5.11.09

Riccardi (se non si è capito: il Movement Festival – Parte Terza)

Il sito dice che chi deve entrare alla White Room dove suoneranno Mike Huckaby, Ricardo Villalobos e Danny Fiddo deve utilizzare l’ingresso da Via Filadelfia. Mannaggia a me e a quando li ho presi alla lettera. La serata precedente mi avrebbe dovuto convincere che Mike Huckaby non avrebbe iniziato prima delle undici e invece devo aspettare un’ora e mezzo al retro ingresso mentre arrivano accompagnati dai SUV dei genitori i ragazzini MPZ - non mi chiedete di spiegare cosa siano perché non lo so. So solo che i ragazzini MPZ hanno precedenza all’ingresso e quindi attendo ulteriori dieci minuti in una fila mentre non entra nessuno. Poi entro e mi mettono un timbro totalmente inutile che credo serva per stare dal lato MPZ coi quindicenni. Il tempo di capire che il posto con gli MPZ non può ospitare Mr S Y N T H e faccio il giro del palazzetto per cercare la sala bianca dato che tutti i buttafuori non hanno idea di dove si trovino (Io: la White Room? Buttafuori: la White Cube Gallery?). Nella sala principale un quindicenne pallettato mi si rivolge con il tono con cui si rivolge ad un anziano:

RP: Ti piace la musica elettronica, bravo!
Me:
RP: A me piace più la trance
Me (tentato dal rispondere: bravo!): Come Tiësto
RP: No, Tiësto è troppo... (non fa in tempo a dire l'aggettivo, viene trascinato via da suoi simili)

Capisco insomma che la White Room era quella senza nessuno che mi era stata indicata come Red Room. C’è un foglio di carta a indicarlo ma soprattutto Mike Huckaby che passa Subzero davanti al nulla. Mi posiziono davanti alla transenna e ondeggio religioso sui technoni con le melodie sepolte di riverberi, insieme duri e morbidi come la sua figura di omaccione bonario. La gente comincia ad arrivare e scorgo tra i classici My Life With The Wave e qualche S Y N T H remix. Quando arriva l’orario si comincia a sentire la tensione. Dietro il retro del palazzetto si è quasi riempito e appare la sagoma del folletto cileno. Cominciano le urla e tra posizionamento dei dischi, attacco cuffia, ritorni nel retro palco etc, Mike Huckaby gestisce con umiltà una folla che è tutta per un’altra persona, senza quasi sollevare lo sguardo. Quando Villalobos gira la prima manopola è un’ovazione e con la stessa umiltà Huckaby comincia a riporre i vinili nella borsa senza sollevare lo sguardo, serio. Mentre scende dal palco fa un cenno a Villalobos, che saluta con una cortesia che non trasuda grandi rapporti.





Villalobos ha i fan con le bandiere del Cile col disegno della sua faccia, i ragazzini con le magliette autoprodotte, i tamarroni, la gentaglia del retro palco, quelli che conoscono solo il nome e lo urlano per attirare l’attenzione e lui non si volta, gli hipster, i quarantenni che hanno letto di lui nei giornali, i fotografi sessantenni e insomma tutti. Si muove con fare da star trattenuta, sfiorando quasi i cursori. Il suo inizio ha il sapore di una tech house contenutissima e la prima sferzata su percussioni che potrebbero benissimo appartenere a Ramadanmann o a Shackleton avviene su Orbit 1.3 (bassone sventrante, percussioni ultrafunk, voce dispersa nello spazio) di Second Hand Satellites. Sul pezzo successivo c’è un silenzio che in altri casi sarebbe sembrato interminabile (quaranta secondi, lui si aggiusta la maglietta a maniche lunghe sotto la t-shirt della Peacefrog Records, poi i pantaloni, poi beve un sorso dal bicchiere) e invece di rumoreggiare la folla si comprime finché il pezzo non riparte e si riespande. Dopo questa prima parte, passando per qualche recente Oslo ci si sposta un suono leggermente più techno fino a quando prende una copertina rossa e le urla esplodono prima ancora che metta il vinile sul piatto: Spastik. L’aveva già fatto Luciano il giorno prima, ma sarà il luogo più raccolto, sarà come c’è arrivato, sarà che il settanta percento delle persone stava per abbandonarlo per andare da Rici, sembra come quando parte la raffica di fuochi d’artificio della festa della santa al paese. Sulla trivella fa partire il sample di Don’t Stop dalla white di Da Booty Tribute contestualizzandolo con un beat techno al posto di quello house del disco. Da questo punto in poi il set si sposta su un fantastico incrocio di synth pop anni ottanta (voci sintetiche, casio ritmiche da quattro soldi, tastierine pop) e i suoi soliti funkettonismi di bassi, percussioni in divagazione libera. Gli viene consegnata la bandiera, ma capisco che si trova poco a suo agio con le bandiere o forse con una bandiera nel nome del quale tanti mali sono stati causati. Nel frattempo mentre la maggior parte dei presenti lo abbandona per l’altro Riccardo, arriva a bordo campo Danny Fiddo e i due cominciano un dialogo a gesti del tipo Villalobos: guarda ora come reagiscono a questo, Fiddo: sei proprio un diavolo. Il sinner in me fa capolino per appena un minuto e quando ormai saremmo rimasti in trenta parte una coda a suo modo soulful (prima con qualche piru piru poi addirittura con qualche vocalizzo). È il gran finale per un set che pur facendo uso di robe attuali (non voglio dire modaiole) e classici ha sfuggito le ovvietà, i tormentoni e l’inutile violenza. Pur muovendosi flemmaticamente e pur non avendo quasi intaccato la bottiglia di vodka sulla consolle, è arrivato col capello phonato e tutto asciutto e ha terminato sconvolto come nelle migliori foto.





Danny Fiddo parte con una roba sirenica abbastanza noiosa e allora pur sapendo che niente di buono mi avrebbe aspettato dall’altra parte e avrei letto tutto su twitter, sono andato (così come Villalobos che contemporaneamente è salito sul palco a stringergli la mano). Nella bolgia Hawtin lanciava una bordata di-sperata dopo l’altra. Venti minuti di morte nel cuore con visual nettissimi e il solito immaginario Riefensthal rapita dagli alieni mi sono bastati e allora sono tornato verso Danny Fiddo. Peccato che non c’era più nessuno e dopo appena mezzora il valenciano riponeva controller, portatile, scheda audio e vinili nella borsa. Tornavo indietro e mi mischiavo alla riduzione cellulare. Zucche di halloween lisergiche, l’urlo di Munch, evviva il luogo comune. Bisogna aspettare i due minuti di inciso senza la voce di Dave Gahan del Pump Remix di Personal Jesus per avere un minimo di sussulto. Poi di nuovo la noia. Tutti sono contenti perché tutti hanno ciò che si aspettano. Meno di zero. La mancanza di senso di tutto ciò raggiunge il culmine mentre sulle non-note di Alva Noto parte Yeke Yeke e l’esplosione finale e collettiva dei sopravvissuti. Un ultimo pezzo totalmente dissociato dal resto, senza un minimo di senso, anche se ha il sapore del dolcetto regalato ai ragazzini da mettere alla porta. Luci accese, applausoni, lui con la bandiera del Canada, blame Canada, but don’t forget the robot, ultimò ultimò. L’ultimò ultimò sono quaranta secondi di Who’s Afraid Of Detroit e almeno nonostante il mal di reni dei tre giorni all’inpiedi torno a casa contento (perché onestamente per prendere minimamente in considerazione l’afterhour con il djset di Dubfire dalle nove di mattina avrei dovuto a) aver dormito più di quanto ho dormito nei tre giorni b) aver avuto interesse alla tamarraggine di Dubfire c) scansare il pacco di flyer di cartone duro a forma di gorilla che pubblicizzava l’after che mi è caduto sul naso durante il set di Villalobos procurandomi una ferita tuttora visibile).






Wavetable No.9 - Mike Huckaby
Orbit 1.3 - Second Hand Satellites

2 commenti:

Belguglielmo ha detto...

Posso dirlo? Posso? Villalobos è la corrazzata Potemkin!

maxcar ha detto...

ma come, è stato il migliore del festivallo. altro che la corazzata fabricca