27.6.08

Gli Aeroplane sull’aeroplano (va lontano, vola su Antweeeerp)




La compagnia aerea Vueling ha inaugurato la stagione estiva del volo Parigi-Ibiza offrendo ai passeggeri un dj-set dell’ovviamente tamarro David Guetta. A fine agosto prenderò un volo per il Belgio e partirò deluso perché la settimana prima perderò il dj-set dei miei nuovi beniamini Aeroplane: è un po’ troppo sperare che la Myair organizzi un dj-set della Eskimo?

Whispers - Aeroplane feat. Kathy Diamond

26.6.08

Sofia Coppola’s Trainspotting

Metto altri cinque dischi da inkiostro.
Andammo per ricamare melodie e tornammo con riflessioni di remake.
La scaletta della selezione, con pezzo dell’estate, è:

Two Doors Down (Duke Dumont Reconstruction) - Mystery Jets
Born Slippy (Darren Price Remix) - Underworld
We Own The Sky (Maps Remix - Frequency Doped by maxcar) - M83
Headphone Silence (Heinrich Schwarz Live Remix - Dennis Ferrer Noisy Edit) - Ane Brun
Love Love Love (Aeroplane Remix) - Low Motion Disco



18.6.08

Amici My

Da Inkiostro ci si inventa di tutto pur di postare un pezzo dei Black Devil Disco Club.

16.6.08

Oh, sunshine in an empty place and I’m braindead virtually

A fine giugno uscirà una compilation chiamata Post-Remixes Vol.1 (qui l’anteprima in streaming completo), ovvero una manciata di classici della dance anni Novanta e non (Eiffel 65, Air, Orb, Daft Punk, Wall Of Voodoo, All Seeing I) dati in pasto a gente come Perturbazione, Carnifull Trio, Julie’s Haircut, Canadians, Tre Allegri Ragazzi Morti, Mojomatics e Numero 6, con vocalist della serata Marco Mancassola. Tanti compitini ordinati ma niente che mi scuota più di tanto. Eccetto per gli Ex-Otago a cui viene in mente di incrociare The Rhythm Of The Night di Corona con Coffee & TV dei Blur, cogliendo il momento di passaggio di una generazione e strappando anche l'occhio lucido. Ora non resta che tagliare le alte frequenze per eliminare la lingua di pezza del cantante ed editare il finale, ché la chiusura a fari spenti nella notte non si può proprio sentire.

The Rhythm Of The Night - Ex-Otago

13.6.08

House of bees

Dolci. Brulicanti. Nano-tecnologiche. Le canzoni dall’alveare di Move D e Benjamin Brunn sono dei piccoli gioielli bionici di spostamento oltre i limiti del genere. Piccole ali house di titanio battono lente e sensuali quasi a cullare, più che a incitare alla danza. Il polline e le gocce d’acqua delle bottinatrici scompongono e ricolorano i raggi dell’alba. Non è ambient, ma si sogna già una veranda e il fresco delle sere d’estate. Non è techno, ma godi dell’iper-modernità di suoni e scrittura per poi scoprire che è solo l’aspetto alieno di uno zoom sulla natura sconosciuta. Entusiasmante come Isolée, ma più complesso e più romantico allo stesso tempo, Songs From The Beehive produce miele e pappa reale, dolcezza ed energia, sfuggendo alle costrizioni del tunz, della riconoscibilità pacchiana e della freddezza rigorosa, con ritmo, carattere e precisione. Non sarà democratico o umano, ma lo si ama per la bellezza e la necessità del meccanismo. In fondo, si tratta pur sempre di api.


Love The One You’re With - Move D And Benjamin Brunn

12.6.08

Il problema del cambio palco

Leggendo i racconti di chi è stato al Primavera quest’anno sembrava di stare al Lollapalooza 1994, con tanto di crescente interesse per l’hip-hop in allegato. Nessuno ci ha però raccontato il simpatico siparietto tra Alan Braxe e DJ Assault. Alan Braxe è francese ed è uno degli esponenti di punta della french house: forse vi ricorderete di lui per la collaborazione con Bangalter dei Daft Punk e Benjamin Diamond negli Stardust per il singolone Music Sounds Better With You o per i numerosi remix degli ultimi anni. DJ Assault è americano ed è un nome storico della ghetto-tech, quell’incrocio di techno ed electro fuse con tecnica hip-hop sulle quali vengono gentilmente adagiati torridi rap su tits, asses, boobs, pussy, bitch, fuck e così via. Per capirci di seguito mostriamo in foto Alan Braxe e DJ Assault.


Alan Braxe e la sua espressione più minacciosa



DJ Assault e il cerchione della ruota del suo SUV


Alan Braxe suona prima di DJ Assault. Arriva l’ora della fine del suo set, ma continua. DJ Assault richiede più volte di darci un taglio. Alan Braxe lo ignora come solo un francese è capace di fare. Passano dieci minuti e partono gli spintoni e la conseguente rissa. DJ Assault prende possesso della console e fa partire un martellone da 150 bpm con su una canzone più o meno intorno al licking pussy. Morale della favola: ai festival si invitano solo dj amici tra di loro o tedeschi.

11.6.08

Anni Novanta (dieci anni dopo)


Past Mistake - Tricky

(del perché le macchine del tempo fanno male, se Marty McFly non vi aveva convinto. meno male che nel disco Bernard Butler non suedeggia altrimenti saremmo passati alla fase liquida)

From disco(blog) to disco(blog)

Metto cinque dischi da inkiostro.
Non so se la farò diventare un abitudine.
La scaletta della selezione è:

Plonk (Dub Mix) - Redshape
Killing For Love (Todd Terje Brokeback Mix) - Jose Gonzalez
Trembler (Discodeine Mix) - Photonz
Jolly Joker (Supermayer Remix) - Alter Ego
Digital Love - Miracle Fortress



DisKoInKiostro Volume 1

6.6.08

Sunday morning in reverse

A Londra sabato per il super-ponte girano migliaia di italiani. La metà di questi indossa magliette, felpe o canottiere di uno stilista che non conosco, un certo Bruce Springsteen. La coscienza sociale dei londinesi però non si concentra su questi particolari estetici ed è attanagliata dall’entrata in vigore di un provvedimento epocale: dal Primo Giugno 2008 sarà vietato bere alcolici su autobus e metropolitana. Per il primo anno si rischierà l’allontanamento dal mezzo e tra due anni l’infrazione diventerà reato. Il provvedimento ha le sue giustificazioni, ma viene visto come l’ennesima privazione delle libertà personali. In fondo per garantire la sicurezza, si dovrebbe proibire l’ingresso a chi è in stato di ebbrezza, altrimenti è soltanto una questione di apparenza. Io più che altro non avrei pensato a salire in metro con una birra, ma questi sono altri discorsi. Un po’ per protesta, un po’ per salutare la fine del libero alcool in libera stazione, è stata organizzata The Last Booze Tube Party, ovvero una festa alcolica di massa sulla Circle Line. Sul presto abbiamo fatto appena in tempo ad assaporare l’inizio perché poi qualche intoppo ha provocato la chiusura della linea e della Liverpool Station dove si sarebbero poi concentrati tutti. Dopo un sano fish’n’chips ci armiamo di due birre e contribuiamo anche noi simbolicamente solcando il tragitto con la linea Rosa. L’evento ha il sapore del carnevale e molti gruppi scelgono la chiave di lettura del Proibizionismo e degli anni 30 vestendosi con gessati ultra-spallina, abiti da Cabaret e cerchietti con la piuma, bevendo champagne o vino da bicchieri di cristallo. Il modello prevalente è certo quello dei ragazzini+tanta birra, ma c’è chi si presenta vestito per un pigiama party, chi indossa i manifesti che ammoniscono riguardo al provvedimento e chi sceglie un look vampiresco. La nostra inviata a Liverpool Station, che ha scritto qualcosa più giù nei commenti al primo post, ha continuato la festa mentre noi alle undici eravamo già a dormire, assegnando il momento evento perso della serata a Mark Moore degli S-Express allo Unit 7.

Alle undici dormiamo perché abbiamo in mente una cosa fighissima (mentre lo scrivo, penso che qualcuno ha molta pazienza a sopportarmi). Al Fabric suona il dj svizzero-cileno Luciano, ma prima di lui ci sono Shinedoe e Pedro che non sono esattamente il massimo dei miei desideri e nelle altre due sale oltre ai Model 500 già visti non è che ci sia niente degno di nota. In più Luciano comincerà a suonare molto tardi ed è verosimile che sfori nella mattinata. La mandrakata è insomma questa: sveglia alle quattro e per le cinque ci si presenta freschi come roselline di campo alla porta del Fabric e si entra senza fila e con prezzo ridotto. Prezzo ridotto perché con l’adesione inglese al modello di party senza fine tedesco-ibizenco, per ripagare i costi aggiuntivi di struttura e personale sono stati introdotti gli ingressi dopo le quattro (8 sterline) e dopo le cinque (5 sterline). Molti inglesi stanno uscendo, ma il programma appeso al muro recita chiaro che Luciano suona dalle cinque alle otto e mezza. Pieno successo. Dicevo delle roselline di campo. Ora, noi saremmo arrivati freschi e riposati, ma una cosa che non avevamo considerato è l’ODORE DEL FABRIC DOPO LE CINQUE DI MATTINA. Apocalypse ora. Sulla pista principale sovraffollata la condizione sudorifera di molti elementi rendeva proibitiva la respirazione. Se poi ci aggiungiamo che Luciano comincia subito a lanciare i canti popolari sulle percussioni facendo sollevare le braccia al cielo, immaginate un po’ voi.

Luciano viene da un inizio anno poco convincente, segnato da un repertorio poco variabile misto ad alcuni sconfinamenti in ambito house poco apprezzati dai puristi. Pure il suo futuro cd per il Fabric nei pezzi scelti sembra non dire niente di nuovo e al massimo si spera in qualche sorpresa in come mixerà il materiale. Questa mattina invece parte subito piacione quando dopo una interessante serie percussiva ricorre subito al giochetto della voce popolare sulla minimale: una volta culmine di ore e ore di set, ora diventa parte consistente e ripetuta. Dalla diva-house alla passio-minimal. Mi guardo intorno e mi rendo a conto che a poco a poco il posto si è riempito di ispano-americani. Gli inglesi provati dalle loro bevute abbandonano il campo a chi si è svegliato alla stessa nostra ora. Il set (laptop + controller + giradischi) continua incentrato sulle percussioni, su questi bonghetti, conga, maracas, triangoli, frasche, legni che intersecano ritmi a più velocità e tempi. Ballare sobri al risveglio tonifica come una seduta di ginnastica aerobica. Per gradi si passa a suoni più elettronici e cogliamo l’occasione per guadarci un po’ intorno e meravigliarsi del recupero continuo di bicchieri da terra, dei super-efficienti bagni e della prontezza e discrezione con cui il servizio d’ordine ‘sposta’ fuori chi si accende la dannata sigaretta (eh sì, la cosa bella di Londra è stata tornare ogni sera a casa coi capelli che non puzzavano, cosa che ormai non possiamo più aspettarci dai nostri amici incivili). Dopo un po’ di ballo alle spalle della console sfruttando i monitor, la partenza di Rez degli Underworld mi trasforma in Speedy Gonzales e riguadagnamo il centro della pista dove rimembro i muri tremanti della casa natia. Qualche altro pezzo in ambito tech-deep (appunto Get Deep di DJ Le Roi e Roland Clarke) conduce verso la seconda sezione di “Come rendere meno noiosa la minimale con cantanti delle mamme, un pezzo nuovo dei Los Updates, un sassofono jazz, chitarre, una ritmica quasi rock e un pezzo strumentale greco (Gia Tous Anthropous Pou Agapo di tale Yiorgos Mangas)”. È un po’ il discorso della sovversione dei tempi e dei generi della serata di ieri, eppure mi sa di espediente per cercare di rivitalizzare una scena dal fiato ormai corto. Poi è divertente certo, ma buttandola sul piano tecnico non si possono sentire a ogni cambio disco sempre gli stessi due preset di Ableton toglifrequenze/inseriscistrati. Molto meglio quando gioca sottilmente con le sinapsi dei drogati inserendo elementi asincroni o quando fa a meno per minuti della cassa, che riparte sempre, ma ogni volta con una particolarità diversa (cambio tempo, start-stop, sincopi, shift). Quando si ritorna sui lidi minimali mi accorgo che è affiancato da Pedro e il tutto prende una piega un po’ oscura e noiosa.

Sono ormai le otto e riemergono i campioni vocali della prima ora (ma cos’è, un altro trucchetto per mandare in loop la testa dei drogati?) con un’atmosfera che diventa sempre più eterea con lo svuotarsi goccia a goccia della pista. I controller ogni tanto si inceppano come a volte mi è capitato di sentire sui set in rete, dovrebbe cambiarli. L’organo in riverbero potrebbe essere quello di In Church degli M83 che spesso usa, ma potrei essermelo sognato. Penso che sia la rincorsa verso il finale, ma superiamo ampiamente le otto e mezza e lui è chiaramente preso bene. Intanto cominciano ad arrivare tipologie poco da Fabric e molto da ATP Festival. La musica prende una piega da balera tecnologica molto divertente ed ormai da un’ora lui continua a stringere mani, abbracciarsi, complimentarsi con Pedro, salutare e infilare un pezzo da finale dopo l’altro. Solo che noi siamo abbastanza soddisfatti delle quattro ore di danza ed abbiamo un appuntamento per una colazione all’inglese (sonno, poi danza, poi uova fritte bacon salsiccia e fagioli, non fa una piega) e tutto questo potrebbe continuare fino alle undici. Divertente, ma vittima di quello che lui e Ricardo si stanno creando intorno. Così andiamo via. All’uscita mi danno una riduzione per andare a sentire Martin Buttrich al The End in serata, ma io passo, anche se non mi ero mai sentito così riposato e pimpante dopo un dj-set. Un giro a Spitalfields, una toccata alla Tate (“Questi hanno appeso i quadri come li appende mia zia”), una birra in un pub semideserto di Camden dato che Lykke Li ed El Perro del Mar hanno annullato e poi il giorno dopo si ritorna dal paese delle meraviglie.



Rez - Underworld
Mixing M83 In Church over percussions @ Belgrade - Luciano

5.6.08

A Dissident is here

Il secondo giorno di super-ponte si apre con una scelta sofferta. Ai Corsica Studios, circondato da gente a me sconosciuta, suona il produttore mascherato del momento (È un alieno? Un’astronave? È Carl Craig? No, è Redshape). Lo si sacrifica, nella speranza di incrociarlo presto, con la dichiarata missione di toccare dal vivo il fenomeno Dissident. Nata l’anno scorso per mano di Andy Blake, la Dissident si è già creata una solida reputazione con le sue uscite che esplorano quello spazio indefinito tra l’italo e cosmic disco, disco-punk e techno. Vinili a singola traccia, con copertina che si differenzia solo per il nome e il relativo carattere dell’artista e del titolo, tirature iniziali limitate a 100 copie (ora salite a 200) e un approccio alla promozione quasi scostante – non esiste nemmeno il myspace dell’etichetta, per dire. Fatto sta che la Dissident viene adottata come etichetta di culto del sottobosco londinese della rinascita disco, l’equivalente di quello che nei paesi scandinavi gravita intorno alle figure di Lindstrom, Prins Thomas e Todd Terje e che in Francia ruota attorno al collettivo del DIRTY Soundsystem di Pilooski e soci. Persino la DFA si è spostata gradualmente lungo lidi più disco e pare che la notizia sia che lo sbarco sul mercato statunitense di Dissident avverrà proprio tramite i canali della DFA. È notizia di questi giorni poi della prima raccolta dissidente (eccezionalmente su cd ed eccezionalmente in 1000 copie). Insomma, prima che la bolla esploda (cfr. il portato commerciale di cui sono capaci Hercules o il Pilooski Edit di Beggin’) o prima che l’hype si sgonfi noi siamo andati a una serata Dissident/Discobox/Futurismo. In un pub di Hackney.

L’anno scorso eravamo stati testimoni della movida di Hoxton/Shoreditch, ma la crescita dell’aura modaiola ha portato con sé maggiori costi e più difficoltà per gli organizzatori. Così in molti, come testimoniano queste interviste su Fader, si sono spostati verso i territori di Dalston e Hackney. “La gente dai gusti musicali avventurosi in fondo sa spingersi in posti avventurosi” e così alcuni basement e pub sono stati adottati dalla scena, attingendo tra l’altro alla numerosa popolazione giovanile che abita da quelle parti. In particolare la serata in questione si svolge attorno al Dolphin, pub dalla licenza estesa su Mare Street. Che sarebbe la strada che parte dalla fermata di metropolitana di Bethnal Green: qualche fermata di autobus e siamo a posto. Io però mi convinco che la strada non sia quella ma una parallela, adocchio un tizio sull’autobus con un borsone che potrebbe contenere vinili e cd e decido che dobbiamo seguirlo per arrivare a destinazione. Quando scende, noi scendiamo. Lui volta per la traversa e noi dietro. Si gira e ci nota. Affretta il passo e si rigira, spaventato. Entra presto dentro casa sua, probabilmente per farsi venire un attacco di cuore. Quello non era un dj, e io e le due compagne di inseguimento non eravamo certo così minacciosi. È il quartiere che è spettrale, anzichenò. Fatto sta che sembra svanire la possibilità dell’ingresso gratuito prima delle undici. Quando arriviamo alle undici e dieci e l’omone della security all’ingresso ci chiede il pagamento dell’ingresso, io comincio con il mio solito piagnucolio stronca-buttafuori (sono solo cinque minuti, non siamo di Londra, il tipo ci ha messo fuori strada). Rimediamo un tre al prezzo di due che è un bonus rispetto alla visione della mia scenetta.

Dentro c’è ancora il vuoto. Il Dolphin è un pub all’irlandese di una certà età con un modesto slargo davanti a un lato del bancone dove immagino si potrà ballare. C’è anche un biliardo e un beer-garden esterno. La musica è già all’opera morbida. Decido di resistere alla tentazione di contatto con i tipi e consumo una Guinness mentre il suono cosmico arpeggia che è un piacere. Via via che la battuta cresce arriva un’insieme di persone non categorizzabile. Arrivano le ventenni vestite come nei film di Doris Day, arrivano i ragazzi inglesotti che probabilmente abitano da quelle parti, arriva gente di mezza età cresciuta in quel pub e a un certo punto, mentre la selezione diventa un labirinto in cui non si capisce più cosa è stato prodotto questa settimana e cosa venticinque anni fa, cosa sia edit e cosa sia extended, il pubblico diventa sempre più visionario: un gruppetto coi baffi a maniglia accompagnato da altissime bellissime e biondissime, una sosia italiana di Amy Winehouse con due amiche vestite in maniera simile impegnate con un fotografo in un photoset sui divanetti, un cinquantenne loro amico che mi è sembrato la cosa più simile a un incrocio tra uno zombie e un frequentatore di casa Andy Warhol. Uno dei tizi col baffo a maniglia balla la musica a velocità doppia tenendo fermo il busto e oscillando solo le estremità inferiori e superiori. La fidanzata altissima biondissima bellissima è ferma davanti a lui e cerca di non guardarlo. È l’unica ferma mentre ormai la selezione ha preso una spudorata piega disco e tutti interagiscono con tutti, sorridendo con soddisfazione. Da noi questo succederebbe solo con i soliti Village People e soci, ma qui il piacere è di farlo con pezzi che sembri di conoscere e in realtà non conosci (e viceversa). Forse è anche questo uno dei sensi di questo recupero, insieme all’esplorazione delle nuove possibilità del genere: l’idea che quella sensazione correntemente ottenuta dal nastrone di Capodanno, possa essere provocata da scelte meno collaudate, dalla comunicazione tra i generi e i tempi, dalla filologia e dal suo contemporaneo sovvertimento. Mentre fumi di Detroit iniziavano a contaminare il ritmo ancora crescente, usciamo fuori insieme alla sosia, al baffo, alle Doris Day, al ragazzetto di quartiere e prendiamo la strada di casa. Presto questo pub sarà abbandonato in favore di qualche locale più accogliente a Dalston, così sembra dalle interviste. Le scene crescono, i quartieri spettrali diventano fighi, ma ci sarà sempre qualche altro posto in cui essere avventurosi.

Ps per nerd: FM Synth is the way


Zombie Raffle - Ali Renault
Bursting The Bubble - Gatto Fritto
We're Back - Heartbreak

4.6.08

Strano pareggio

Vorrei tanto cominciare il racconto del super-ponte a Londra, incerto fino all’ultimo, facendovi come al solito scuotere la testa. Mi sarebbe piaciuto tantissimo il concerto di quel piccolo gruppo pupazzoso dei Boy Least Likely To al posto dei Silver Jews, ma i BLLT sono stati annullati. Anche per questo mese non avrò ricadute twee. Avrei desiderato provare l’ebbrezza del secret show dei Mistery Jets con relativa interminabile fila e una ventina di minuti di durata al posto dei Silver Jews, ma non avendo contatti presso l’azienda produttrice di sidro che organizzava la cosa, lo show è rimasto – come dire – secret. A questo punto la scelta del concerto dei Silver Jews all’ULU sembrava inevitabile, ma continuavo a essere vagamente restio: un bagarino vendeva biglietti davanti alla fila e io “ecco, tutto esaurito, andiamo a valutare l’opera di irrigidimento del Millenium Bridge in condizione di pioggia leggera”. Io, per un po’ di tempo li ho anche sentiti e apprezzati, i Silver Jews, ma non so spiegare tanta ritrosia. Comunque i biglietti c’erano e siamo entrati così presto che sulla lista degli artisti a quell’ora c’era scritto ‘Doors’ e dal palco non si sentiva certo Light My Fire.

L’ULU sarebbe l’Unione degli studenti dell’Università di Londra. È un posto fichissimo di quelli che ti fa chiedere se ci sia qualcosa di simile in un’università seria italiana: un palco enorme da teatro, una buona acustica, tre bar, di cui uno con terrazza e una bella atmosfera senza troppe pose, fighetterie o punkabbestialità di ritorno. Non si capisce però perché sulle pareti siano appese a un metro di distanza tra di loro decine e decine di foglietti che avvisano riguardo l’uso continuo di “strobe light” che sarà fatto durante la serata. Non si capisce soprattutto dopo l’inizio del live del primo gruppo spalla, i Port O’Brien: capitanati dal sosia obeso di Kurt Cobain, bivaccano sulle ceneri della tristezza adolescenziale americana dei primi anni Novanta. Non che siano fastidiosi, ma sono più che indifferente. Altra storia sono i successivi Monotonix: brutti sporchi e cattivi, potrebbero essere noiosi quanto il loro hard-rock e invece montano su uno spettacolino a base di lanci continui di birra, strumenti che vagano tra il pubblico, salite e salti dai parapetti e un cantante più vecchio pazzo che sciamano che si denuda via via e quando tutti pensano che avesse già dato il meglio mostrando le chiappe, si toglie i calzini e se li ficca in bocca, continuando a cantare. Strappano più di una risata, ma vale più che altro l’effetto sorpresa. David Berman dei Silver Jews se li porta appresso da quando gli fecero da supporto nella loro Tel Aviv, suppongo per creare un forte momento di stacco tra spalla e inizio della loro esibizione. Durante il cambio strumenti chiedo a Valido se abbia voglia di scrivere qui qualche racconto sulla scena techno e disco in quel di Londra, ma lui diniega gentile e probabilmente con una citazione degli Scorpions che non colgo.




Presentati dal vecchio pazzo, i Silver Jews iniziano con la vecchia Random Rules. La perfezione viene curata, sin dal 1984. David Berman ha l’eleganza di un Jarvis Cocker nato e invecchiato per sbaglio in Tennessee. Sembra anche un po’ un Antonello Venditti indie: pensateci, una faccia simile, canzoni generazionali, personaggi, volemose bene, i giovani che lo citano di continuo nelle loro canzoni e nei titoli dei loro gruppi. Sembra un po' Enver, anche. Cullato dalla matematica alternanza tra pezzi vecchi e nuovi e dalla celebrazione dell’amore coniugale sul palco, vengo riportato alla realtà dalla pressione del folto pubblico. I Silver Jews conquistano applausi via via crescenti e io sento il bisogno di una sedia a dondolo e di una veranda che non arriverano certo in allegato al bis. Vi chiederete se almeno loro abbiano usato le luci strobo. La risposta è no, ma oggi ho scoperto che la sera prima all’ULU avevano suonato i Booka Shade.






Per chiudere in bellezza, saremmo andati a ballare, visto che le serate di venerdì e sabato erano a rischio. Scartati Jennifer Cardini e Danton Eproom al T-Bar, la scelta più soft era tra la serata della Innervisions al Plastic People o quella di beneficenza per War Child allo Scala con Punks Jump Up, Filthy Dukes e un dj set aggiunto all’ultimo minuto degli Hot Chip dopo i concerti di Autokratz, Kid Harpoon, Rumble Strips e Does It Offend You Yeah?. Dato che Dixon della Innervisions si è fatto male con la bicicletta, preferiamo lo Scala ai soli Âme. Il tipo della security all’ingresso non ci ha convinto abbastanza dicendoci che in un’ora avrebbero chiuso: con un’ora di ballo saremmo stati persino più freschi per il nostro mestiere da turisti alla mattina. Dentro scopriamo invece l’ineluttabile: l’ora finale sarà occupata dal concerto dei Does It Offend You Yeah, finora evitati con maestria dal sottoscritto. I dj-set in realtà erano due o tre dischi suonati tra un gruppo e l’altro. Il dramma. Il mischione tra qualche beat electro inoffensivo, chitarroni, urla e voci filtrate eccita un pubblico composto esclusivamente da diciottenni maschi ubriachi. Praticamente l’inferno sulla terra. Seguo così il tutto annoiato dalla balconata nella posizione che al Rolling Stone di Milano occupano di solito i matusa. L’unico divertimento è un roadie-buttafuori hooligan di mezza età che scaccia dal palco i giovani, asciuga gli strumenti e il palco con carta igienica e risolleva il cantante quando si butta per terra. Secondo me con quella carta igienica voleva dirci qualcosa. Alla fine accendono le luci ed è chiaro quello che avevamo vagamente intuito prima. Non resta che prendere un taxi e dirigersi verso la camera accanto alla cucina del ristorante indiano e verso un meritato riposo tandoori.



Random Rules - Silver Jews
Strange Victory, Strange Defeat - Silver Jews

3.6.08

Wait until tomorrow and there’s still some way

Sopravvivere ad un albergo annesso a un ristorante indiano non è stato facile, ma da domani su queste pagine leggerete di mostri sacri indie dalla polverosa eleganza, di terrificanti gruppi per ragazzini, delle sfavillanti notti della nuova disco-music nei pub scassati della periferia est, della più grande festa di protesta della nostra generazione e di un inconsueto risveglio alla domenica mattina. E come l'anno scorso (+ antefatto indie), sul Tamigi col pattino. Boris Johnson sei già la nostra piccola Moratti (te piacerebbe essere la Thatcher, eh).