youtube). E subito dopo le trombe di Jump Around degli House of Pain, i telefonati Technotronic, i Cure di Lovecats e via di festa. La stessa musica che mettono i dj merdoni alle serate pseudo-rock, eppure sembrava miscelare vinili rarissimi con fare da grande. Alle sette meno un quarto chiude con un pezzo soft rock che non riconosco, la folla chiama a gran voce un ulteriore ultimo pezzo, ma gli staccano la corrente e l’amplificazione del microfono e nonostante continui a fare il gesto dell’uno solo con l’indice al tizio del mixer, non gli resta che fare spallucce e rimettere il disco in tasca con la faccia triste di un bambino che non capisce perché non può stare sveglio altri cinque minuti, quando è sicuro che tra cinque minuti andrà a dormire.
[...continua...]
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First Ins And First Outs
Tutti quelli che conosco e che sono andati al Primavera, me ne hanno sempre parlato in termini entusiastici. (Quasi) tutti quelli che sono tornati con me dal Primavera me ne hanno parlato in termini entusiastici. Tornando su quei tre giorni però, sento la mancanza di un’atmosfera capace di conquistarmi. Perfetto da un’ottica puramente indie, il Primavera rimane solo quello: non è l’enorme villaggio vacanze FIB popolato da un incredibile zoo di umanità varia, non è un festival sanguigno e alla buona come quelli portoghesi, non è il non-luogo apocalittico e definitivo che spesso è un festival di techno. È come il quasi trentenne a cui piace di tutto un po’, inattaccabile nelle sue buone scelte, mai fuori dalle righe e spocchioso il giusto. Che se lo prendi a pezzi sei d’accordo con lui su tutto e se invece razionalizzi senti la mancanza di un brivido di vita dietro la sua anti-coolness. Il poster giusto, la gonna giusta, giustizia giusta (we are your friends, you’ll never be alone again quando tornerete nel vostro inferno quotidiano, che sia da precariato integrato del divertimento o che sia da infiltrati nell’apocalisse del lavoro tra virgolette vero). In più, mentre raccolgo i frammenti dei giorni passati, mi ritrovo con una sconfortante sensazione di mancanza di sorpresa. Mi sono divertito, ho sentito belle cose che mi mancavano, mi sono persino annoiato. Eppure la sensazione è quella di chi sa troppo di un film prima di vederlo. La colpa, peraltro, è del cartel: poteva benissimo essere quello dell’anno scorso. Pochi atti di sfida ai generi e tanto, troppo, peso del passato sulle spalle. E poco, troppo poco, indie-pop in favore della collaborazione con l’ATP che si traduce nella sequela dell’indie alternativo americano coniugato in tutte le sue salse. Ma forse mi rendo conto che a forza di fagocitare musica durante l’anno diventa difficile scoprire in occasioni come queste e in fondo singoli momenti hanno a volte risollevato un giudizio più di disillusione che negativo.
Arriviamo nel tardo pomeriggio nella nostra dimora a due fermate di metropolitana dal Forum, recuperiamo biglietti e chiavi di casa dal nostro compagno di festival e dopo un salutare doccia+ cambio d’abiti siamo pronti per iniziare la prima delle tante file dei tre giorni. File per tutto: per l’ingresso, per i braccialetti di carta imbagnabile, per l’ingresso con tessera magnetica, per i ticket beveraggi, per i cambi di ticket beveraggi (che solo dopo l’acquisto di trenta euro forfettari, ti rendi conto essere giornalieri), per l’Auditori, per il cibo, per il bere, per il bagno, persino per l’uscita alle sette di mattina. Il bilancio musicale delle prime due ore di fila si traduce nella perdita degli Herman Düne e dei Dirty Three; in compenso veniamo smazzolati per bene durante la fila per i ticket beveraggi dall’ hardcore catalano 3x2 degli Za. Con matematica rassegnazione, subiamo fino all’ora di cena. Abbiamo deciso di far coincidere il momento cena con il momento ‘mostro sacro su palco grande’: Melvins (troppo per me), Fall (ottimi ma da me poco esplorati in passato) e Patti Smith (già vista altrove e troppo in balia della sua mostrosacraggine nel rileggere la mostrosacraggine altrui). Il primo vero concerto è pertanto quello degli Slint (play Spiderland): niente più niente meno che il disco, più esecuzione che esibizione o spettacolo; eppure non si sente la puzza del pedissequo quanto la conferma che la musica quando è costruzione intellettuale necessita un simile approccio anche dal vivo per tirar fuori i significati e non piegarli all’emotività della folla. Il contrario, insomma, di quello che sarebbe capitato di lì a poco sul palco principale.
Smashing Pumpkins. A nulla sono valsi i propositi belligeranti del pomeriggio: “no, vedo solo l’inizio e poi corro da Mike Patton a vedere se canta Ciuri Ciuri con l’austriaco”, “no vado a sentire i Ghost’n’Goblins”, “no, vado in fila da qualche parte giusto perché non ne faccio una da due ore”. Partono i Goblin di Suspiria e poi un pezzo nuovo (United States) con un rullato che ti aspetti che da un secondo all’altro spunti Marylin Manson. Invece esce fuori un pezzo di adolescenza che per bisogno di attenzione riesuma il carrozzone del ricordo, vestito come nei peggiori incubi degli spettacoli serali Rai primi anni Ottanta. I Rockets, dead man singking Elvis, Ratzinger diretto da Deodato: è l’horror del ricordo e non basta urlargli “Paraculo” quando come secondo pezzo partono le prime note di Today, perché intorno qualcuno manda sms ai compagni del liceo, qualcuno si lascia convincere e rimane, qualcuno si commuove per 33. Il retrogusto però è sempre quello dell’uomo prigioniero: Corgan si fa prigioniero inconscio del suo passato per noi (oltre che per convenienza), sistema la chitarra sulle spalle a mo’ di triste e statico viandante e incarna il mito non dell’eterno ritorno, quanto del più sottile e ingannevole eterno tramonto: ormai è un uomo finito, ma non possiamo non assisterlo nel suo/nostro loop di dissolvimento.
Fujiya e Miyagi iniziano prima degli Stripes, ma qui non si hanno dubbi già da maggio dell’anno scorso. Prima fila sotto palco e partono proprio col coretto iterativo dei loro nomi. Suonano ancora più funk che su disco ed è sublime come la loro estetica e sostanza musicale nerd trattengano le briglie della fisicità dei giri di basso. Più o meno a metà urlo “Chissenefrega dei White Stripes” e di rimando dietro di me un altro italiano mi risponde “Concordo”. Il pubblico balla e si esalta fino alla fine e nonostante l’entusiasmo niente bis, causa cambio palco laborioso. L’assenza di bis è stata peraltro una costante di molti concerti, nonostante gli ampi spazi previsti tra le esibizioni soprattutto sui palchi grandi. A questo punto sta per scattare il momento ‘fritto’: più o meno alle due ogni giorno in corrispondenza dell’evento più tamarroide ci siamo riforniti di Churros, ovvero la simpatica trafila di pasta dolce fritta e ricoperta di zucchero che gli antichi dei della legna utilizzavano nel mondo pre-red bull e pre-droche sintetiche. Con le mani tutte unte pertanto ritorniamo in postazione prima che si accenda la croce dei Justice: nulla di nuovo il loro live-set coi pezzi che si infarciscono l’un l’altro, con D.A.N.C.E. e We Are Your Friends che sono la risatina del pazzo alla fine della fiera, con gli alti che friggono i timpani dei tremendamente belli intorno. Anche qui però, nonostante certe sapide pensate come il morphing del campionamento da Yocko Homo dei Devo nelle sirene di Atlantis To Interzone, sbuffo davanti alla perdita di forza del potenziale strumentale che ha avuto certa musica l’anno scorso: l’atto penitenziale del padiglione auricolare si è scoperto, almeno fino a questo momento, fine a se stesso, la salvezza non è qui, la salvezza è altrove. Seguirà il rutilante autoscontro di Girl Talk che si spoglia del suo smoking saltando sugli avambracci piantati davanti al portatile mentre Busta Rhymes si intreccia con gli Snap, mentre Fergie balla coi Pixies, mentre provo la stessa sensazione di fuori tempo massimo e/o di buono per le webzine americane legata al primo ascolto di Night Ripper. Sono le quattro e torniamo a piedi a casa per evitare la fila per la navetta, quella per il taxi e quella per il teletrasporto.
Arriviamo nel tardo pomeriggio nella nostra dimora a due fermate di metropolitana dal Forum, recuperiamo biglietti e chiavi di casa dal nostro compagno di festival e dopo un salutare doccia+ cambio d’abiti siamo pronti per iniziare la prima delle tante file dei tre giorni. File per tutto: per l’ingresso, per i braccialetti di carta imbagnabile, per l’ingresso con tessera magnetica, per i ticket beveraggi, per i cambi di ticket beveraggi (che solo dopo l’acquisto di trenta euro forfettari, ti rendi conto essere giornalieri), per l’Auditori, per il cibo, per il bere, per il bagno, persino per l’uscita alle sette di mattina. Il bilancio musicale delle prime due ore di fila si traduce nella perdita degli Herman Düne e dei Dirty Three; in compenso veniamo smazzolati per bene durante la fila per i ticket beveraggi dall’ hardcore catalano 3x2 degli Za. Con matematica rassegnazione, subiamo fino all’ora di cena. Abbiamo deciso di far coincidere il momento cena con il momento ‘mostro sacro su palco grande’: Melvins (troppo per me), Fall (ottimi ma da me poco esplorati in passato) e Patti Smith (già vista altrove e troppo in balia della sua mostrosacraggine nel rileggere la mostrosacraggine altrui). Il primo vero concerto è pertanto quello degli Slint (play Spiderland): niente più niente meno che il disco, più esecuzione che esibizione o spettacolo; eppure non si sente la puzza del pedissequo quanto la conferma che la musica quando è costruzione intellettuale necessita un simile approccio anche dal vivo per tirar fuori i significati e non piegarli all’emotività della folla. Il contrario, insomma, di quello che sarebbe capitato di lì a poco sul palco principale.
Smashing Pumpkins. A nulla sono valsi i propositi belligeranti del pomeriggio: “no, vedo solo l’inizio e poi corro da Mike Patton a vedere se canta Ciuri Ciuri con l’austriaco”, “no vado a sentire i Ghost’n’Goblins”, “no, vado in fila da qualche parte giusto perché non ne faccio una da due ore”. Partono i Goblin di Suspiria e poi un pezzo nuovo (United States) con un rullato che ti aspetti che da un secondo all’altro spunti Marylin Manson. Invece esce fuori un pezzo di adolescenza che per bisogno di attenzione riesuma il carrozzone del ricordo, vestito come nei peggiori incubi degli spettacoli serali Rai primi anni Ottanta. I Rockets, dead man singking Elvis, Ratzinger diretto da Deodato: è l’horror del ricordo e non basta urlargli “Paraculo” quando come secondo pezzo partono le prime note di Today, perché intorno qualcuno manda sms ai compagni del liceo, qualcuno si lascia convincere e rimane, qualcuno si commuove per 33. Il retrogusto però è sempre quello dell’uomo prigioniero: Corgan si fa prigioniero inconscio del suo passato per noi (oltre che per convenienza), sistema la chitarra sulle spalle a mo’ di triste e statico viandante e incarna il mito non dell’eterno ritorno, quanto del più sottile e ingannevole eterno tramonto: ormai è un uomo finito, ma non possiamo non assisterlo nel suo/nostro loop di dissolvimento.
Fujiya e Miyagi iniziano prima degli Stripes, ma qui non si hanno dubbi già da maggio dell’anno scorso. Prima fila sotto palco e partono proprio col coretto iterativo dei loro nomi. Suonano ancora più funk che su disco ed è sublime come la loro estetica e sostanza musicale nerd trattengano le briglie della fisicità dei giri di basso. Più o meno a metà urlo “Chissenefrega dei White Stripes” e di rimando dietro di me un altro italiano mi risponde “Concordo”. Il pubblico balla e si esalta fino alla fine e nonostante l’entusiasmo niente bis, causa cambio palco laborioso. L’assenza di bis è stata peraltro una costante di molti concerti, nonostante gli ampi spazi previsti tra le esibizioni soprattutto sui palchi grandi. A questo punto sta per scattare il momento ‘fritto’: più o meno alle due ogni giorno in corrispondenza dell’evento più tamarroide ci siamo riforniti di Churros, ovvero la simpatica trafila di pasta dolce fritta e ricoperta di zucchero che gli antichi dei della legna utilizzavano nel mondo pre-red bull e pre-droche sintetiche. Con le mani tutte unte pertanto ritorniamo in postazione prima che si accenda la croce dei Justice: nulla di nuovo il loro live-set coi pezzi che si infarciscono l’un l’altro, con D.A.N.C.E. e We Are Your Friends che sono la risatina del pazzo alla fine della fiera, con gli alti che friggono i timpani dei tremendamente belli intorno. Anche qui però, nonostante certe sapide pensate come il morphing del campionamento da Yocko Homo dei Devo nelle sirene di Atlantis To Interzone, sbuffo davanti alla perdita di forza del potenziale strumentale che ha avuto certa musica l’anno scorso: l’atto penitenziale del padiglione auricolare si è scoperto, almeno fino a questo momento, fine a se stesso, la salvezza non è qui, la salvezza è altrove. Seguirà il rutilante autoscontro di Girl Talk che si spoglia del suo smoking saltando sugli avambracci piantati davanti al portatile mentre Busta Rhymes si intreccia con gli Snap, mentre Fergie balla coi Pixies, mentre provo la stessa sensazione di fuori tempo massimo e/o di buono per le webzine americane legata al primo ascolto di Night Ripper. Sono le quattro e torniamo a piedi a casa per evitare la fila per la navetta, quella per il taxi e quella per il teletrasporto.
[...continua...]
5.6.07
Yesterday's, Today's and All Tomorrow's Parties
Intro* + Today (live) - The Smashing Pumpkins
(per ora alcune foto, il resto nei prossimi giorni)
*sì, Goblin usatissimi da tutti
(per ora alcune foto, il resto nei prossimi giorni)
*sì, Goblin usatissimi da tutti
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