30.11.04

Vocali, consonanti e altre cose che non ho capito


Ho imparato a leggere il cirillico: la C è la S, la H è la N, la N al contrario è la I, la Y è la U, la B è la V, la P è la R e la R al contrario è una IA, la O è la A ma solo se non è accentata, la D è una casetta, scrivono la M capovolta ma è la SH e la X con una I in mezzo è la J. Poi usano il 3 come Z, sostituiscono il CH con il K come negli sms e hanno dei bemolle che ti fanno sputare un polmone dopo la vocale.

Io e i grandi russi


Quella che inizia con “Io e Puskin” poteva essere una grande rubrica ma su “Io e Gogol” sono scoppiato a ridere perché sembrava la statua di Paolo Crepet. (mi fido che in foto ci sia davvero Puskin, me l’ha detto il mio collega).



Windows in the sky (non abilitare le macro)


Il mio collega macrobiotico mi ha insegnato le tre leggi fondamentali della macrobiotica, che ora vado ad elencare.

1. La prima legge della macrobiotica è che non esistono leggi della macrobiotica.

2. La seconda legge della macrobiotica dice che se desideri qualcosa, quella cosa non ti fa male.

3. La terza e ultima legge della macrobiotica dice che esistono cibi yin e cibi yang. Quelli yin tirano su, quelli yang tirano giù. Devi trovare il giusto equilibrio tra i due.

Desideroso di mettermi all’opera come novello macrobiotico analizzo la cena di stasera: la fetta di maiale in padella è yang (anche se per la pancia sarà yin/yang); la birra che bevo è yin (ma anche un po’ yang visto che è la Botchka); l’insalata del minimarket russo è yang (ma anche un po’ yin visto che i resti del mese scorso con cui è preparata ormai hanno le ali); il caffè alla fine è yin (ma anche un po’ yang visto che è atterrato con me all’aeroporto). Un equilibrio perfetto. Se volete, sono disponibile per consulenze.

Troppe zuppe


I resti spartani della ricerca e sviluppo applicata al dominio del mondo accolgono la mattina sottoforma di portiere sovrappeso vestite con tailleur di mimetica azzurra. Ogni giorno all’ingresso c’è qualcuno che ci aspetta, ma le donnone controllano i nostri nomi sul solito foglio. È la prassi, in teoria, e la ripetiamo quattro volte al giorno. Il nostro referente principale è uno dei direttori ed è una via di mezzo tra una versione invecchiata di Morelli, lo psicologo di Costanzo, e una spia del cheghebé. Geghegeghegeghegé. Il nostro referente principale indossa sempre il dolcevita sotto la giacca come Putin, parla bene inglese ed è il più furbo di tutti i russi che popolano il luogo. Il referente ha qualche problema col mio nome e mi ha chiesto se va bene per me essere chiamato alla russa, Maxim.
Ogni giorno andiamo a pranzo io, il collega macrobiotico e il referente. Abbiamo un tavolo che ci viene sempre riservato in una delle salette del caffè della Biblioteca di Lettere. Anche all’università noi di Ingegneria Elettronica stavamo accanto a Lettere e Filosofia/DAMS: ormai sospetto una strategia occulta. Il caffè funziona come un self-service ma nel nostro caso con un sovrapprezzo legato alla prenotazione veniamo serviti al tavolo. Farei volentieri a meno di questo, ma è la prassi. In teoria.
Da quando sono qui ho deciso che mangio russo. O meglio, l’avevo deciso, ma a pranzo sono obbligato e a cena non seguo il proposito (favolose pennette biologiche con sugo semplice cucinate dal collega macrobiotico: un remake ecocompanatico del vanziniano Vacanze In America). I russi mangiano le zuppe e le accompagnano con pane nero. Bevono succo di mela o di pomodoro. Usano la pasta e il riso scondito come contorno e in questo caffè chiamano i piatti di carne di maiale in maniera folcloristica: il pork à la suisse è quello al formaggio, quello à la sicilienne è quello con melanzane, quello à la spanish è quello al pomodoro e cremina di cetrioli. Io sono l’unico che chiede il caffè alla fine e un po’ mi piace pur nella sua scialaquatura. Alla fine il referente si alza e paga il conto per tutti, in modo da non intralciare la kacca con complicate divisioni che avverranno poco dopo nell’ingresso della Biblioteca.

29.11.04

Almanacco del giorno dopo


Dobr’din.
In Russia fa freddo solo dopo pranzo. Il sole sorge alle 9 e i russi non cominciano a lavorare prima delle 10 (figo, faranno tutti le ore piccole. Tutti tranne noi). Il sole tramonta verso le 16. Alle 17 interrompono per il thè. Finito il thè se ne vanno a casa. I russi hanno orari strani per i concerti rock (cominciano alle 19) e gli uomini vanno matti per le scarpe con la punta rivolta verso l’alto. In Russia molti detersivi hanno gli stessi nomi dei nostri.




Smile! /2


Ho l’impressione che qui sorridano poco. Per strada gli uomini sono perennemente imbronciati, mentre le donne hanno un’aria rassegnata. Di rado incrocio qualche ragazzo o qualche ragazza che ridono. Ma nessuno va in giro con un sorriso vero stampato sulla faccia. E allora lo faccio io, sperando che a qualcuno possa far bene il mio sorriso ebete.

Smile! /1 - Ma si può alla tua età?


Ogni volta che sto per pagare qualcosa mi viene da ridere.



When you got to St Petersburg


Arrivo a San Pietroburgo (dorainpoi SP, chevvuoldì) sulle onde della più bieca demenzialità, cantando in mente la canzone di San Francisco sostituendo al momento opportuno SP e chiedendomi se a San Pietroburgo c’è il Papaburgo. Devono essere gli effetti della carne cruda dell’Alitalia + visione di Starsky e Hutch sulla nuca del passeggero innanzi a me. Saltando qualche scena di quelle troppo viste nei film (per esempio il nostro eroe che supera i controlli dei minacciosi militari all’atterraggio), mi accorgo per la prima volta di essere arrivato in Russia quando chi mi accompagna spegne più volte la macchina durante le pause dovute al traffico.
Il palazzo dove abito ha delle scale che sembrano prese in prestito dal Bronx, ma l’accogliente bilocale mi riserva una vera camera russa con tanto di icone della Madonna di Kazan a lato del letto e una spacchiosa sega elettrica nell’armadio. Il padrone di casa continua a parlarci in russo anche se io e il mio collega non capiamo una cippa. Il mio collega in realtà sa qualcosa di russo (è qui da quasi un anno) ma il tizio forse ricorre a un complicato dialetto sanpietroburghese letto al contrario. Il mio collega è un fisico macrobiotico maniaco delle spugnette, non assume latte e derivati, spezie piccanti, carne di maiale e di vitello, bibite gasate, cocaina, zucchero, cioccolata (ma a volte sì), caffè, alcool e se ne sta lì nel suo angolino, placido e ingobbito sulla sua tisana. Dopo circa dieci secondi ho idea che a meno di avventurarmi da solo in giro per la città, non uscirò mai di sera.
Noi comunque siamo sulla Vassilievsky Ostrov fino a venerdì pomeriggio e io ho persino un posto letto vacante in camera. Per cui se volete passare a trovarmi (soprattutto se sapete mettere in moto la sega elettrica per fare a pezzi il collega), potrete riconoscere casa nostra dalla scia di Rosa Canina messa a guardia del portone.


Sta per arrivare




23.11.04

L’ultima nevicata dell’anno


Cause someday I’ll be stuffed in a museum scaring little kids

Arrivederci

Si scrivono parole e poi cambia tutto. Scrivo che un disco (non) mi piace ma poi succede qualcosa e butto tutto via. Sono circondato da cestini pieni, da file di testo appallottolati, da pensieri invecchiati male in due ore. Sono una SIM piena di bozze. E poco prima di ricevere l’avviso del nuovo viaggio desideravo il contrario, ma non era quello che volevo. Il cestino oggi è qui e butto via quel post.


The sound of settling


Ho bisogno di righe orizzontali. Anche su una maglietta, vanno comunque bene. Sul tasto dei videoregistratori le due righe sono verticali, ma solo perché sono perpendicolari allo scorrimento del nastro. Ho bisogno di istanti superflui in cui non si fanno progressi.


22.11.04

Altrove (o di un concerto che si rimpiangerà)


"But I," said the bachelor to the bride,
"Am not waiting for tonight.
No, I.
I will cover my ears
And take my tears
And leave me, leave me here
Stripped bare."


(via Red Rocket Five)



To beat the iron while it’s cold


Se fossi un discografico in vena di far soldi direi che questo è il momento buono per far riuscire in Italia video e singolo di Sudden Rush di Erlend Oye.



Le mie cose hanno i nomi


Vi presento Enrico. Il mio cappello fico.




17.11.04

The sound of music


Negli scorsi giorni Inkiostro e Il blog della domenica si sono interrogati sulle modalità di descrizione della musica. Da ciò è ritornato il dibattito su come sia possibile una forma di critica (o di giornalismo, secondo i punti di vista) che si doti di strumenti oggettivi senza tradire l’oggetto della discussione (il signor Pop).

A partire da un pezzo anche banale su critica pop soggettiva e critica classico-jazz oggettiva, Clap Clap tira fuori una visione condivisibile che propone l’inserimento di strumenti oggettivi non per pervenire a un risultato oggettivo di tipo comparativo, ma per spiegare le radici delle reazioni soggettive, evidenziare il particolare che sfugge nell’ascolto o giudicare il singolo artista, eventualmente all’interno della sua produzione. Quanto basta, perché pur sempre di pop si tratta e perché la musicologia fa a pugni col pop fin dal procedimento di creazione.

16.11.04

The russian futurists (conversazioni telefoniche)


Capo di maxcar: Driiiin
maxcar: sì?
Capo di maxcar: senti per te sarebbe un problema stare in Russia a singhiozzo per un po’ per quel progetto segretissimo di conquista del mondo?
maxcar: ehm, no di che si tratta?
[due minuti chiusi da “Questo telefono si autodistruggerà alla fine della chiamata”]
Capo di maxcar: ... e quindi pensavo che potresti partire alla fine del mese e stare a San Pietroburgo inizialmente per due settimane.
maxcar: tra due settimane? Va bene! (occazzo, il concerto dei Delgados!)
Capo di maxcar: Ok, ciao.
maxcar: ciao.

Capo di maxcar: Driiiin
maxcar: sì?
Capo di maxcar: scherzavo.
maxcar: lo sapevo.
Capo di maxcar: è un problema per te partire martedì?
maxcar: ehm, err, arr, uch, pensavo di andare fuori questo weekend (occazzo, il concerto dei Decemberists) e sarebbe un po’ complicato organizzarmi ma ehm, err, arr, uch, va bene.
Capo di maxcar: Ok, ciao.
maxcar: ciao.

Ho le farfalle nello stomaco. Lo sapevo che non dovevo mettermi la cravatta, oggi. Mi sento disorientato, mai come in passato, e mi chiedo come mai ancora non si siano accorti che sono un cazzaro.



Verismi


Se accendi la televisione, se leggi le interviste, se vai in giro e vedi gente, le frasi che senti più spesso ultimamente sono “Io sono vero”, “Quello che faccio è vero”. Essere vero è anche un complimento. Io però non me la sento di vantarmi di tanto. Al massimo io posso ritenermi verosimile.

Segnalazioni


Qui accanto manca il classico listone dei blog, ma non per questo si è smesso di leggere i tanti amati cari, né per questo si è smesso di trovarne altri, in Italia e all’estero. La segnalazione di oggi va ad un m-blog (ancoooora? ancora!) italiano, il primo a entrare nel più famoso aggregatore.

Misericordia! Dissero i grilli

15.11.04

Canta(anche)Tu di Giochi Preziosi


Sei stufo che solo i tuoi amichetti che gli piace Anna Tatangelo e Gigi D’Alessio cantano il karaoke? Da oggi anche tu puoi cantare in compagnia Modest Mouse, Yeah Yeah Yeahs, Badly Drawn Boy o i Franz Ferdinand! Scopri come qui e qui.

Home sick


Sabato sera da solo in una casa per cinque, una casa davanti al mare. Le case davanti al mare non sono progettate per l’inverno, la mia camera non ha nemmeno una serranda con cui opporsi al vento. Gli infissi in legno hanno mille e tre spifferi, ma almeno non si arruginiscono. Nel terrazzino non rimane più niente, la sedia a sdraio, lo stendipanni, persino l’immondizia si bagnerebbe di pioggia.

Una casa al mare d’inverno può renderti pazzo durante un temporale. L’energia elettrica manca per istanti così brevi che non basta essere una semplice lampada per accorgersene, devi essere un neon. E io stasera lo sono. Il precedente inquilino era un consulente finanziario e prima di essere arrestato (o rinchiuso in manicomio, non so bene) ha dipinto d’azzurro una parete in cucina. Per fortuna qui al piano di sotto non ci sono specchi.

Il cabernet novello oltre a essere una contraddizione è un carillon. Per la prima volta ascolto in cuffia con disattenzione il disco di Morrissey e, mentre un pomodorino aspro spezza il ritmo, mi accorgo che mi piace come la vecchia solita storia sbuchi a sprazzi su vestiti musicali banali, una sorta di The world is full of crashing bores fatta scelta stilistica. And I must be one. Quello che brucia tutti i ponti attorno a sé.

La cena finisce e rumori ossessivi gocciolano sui davanzali. Il mio capo è felice e venerdì avevo già finito quello che dovevo fare. Mentre tutti sono da un’altra parte, la canzone su qualcuno che ha bisogno di un luogo da desiderare finisce e la situazione è così patetica che sembra che alla mia destra una telecamera stia zoomandosene indietro come in un pessimo finale.

Homesickblues
(Cause I no longer know where home is)

Tutto è nuovo


La signora lì dietro che quando escono “Ma sono dei ragazzini!”.
La ragazza che tra il pubblico emetteva vocalizzi alla maniera di Giorgia ove i cori lo concedevano (in particolare in vece di Feist).
Quelli che sono andati al concerto senza sapere bene chi fossero.
Erlend Øye e l’allarme antincendio (If this is a fire alarm, maybe you should move to emergency exit. If this is not a fire alarm, please, turn the hell of it off.). Erlend Øye il distratto che si perde tra le sue corde più di una volta. Erlend Øye che si fa una doccia con una bottiglia d’acqua e poi prende l’acqua dalle sue braccia e bagna Eirik. Erlend Øye che ruba una macchina fotografica dal pubblico e lo fotografa, che firma autografi mentre Eirik scocciato comincia lo stesso una canzone senza di lui.
Do you want stay out of trouble or gold in the air of summer?
I quasi silenzi compressi su due o tre brividi e i boati irreali attorno alla fine.
Gli italiani battimani, loro snappy fingers.
Loro due che o sono in stato di grazia e possono permettersi tutto, o prendono in giro le troppe persone davanti alle loro navi in bottiglia, insomma come linee parallele.
L’insopportabile assenza di Winning A Battle, Losing The War.

10.11.04

Preferisco ballare con te


Venerdì scorso a Bari siamo andati a ballare indie-rock nella Villa Duplé. Il posto era abbastanza piccolo e l’atmosfera era paragonabile a quella di una festa di compleanno di un compagno ricco. Per quanto paradossale possa sembrare ballare in un piccolo locale indie-rock in Puglia (pensate per un attimo che a Torino non esiste una serata simile) non è questo il punto. Quando siamo entrati, abbiamo trovato lì i due Kings Of Convenience che gironzolavano.
Erlend, dall’alto della sua statura doppia della mia, accennava goffi passi di danza, mentre Eirik scambiava qualche parola coi vicini. A un certo punto occhialone si è imbambolato verso il muro dove proiettavano un vecchio concerto degli Smiths, ipnotizzato da una camicia fucsia di Morrissey. Incerto su cosa dire, ho voltato loro le spalle e ho pensato a una parola, un saluto, un complimento (naaa, mi sono messo a ballare).
Quando stavo per girarmi e dir loro che [...], se ne sono andati, passandomi accanto. Sono usciti da veri fighi mentre il dj passava Take me out, come quando io e una combriccola di soliti noti siamo usciti da un locale simile a Milano mentre iniziava Seven Nation Army.

La canzone del giorno


Come uno che non è riuscito a dire tutto quello che voleva dire.
Come uno che è quasi arrivato in ritardo.
Come uno che sorride in autunno.
Come uno che, boh, forse come due.

Qui si ascoltano i Kings Of Convenience che fanno gli A-Ha e si guardano gli ombrelli volare.

The fishing part of fishing


Prima che arrivi il diluvio sullo scorso week-end si parte con qualche foto.









e soprattutto lo stagediving dell’occhialone



5.11.04

3 A.M. Eternal


- Tutte le cose belle finiscono
- Sì, ma quando cominciano?


Sono andato a vedere l’ultimo spettacolo dell’ultima proiezione di Eternal Sunshine Of A Spotless Mind. Sembra una cosa pensata ma è solo un caso. Sarei dovuto andare ieri ma in Via Giannone c’era un pub, una scuola di balli caraibici, una concessionaria, non il cinema Piccolo. Ho scoperto oggi che la Via Giannone del cinema Piccolo è la Via Giannone che sta nei pressi del lungomare vicino casa mia, nella frazione di Santo Spirito. Il lungomare è finalmente autunnale e forse facevo meglio ad andare in macchina. Il titolare del Piccolo di Via Giannone in Santo Spirito è la Parrocchia dello Spirito Santo ed è strano perché pensavo non esistessero più parrocchie proprietarie di cinema. Comunque sia, non hanno tagliato il film e Il Piccolo è piccolo, nonché semivuoto.

Jim Carrey è invecchiato. No, non potete farci anche questo. Ha un pigiama uguale a quello di mio padre e uno sfregio sulla macchina antisimmetrico a quello sulla mia. Mi sono ripromesso di evitare ogni possibile visione autocoinvolta ma se partite con una disquisizione sull’aggettivo ‘carino’, come si fa, cari(ni) miei? L’inizio ha la grazia di un primo incontro, minima e svuotata di particolari. Eppure come in tutti i grandi primi incontri tutto è già (stato) lì. Dopo lo stacco dei titoli le immagini seguono le evoluzioni della sceneggiatura, la assecondano e la allontanano dalla freddezza di un esercizio di stile (Adaptation?): la confusione nervosa, la rimozione del ricordo che passa per il ricordo e poi l’esplosione giocosa della lotta di Joel e Clem contro la memo-gomma. Il tutto passando per inaspettati inserti di genere (la sala d’aspetto, espediente alla Beetlejuice. Uno strano incrocio tra la serie B di Linea Mortale e quella dei film coi ragazzi lasciati soli in casa che ballano in mutande. Gli anni Sessanta invischiati di regressione. Le situazioni dei film d’ammore. La spiaggia. Il letto. La neve. Il letto sulla spiaggia con la neve).

Nell’intervallo è partito lo show del commento alle mie spalle. Due coppie, le due ragazze chiacchieravano:
- Mamma mia, sembra di stare in un incubo. Soffocante.
- Quindi bello?
- Scherzi, non vedo l’ora che finisca.
- Io lo trovo stupendo. Anche un po’ per quello.
- E poi che c’entra la canzone di Zucchero?
- Ma non è Zucchero.
- Già, è un ubriaco. (NdBR: qui volevo alzarmi e stringerle la mano per aver dato del sobrio a Zucchero). Chissà *a chi* ha copiato questa volta.
- Forse questa volta ha fatto la versione in italiano.
- E comunque è troppo scuro. Tutto questo blu.
Le due si sono conosciute sicuramente in quanto i loro ragazzi sono amici.

Forse è anche un po’ ruffiano perché racconta di quanto dobbiamo/vogliamo/possiamo chiudere col passato e delle debolezze e dei difetti, di quanto ci piacciano in noi e negli altri e di quanto siamo disposti a sopportarle. Ma sto per andare sull’emotivo e citare le parole. E allora mi dico che Eternal è un film molto bello, misurato anche quando deborda ma guizzante. E però ha un finale carino, nonostante tutto. Le due coppie dietro rimangono per vedere chi era l’ubriaco. All’uscita hanno tolto il manifesto del film e non ho avuto bisogno di coprirmi gli occhi come altri mi dicevano di fare. Lo hanno sostituito con un altro, la targhetta OGGI sopra, ma non ricordo quale fosse.


Offlaga Disco Post


Nel mio palazzo,
c’è un bambino che si chiama Benito