La classe operaia va in disco in autobus. Il 9 notturno fende la città a collegare due fermate agli antipodi, la porta del mio residence e il varco presidiato da buttafuori non addetti certo alla selezione. Gentili ormai dispensano solo la drink card all’ingresso e ritirano il pass all’uscita, in un contrasto delicato tra la loro fisicità e l’assenza di problemi, almeno questa sera. Dentro ancora è semivuoto e intorno circola gente con un terzo dei miei anni, abbigliata in modo da lasciarmi interrogativo sui miei attuali interessi musicali. Forse dovrei comprarmi una maglietta Guru o Traficante o indossare una catenazza d’oro. Il bar per fumatori del piano di sopra è il male e non tornerò mai più lì dentro. Piuttosto mi rado le sopracciglia e mi faccio una pulizia del viso dall’estetista. I Nice Guys timbrano il cartellino e passano la consolle a Valletta.
È la prima volta che vedo Valletta mettere i dischi e l’impressione è stata ottima. Robusto e divertente, mi ha fatto persino rivalutare il remix di Go di Moby, quel pezzo costruito sul sacco di plastica di Laura Palmer, ad opera di Trentemøller: a sentirlo in cuffia mi era sembrato una specie di teatrino in cui il buon Anders manovrava una piccola marionetta del cadavere umidiccio e diafano senza restituire il portato arcano e viscido del contrasto tra sfruttamento mainstream e paura della mancanza di senso, dell’originale e del telefilm; sulla pista e pompato di watt scatena una tempesta di flash neuronali, dal ricordo della prima puntata vista col televisore che moriva sotto i miei occhi perdendo i colori fino al monocromatismo di un verde livido senza vita, alla cassetta che mentre registra Go si spezza incastrandosi tra le testine e sputando tra i corridoi della scuola frattaglie calde di Ibiza, fino all’ultima puntata e all’afa torrida e lenta di una sera di Giugno. Subdolo convincerci con la componente revival dell’inutilità sublime delle nostre mani a mulinello contro le strobo. Poi Valletta ha proseguito con un remix gustosissimo di Three Weeks di Tiga (non mi è sembrato il Dahlback, né il Booka Shade, forse quello che gli ha dato Troy Pierce qualche settimana fa?) fino a incattivire di distorsioni e di break la massa che già ballava copiosa. E poi ho capito che dovevo cercare un’equivalente di una qualche Università del Sacro Cuore o del Santo Spinterogeno laggiù in Michigan, una di quelle in cui il motto è “All We Praise Is Parties”, come diceva Sufjan, un’università in cui studiare teologia e convincermi a colpi di imperatori bizantini che il logos è insieme ragione e parola e io posso parlarvi di queste benedette tre ore, attraverso queste stesse tre ore. Il divino non diventa più divino se lo allontaniamo da noi, diceva quello.
I momenti divini poi vivono del grottesco in cui sono immersi. Per esempio io non sapevo che in discoteca si usano ancora i vocalist che presentano con voce impostata i dj come in un film di Verdone sulle discoteche. Il divino però è una carezza sulla merda che spesso sceglie gli ultimi per manifestarsi, con tutto ciò che ne consegue. Mi chiedono se ho pastiglie, ma non ho con me quelle per l’esofagite da riflusso. Carl Craig apre lo schermo del portatile e poggia il primo cerchio del sistema solare. Inizia così, con l’insonnia, e io rido piano dentro la mia maglietta rossa che lampeggia nel nero circostante. Craig richiama Valletta accanto a sé e lo spinge al ricamo sulla coda del primo pezzo con gestualità da benevolo messia. Poi riprende in mano il mio destino e lo frulla con tutttelecosedelmondoinsieme, ma quando mi bevo insieme a tuttelecosedelmondoinsieme non ho né la fastidiosa sensazione di assaggiare uno di quei miscugli tra passoda e aranciata che sperimentavo quand’ero bambino, né l’autoreferenziale sapore di un carpaccio di avambraccio: è come se il meccanismo della fabbrica, il jazz dissepolto e ritagliato come un pezzo di puzzle appuntito più di uno shuriken, l’elettronica più sentimentale di un Numero 5 e tutti i miei atomi dal primo all’ultimo siano stati permutati per ottenere un nuovo universo fatto di sovversione degli schemi ed emozioni che non appiccicheresti mai alla carta di un cioccolatino.
Il flusso non suona né nuovo, né vecchio, perché sgambetta il tempo. I pezzi del passato sono utilizzati con fare moderno, ornati di sovrapposizioni e decostruiti nell’evoluzione orografica del set, mentre i pezzi moderni non sembrano nemmeno le stronzate minimali che potrebbero essere perché non vengono usati come stronzate minimali comprensibili solo sotto l’effetto di un cocktail di tachipirina e novalgina. Succede così che divento un pezzo di pongo e a volte Craig mi regala delle braccia da agitare in aria, altre volte un culo da scuotere sui bassi oppure degli occhi lucidi di vernidas. Lo stronzo, perdonatemi la bestemmia, monta crescendo che non esplodono per tutta la prima parte del set aggiungendo una componente ansiogena paragonabile al trattenimento contemporaneo di un centinaio di orgasmi. E mica trattengo solo quello: i quattro mini-cocktail sorbiti richiedono presto un contributo alla ricircolazione universale delle acque che non mi sento di concedere, incollato ai miei pochi centimetri quadrati sempre rivolti verso il palco e incuranti delle braccia esultanti, delle urla di gaudio e del trasumanare circostante. Al primo accenno di avvallamento mi inserisco in una fila per gli orinatoii dal quale presto scappo per bearmi dei ben noti sintetizzatori di quel ben noto remix che, strano a dirsi, qui appare come una semplice parte di qualcosa di ben più grande. Fotografo le luci e lo sciabordio dei sintetizzatori iniziali del mix di World Of Deep in loop mi inonda di alghe, cozze, squame di sirena e pezzi di barriera corallina. Cercano di trascinarmi via per evitare la ressa dell’uscita ma io non voglio perdere nemmeno una virgola del logos che intanto diventa un’accavallarsi di moti ascensionali finalmente risolti e infatti l’ultimo quarto d’ora è da brivido e da brivido sono le luci accese e alte come mai ho visto alla fine di un concerto, quasi che quelle migliaia di watt potessero rendere meno tetra l’improvvisa consapevolezza che la vita è continua tensione verso momenti come questi e non una sequenza ininterrotta di essi. Esco insieme estasiato e col muso lungo. Il buttafuori accenna un timido ciao, immalinconito dal momentaneo ruolo di passacarte della burocrazia della notte. Per la sopravvivenza al lunedì non resta che saltare sul motoscafo e risalire la Dora Baltea con i Mogwai nelle cuffie per incontrare quella gang cino-sudamericana che fa affari coi neonazisti.
World Of Deep (Carl Craig Mix) - E-Dancer
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