È passato più di un anno da quando ho iniziato a rompere col James Blake cantante (e leggendo c'erano già la coverazza, I Never Learnt To Share e Misuroni), ma è con piacere che il primo disco del 2011 che ascolto sia il suo (no, non quello dei Decemberists), sia tutto cantato e sia ficherrimo. Per questo motivo (e dato che sono stato minacciato di morte nel postare mp3 e visto che comunque ormai ce l'avrete tutti), vado a segnalare dei momenti signifativi paura sorpresa gioia pezzo per pezzo.
(non leakatelo, vi guardo a destra, vi guardo a sinistra)
Unluck: i ritorni di carrello in linee di un foglio a quadretti che si affastellano i r re gloar i Wilhelms Scream: dopo due minuti dai colpi di sonar si sollevano bit di lava che deformano il vinile con la ritmica che zoppica nella sua tentazione techno I Never Learnt To Share: le beghe familiari, gli hit rissonantimodulari, il finale zanzarista Lindesfarne 1 / 2: le settantadue voci si spogliano dei filtri e dei processi e li appoggiano sui bassi dove capita Limit To Your Love: il basso martella mononota a smorzare tutto il core Give Me My Month: l'ultima frase To Care (Like You): la voce che cambia cento sessi. Mount Kimbie? Burial? Viva i mononota impulsivi Why Don't You Call Me: quando salta il cd/mp3/vinile perché ha paura degli ululati. What I Am, whatiam, w h a t i a m? I Mind: in loop coi monosillabi. Lui bada o lui mente? Measurements: era qui, prima di tutto
È curioso come la canzone a cui più associo il Natale che sta arrivando sia un pezzo disco-house, di un produttore svedese insieme a cantante svedese, uscito lo scorso 30 agosto su un'etichetta chiamata Pampa.
Sarà che suona come l'atmosfera confusionaria dello scambio di doni che sai che non ti piaceranno, saranno i funky camini, sarà quella voce da invasione del Concerto di Natale al Vaticano, saranno i bassi gonfi come stufe caldaie, saranno le tastiere che sembrano il ghiaccio lontano, sarà il tintinnio di slitteposatepalledivetrosoldisulpiattocopritappidispumante, sarà il finale annebbiato di una giornata di festa troppo lunga.
Non è una gara di magia, non è un minifestival twee, non è un convegno su come a voi piccoli principi con dei giochi di prestigio verrà fatta sparire la pensione. Sabato sera in quel del Gamma/Fluido comincia Houdini con il primo di (si spera) una serie di appuntamenti di dance "altra", ovvero lo showcase romagnol-torinese della Margot Records. I beneamati Margot proporranno il loro misto di live e djset e saranno preceduti dal live per sintetizzatori e batterie analogiche di Matteo Scaioli. A fare gli onori di casa gli organizzatori Vaghe Stelle, col suo live già apprezzato al Club To Club, e Sergio Ricciardone. Piccola postilla: ritengo una cosa encomiabile la comunicazione con giusto anticipo della scaletta, che in questo caso dovrebbe consistere in
In Italia : 106 persone hanno il cognome Gianasi secondo i nostri dati
Il cognome Gianasi è il 29 385° più diffuso in Italia.
Ci dispiace, ma non abbiamo i dati per provincia per il cognome Gianasi (meno di 100 persone in ogni provincia).
Matteo Gianasi è il primo rinforzo per la Bsl di Bettazzi (playguardia, in arrivo dal Castiglione Murri (C Dilettanti)) [Il Resto del Carlino - Lunedì 21 giugno 2010]
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Viviamo nel futuro, non abbiamo bisogno di inseguirlo questo weekend.
Avrei potuto barcamenarmi tra la dubstep venata di techno di Jack Sparrow all'Imbarchino sulla sponda del Po e la giovane promessa russhouse Nina Kraviz in un postaccio e ritrovarmi teletrasporato in un afterhour ai Murazzi con Deadbeat che suonerà domani mattina dalle sei (i pseudo dj elettromilanesi buoni per il pubblico dei mINISTRI non son degni nemmeno di nomina). Ma c'è il Torino Film Festival: solo che mi faccio convincere che il sopporto di una storiaccia romantica scema di due scemi che non siamo noi non possa essere affiancata a un concerto dei Broken Social Scene in cinemascopa (This Movie Is Broken) e finirà che domani non mi deciderò tra l'ultimo Carpenter e lo sbaglio Suck dei vampiri + vecchie glorie rock. Così rimango a casa e mi interrogo sulle colonne sonore di Tron. Domani dovrebbe nevicare.
Nel 1982 avevo sei anni e avevo deciso di abbandonare la droga pesante della pagina puzzosa di petrolio di Braccio di Ferro (con cui, tra l'altro due anni prima, avevo iniziato a leggere) in favore dei miei primi numeri patinati di Topolino (penso si fosse intorno al numero 700 e ricordo quell'anno anche un mazzo di carte natalizie in allegato). Su Topolino si parlava di Tron, c'erano delle immagini che non erano a fumetti. Ricordo che la cosa mi stranizzò e mi informai sulla stampa seria (credo Il Giornale di Sicilia, immagino già all'epoca diretto da Giovanni Pepi, ma lo dirigerà ancora Giovanni Pepi o sarà concondirettore, cenni di pepi?) riguardo al film-tentativo di mimesi col mondo dei videogiochi. Pare che all'epoca fu un gran flop. Wikipedia mi dice che incassò il doppio dei costi e immagino che per un film Disney (Topolino!) fosse niente, ma - ehi - fu un successo/cult negli anni a venire per il VHS e i muri delle camerette dei cervelloni che scoppiarono con la prima bolla della new-economy - io a ventanni non avevo un garage ma un posto macchina all'aperto. Morale della favola End of line: non vidi Tron a sei anni e per i ventotto anni successivi.
La colonna sonora di Tron fu commissionata a Wendy 'aranciameccanicaswitchedon' Carlos. Le affiancarono l'Orchestra Sinfonica di Londra per normalizzarla in termini di tempo ciclo e di resa sonora e lei se ne uscì fuori con i soliti moog dissonanti e sognanti da battuta mista e ossessività zuccherosa e fiduciosa sinistra nel futuro. Il Potere ebbe la meglio e pensò per il pubblico che si alzava dalle sedie e lasciava la sala i Journey di Only Solutions. Lei accettò di buon grado e fu lì quando i master delle registrazioni si erano deteriorati cosi tanto da non poter generare l'agognata ristampa su CD: così ha provveduto personalmente a mettere i master in forno per restaurarli.
Ventotto anni dopo sta per uscire il reboot di Tron, Tron: Legacy e la Disney ha affidato la colonna sonora ai mie robot preferiti, i Daft Punk. Quando penso che abbiano ormai saturato il loro livello di figosità, spostano sempre l'asticella in sù di qualche metro. Per certi versi Wendy e i Daft sono molto simili: immaginario tecnologico futuristico rubigno ma non troppo e quindi pop. Nella colonna concedono entrambi alla moda dell'epoca, Wendy con gli sviolini magniloquenti disnei per le scene di azione e di bacio à la Julesetjim con bit di parità e i Punks con i mono-toni mono-liti alla Inception del Cavaliere Oscuro che in supersurround strombazzano per svegliare chi non regge alla maestosità. L'ovvio retrogusto è che la colonna sonora di Wendy ispirava una fiducia serpeggiante, mentre i Daft rendono un senso di oppressione tale che il sovvertimento non potrà che essere epico e vano, pieno di beats granulati e derezzati, pronti per un seguito. Quando si liberano dalla necessità delle trombe però vengono fuori i sintetizzatori grindeggianti, i bit che ormai non sanno se dire sì o no e fanno da 64773r13 - il gioco è cambiato! -, il funk lento e sciocco game over di End Of Line, le papere derezzate. Solar Sailer così trattenuta esclama una e una sola cosa: i Daft Punk dovrebbero scrivere tutte le colonne sonore di tutti i film del mondo, di Avati, Kiarostami, Araki e Kitano. Nella seconda parte di Disc Wars gli arpeggi si intrecciano e folleggiano e i titoli di coda sono il richiamo pop scemo soluzione al fuori contesto dei Journey, keygrip, foley, thanks to the city of chattanooga col finale e le sedie ormai vuote. Sarà noiosa come una soundtrack pura, eppure è capace di raccontarti il film anche se non lo vedrai e non hai visto il padre e le moto vettoriali nell'82.
Nell'82 si aveva in mente che la comprensione popolare sarebbe passata per i template del videogioco. Un programmatore avrebbe dimostrato di essere stato derubato da un altro ingegnere e avrebbe avuto la meglio sul MCP. Oggi la comprensione popolare persegue le logiche del paesepiccoloelagentemormora su un gigapaese creato da un programmatore che giustamente ha fatto prima degli altri qualcosa che altri avevano pensato (com'è 1.0 rubare). Tron: Legacy uscirà a Natale in 3D, in IMAX,ma nelle nostre cuffie lo abbiamo già visto senza bisogno di occhiali*
I Mount Kimbie sono presenti su queste pagine più o meno dal primo vagito oltre un anno e mezzo fa. Non si capisce bene se rileggano il dubstep con sensibilità indiepop o se applichino le non regole dei ritmi spezzati + ultra riverberi + blipblip al postrock e al pop. Stanno in mezzo e fanno musica di flusso dell'oggi, ora incessante ora assorta. I Mount Kimbie sono un duo, quando non si accompagnano con James Blake, e sono questi qui sotto. Forzeh.
Sabato scorso hanno suonato a Torino. Alla fine del concerto erano commossi, in particolare il biondo. "Sapete, ieri abbiamo suonato davanti a dieci persone". Sembrava che qualcuno li stesse applaudendo per la prima volta, anche se girovagando tra registrazioni audio e video possono vantare alcuni tra i più importanti club e festival d'Europa. A volte però dopo una serata storta hai bisogno di recuperare l'entusiasmo. Forzeh.
L'armamentario sul palco è composito. Tastiera midi tranquillona da venticinque m-tasti con cui suonare i bassi, Maschine+Kaossilator+SP404+drumpad, chitarra elettrica con pedali sul tavolo e tamburo/piatto che umanizzano i bit lavorati all'uncinetto, intrecciati da braccia e mani che vanno a premere i tasti dello strumento dell'altro. Per gran parte si ripercorre il disco di esordio con alcune puntate immancabili sugli ep, con i pezzi molto meno giocattolosi degli originali, vuoi per la maggiore massa sonora, vuoi per l'apporto dei drone live di chitarra o delle ritmiche dell'abbozzo di batteria sul palco (tutta la parte finale si muove in una miracolosa terra di mezzo tra postrock e techno). Ci sono anche due microfoni (di troppo), dai quali vengono ripresi il contro ritornello di Maybes (maanchenos) e un soffocatissimo altro pezzo. L'impressione è di essere presenti a un folgorante quanto raccolto inizio: un pubblico inaspettatamente riscaldato riesce a chiedere come si deve un bis, il biondo dice che hanno suonato tutti i pezzi che hanno a disposizione, viene chiesto loro di risuonarne uno già fatto e rispondono ringraziando che non è possibile. No, senza forzeh.
Sbaglio la circumnavigazione di Torino per raggiungere il Lingotto e il Gran Finale del Club To Club, ma entriamo in tempo per gustare i primi tre quarti d'ora di Shackleton. Per farlo dobbiamo attraversare il padiglione ancora in fase di riempimento molestamente sonorizzato da Riva Starr. Meno male che in Sala Rossa sono solo Shackletonnellate: ancora più angosciante e percussione di guerra santa che nel precedente live torinese, propone alcune chicche come il nuovo singolo della sua nuova etichetta o nuove riflessioni sulla prossima esplosione degli equilibri tra occidente, medio oriente, africa e antartide. Saltella come sempre come un avvoltoio in camicia davanti al notebook e strozza possente una sala già torrida e senza ossigeno.
Hypno Angel - Shackleton
Lo salutiamo per i Modeselektor, il cui live è una genialata: scimmie grasse fanno le facce, mandano i bacetti, si incazzano, si gonfiano di steroidi e bombole di gas, rizzano il pelo, sembrano attacarti e invece ti sorridono. I visuals di Pfanfiderei, pezzo forte della serata (anche per Holden e Dettmann mi è sembrato), pompano l'immagine dei due ignorantellettuali fino a farli diventare wrestler su una Art & Cash che stronca ogni resistenza, pettinano erba in bianco e nero su Deboutonner e sonorizzano l'eurovisione del Black Block. Lenti ma adrenalinici. In mezzo qualche pezzo cantato di quelli coi vocalist che non mi piacciono e non riconosco e forse mi sogno pure il remix su Skream. In sala rossa invece il batterista degli XX sciorinava tranquillo il suo dubstep ovattato e melodico e troppo fighetto per essere apprezzato a confronto della sovraeccitazione parallela fuori dal boiler, dove presto torniamo. Sembra che tutto possa preludere al passaggio di consegne a James Holden quando i Modeselekti impersonano in playback due omosessualissimi Bjork ed Anthony Hegarty che si strusciano sul loro remix for girls di The Dull Flame Of Desire. Invece stappano una bottiglia di champagne sul pubblico e chiudono con una violenta Kill Bill Vol.4 e temo molto su come possa raccogliere le consegne il dj meno muscolare della scaletta del palco grande.
Pare che fortunatamente Holden avesse in saccoccia del materiale vagamente industriale in onore del fantasma della fabbrica fordista e così la transizione con le mitragliate di denti di sega e bassi precedenti viene assicurata da Factory Floor, Mental Overdrive e Alan Vega che remixa i Fuck Buttons. Anche i ritmi sono leggermente più veloci che in altri set (comunque più lenti che in un djset techno medio). Il remix di Bowls è gestito con carattere (subito cassa e più rapido e "grosso"), ma da lì in poi si deriva verso il suo suono, con un passo galleggiante e melodie psicocircolari di tutti i sodali che si remixano a vicenda e vengono punteggiati da ripartenze cosmic disco o pezzi appena più arrotati. Il colpo d'occhio è inquietante: la folla ondeggia, non balla veramente (il cassone latita), ma non si incazza. Scazzati o rapiti, anche se io opto per la seconda perché in quelle condizioni lo scazzo diventa quasi automaticamente violento. Sospendo per cinque minuti la modalità fanboy e facciamo un salto in sala rossa per un saluto tributo a Shed che risponde passando il suo Wax 20002 - B. Holden nel frattempo suona mezza discografia degli ormai eroi nazionali Margot (anche se Voci Giaga velocizzata sembrava cantata dai Chipmunks) e pare che Kate Wax balli in prima fila insieme al bassista. Dettmann sale a salutare e, sulle statue di marmo in bianco e nero che Pfafinderei introduce dopo due ore di grafica astratta, Holden passa un pezzo di Kate Wax che avremo sentito anche qualche ora prima ma sul megaimpianto e con la produzione del prossimo disco e con l'atmosfera straniata di una discozombieteca degna di Shaun Of The Dead romba marziale e dolente, con gli arpeggi ribollenti e le percussioni slabbrate. Perfetto finale anche se si chiude con The Medium Is The Message.
A questo punto Dettmann prende possesso della folla con i suoi ormai rinomati balatoni techno come se non ci fosse mai più un domani che abbandoniamo presto (sentito già altre volte, anche se pare che l'ultima parte sia stata gustosa), in favore del meritato riposo. Purtroppo il giorno dopo Oneohtrix Point Never ha cancellato per il litigio col manager e ci risparmiamo il tour esoterico / musicale, dato che alla superstizione preferiamo le certezze e le 6000 persone di sabato e le 25000 di tutto il festival sono la certezza di potere affrontare il futuro senza corna, amuleti e dita incrociate.
Club To Club X - Sabato pomeriggio che diventa sera, Museo della Giovinezza
Sabato inizia con un'autopompa che per tutta la mattina cerca di stu(p)rare un tombino davanti casa e distruggere il mio cranio. Purtroppo, nonostante spesso mi capiti di passare a quell'ora del sabato dal noto emporio gastronomico slo-food, mi perdo il plate-watching della colazione (sapete, quelli fichi dicono colazione al posto di pranzo, usano la c al posto della g, non usano l'inglese a cazzo), della colazione di Four Tet e Caribou (che stanno per partire per Bologna) con James Holden e cricca che scopro essere sotto la Mole già dal venerdì sera - leggete il Border-resoconto del festival. Uno dei nostri interrogativi più impellenti in tutto il weekend era stato appunto dove li avrebbero portati a mangiare e soprattutto cosa (bagna caoda? fritto misto decerebrato? tajarin al tartufo? Io venerdì prima di andare al Carignano ho mangiato il pane ca' meusa dal mio posto di fiducia). Più in generale me lo chiedo per qualsiasi cantante / gruppo /dj che vado a sentire. Sono uno che si interessa ai fatti importanti della musica. Purtroppo mi perdo la conferenza sui festival di musica elettronica ma me la faccio raccontare al mio arrivo al Museo Della Giovinezza, ex Scienze Naturali.
Sulle scale incrociamo James Holden e la mitica Gemmonobrow che escono fuori per una boccata d'aria mentre noi arriviamo. Poi stazionano dalle nostre parti, prima che decidiamo di allontanarci in favore di un po' di vita sociale con dei loschi figuri che non possiamo nominare. Vaghe Stelle è stato lo Zelig del Festival, lo vedevamo dappertutto (ma in generale lo vedo dappertutto sempre). Il suo live set è stato buono e di sicuro più nelle mie corde rispetto agli esordi minimal. Il krautechnopopp non fa mistero dell'immaginario di riferimento, che tra l'altro gironzola intorno fotografando il dinosauro. Il set però continua oltre il previsto orario di chiusura un quarto d'ora, una mezzora, un'ora. Non so se Kate Wax sia in ritardo, ma di sicuro la nostra cena diventa a rischio.
Sul palco a fianco parte finalmente il concerto di Kate Wax, illuminato con questa mezza luce senza senso: lei e lui bassista hanno magliette bianche della salute su cui dovrebbero proiettare nel buio immagini astratte, stelle, volti di modelle. La mezza luce invece li illumina come dei Kills scarsi se i Kills non fossero già scarsi, lei tibetan-bjork-cantante-arty-ottanta, lui bassista-biondo-scodella-cripto-inutile-era-meglio-l'arpeggiator. La musica, purtroppo, sembra pure peggio: la sua voce non è male, ma viene incastrata in questo residuo anni ottanta troppo celeste per essere witch-house, troppo piatto per intrigare. Il fantasma dell'electroclash mi sussurrano tutti all'orecchio. Dove cazzo andiamo a mangiare, sono le nove meno cinque. Sembra che finalmente abbia finito, quando torna sul palco e come nei peggiori incubi, mentre il paciocco Abbott è già in postazione, se ne esce con un improbabile " è vero che volete un'altra canzone?". Aridatece i Darkstar.
(doveva sembrare così)
Meno male che non abbandoniamo il Museo per la cena, in barba alle cucine dei ristoranti torinesi che chiudono alle dieci e mezza e ai vicini di casa che hanno già pronta la soup al mio arrivo quotidiano dal lavoro alle 18. Luke Abbott è bello come un dio greco (nel cartone animato Pollon). Armato di solo APC40 (look who's who) con mani cucciole (cit.) tira fuori il liveset del festival, trasformando il materiale dei singoli e dell'album in una festa acrobatica di manopole, offset e incartamenti. Ritmiche aggressive e con tiro notturno, nonostante si spezzino come grissini perché la sua attenzione lo distrae, ruvidità di dentidipescesega che duellano con rimbalzi rotondi di ton(d)i melodici in una battaglia continua con la tizia che sorveglia il mixer, una specie di babysitter tuttaunnervo che vorrebbe stare da un'altra parte. Qualcosa che funziona come dance music pur non essendo dance music, che si affida alle convenzioni mentre le prende a calci.
Ispirato da una meraviglia che meritava l'Hiroshima, trovo la soluzione per la cena, lui suona il prefinale di Melody 120, è quasi finita manca solo Brazil e invece la babysitter si distrae e lui lancia dei droni, si avventa sul master mixer, mette al massimo il volume, crea degli effetti risonanti, si avvicina un tipo preoccupato per l'impianto e poi la babysitter e lui riprende il controller e quella che sembrava Brazil diventa devastazione di rumore e sfacelo che illumina gli occhi dei pochi rimasti (nel frattempo molti hanno ceduto ai morsi della fame, stolti). Sorridenti anche noi abbandoniamo il Museo e sulle scale un sovrintendente ci chiede se sopra c'è ancora qualcuno (sì, uno stalker, prendetelo!). Di lì a poco avrei affrontato uno stinco di maiale con crauti e una rossa artigianale da sette gradi uscendone sconfitto.
Club To Club X: Venerdì Notte, Hiroshima Mon Amour
In ritardo di un'ora sulla tabella di marcia, ma comunque in orario per le prime esibizioni interessanti, abbandono l'idea di recarmi al Supermarket per mezzora di Oni Ayhun prima dei live di Caribou e Four Tet all'Hiroshima: i King Midas Sound su disco non mi sono dispiaciuti, un buon triphop con bassi attuali e il giusto legante con la parte precedente al Teatro Carignano, ma ero molto curioso dell'esibizione del Fratello Coltello prima di Jeff Mills. Conscio dei miei limiti, mi sono diretto all'Hiroshima dove campeggiavano minacciosi i cartelli che annunciavano il sold out: fortunatamente il pienone era già dentro e sono entrato velocemente per il non inizio del gruppo "pop" di The Bug.
Per problemi di "ciabatta" una serie di false partenze e un forzato reboot del mac innervosiscono The Bug, che col cappuccio della felpa tirato sul cappellino, il pizzo minaccioso e lo sguardo freddo sembra un boscaiolo sadico, uno di quelli che nei film porno recitano la parte del cattivo. Invece è solo teso per la situazione, nonostante il pubblico capisca e non dia di matto e lo conforti non appena è possibile la ripresa. Da quel momento insieme all'immancabile poeta caffettiera giamaicazzo hardcore continuum e alla vocalist orientale me love you long time, bye bye, aggrediscono il pubblico con frequenze che purtroppo non arrivano perfettamente e con un massivo attacco di tensione e dolcezza urbana. Outta Space, Goodbye Girl, Meltdown ed Earth a Killa sono i picchi personali che ripagano dal fatto che con mezz'ora-trequarti di ritardo sarebbe stato pensabile il saltimbecco di clubinclub.
Il passaggio di testimone tra i bassi e la techno pop psichedelica che andrà a monopolizzare la restante parte del mio C2C avviene nel momento in cui Danibou Snaith sale sul palco con la consueta formazione raccolta circolare che abbandona la doppia batteria in favore di un suono meno freecaotico e più andante. D'altra parte nelle sue continue variazioni Caribou ha mantenuto solo la matrice psichedelica passando dai cut'n'paste orientali e freak delle prime produzioni Manitoba alla technopop per la Plastic People di Swim, via il surf di Andorra. Cazzate. Sull'arpeggio di Swaili che apre il concerto, qualcuno lancia in aria dei brillantini che si attaccano sulla pelle di tutte le prime file. Il colpo d'occhio è notevole, forse anche notevolmente gay disco. Il primo coro è già da braccia alzate. Leave House inizia con un tiro rock che cancella il remix di Motor City Drum Ensemble e termina con una coda crauta che si attacca ad una Niobe a pressione concentrica. Complice il pienone entusiasta, vedo la prima atmosfera di ballo convinta, sudata e lontana dal giustificazionismo storico e/o intellettuale della serata precedente: Bowls è una cascata di mattoncini, pentole e arpe sadicamente rallentata. Quando termina, arriva l'unica onda dal passato di Melody Day. Il ritmo riprende in souplesse con la dolcezza malinconica di Found Out: Everything that she says she can fall for, she knows she'll be there on her own (fa troppo Redronnie citare i testi, di più tradurli).
Una Hannibal technoide spezza il flusso in vista del finale: il cuore grande di Jamelia e lo sculettamento innocuo e forse un po' inutile di Odessa fanno da preludio a una Sun suite che si ferma e riparte sempre più grossa con un finale che strappa urla applausi mani salti sun sun sunsunsnsnsn luci crash e ringraziamenti convinti da tutte e due le parti.
Certo, è la techno e l'elettronica indi-esposta e forse sminuita (quando ho sentito Swim per la prima volta ho pensato a una cattiva scopiazzatura di Four Tet), ma forse è anche la lezione del prendere la musica elettronica e psichedelica che si ama per fare un pop più simile a quello che ci piace.
Mentre si smontano gli strumenti, scende come una mannaia My Girls degli Animal Collective. Vado verso il bar e incrocio Four Tet che si dirige verso il palco. "Go Kieran" e gli stringo il braccio. Sorride sornione. Quando prende possesso dell'Hiroshima con una Sing in progressione che si tramuta in una sincopata e sfalzante Nothing To See, è chiaro quanto voglia instaurare, pur col suo materiale, un'atmosfera da discoteca techno in ora di picco. A un pezzo che non ricordo (una roba da Ringer?) segue la pausa "Ilaria potrei piangere" (vedi video annesso) di Angel Echoes.
Solo un cuore prima di ripartire con una Love Cry multiritmica prima di un altro non riconosciuto/estratto da Ringer. Il finale marziale e pieno di ninnoli di Plastic People in realtà non sarà il finale. Richiamato sul palco, Four Tet chiuderà con gli arpeggi di Ringer in persona che sono stati il primo nero su bianco dell'infatuazione da club dei suoi ultimi tempi.
Ormai troppo tardi per raggiungere il finale qualcosa nel cielo di Jeff Mills, decido di ritirarmi e ricaricarmi, non prima di essere preso per il culo per tutto il glitter che avevo addosso. Sei andato a fare le marchette? Questo tu non devi dirlo.
Club To Club X, Venerdì, Teatro Carignano, Hyperdub evening
Arrivo più o meno all'ultimo minuto ma mi salva la mezzora accademica di ritardo sull'ingresso. A quel punto la cosa più divertente da fare è cercare di approfittare dei riflessi della folla e in men che non si dica non appena comincia l'ingresso dalla porta principale, entro insieme a una decina di altri dalla porta a fianco che non dovrebbe essere aperta. Tanto quasi tutta la platea è riservata a quelli che andranno via prima della fine e io mi accomodo in ultima fila centrale privilegiando l'acustica alla vista. Tanto sarà tutto scuro ed hyperdub.
La serata è interamente dedicata alla casa discografica che sta ridefinendo i confini dei bassi che incontrano l'elettronica. Il piatto forte è indiscutibilmente il gran patron Kode9 che suona Burial. La malinconia di Endorphin aleggia nel buio, poche luci verticali illuminano in maniera parsimoniosa il velluto dietro Kode9, e si tramuta in Fostercare. Il crepitio che non sai se sia puntina, pioggia o falò delle puttane segnerà un set strano fatto di frammenti da trenta secondi, schegge subito interrotte di pezzi nuovi e vecchi che incantano con le solite voci e i soliti rumori ma anche con divagazioni più o meno nuove quando il suono diventa più sintetico che in passato o persegue le stesse dinamiche di Moth. Prophecy e Vial. Il pubblico insieme intimorito e distratto dalla ADHD di Kode9 punteggia con qualche applauso e urlo fino alla conclusiva Ghost Hardware. Una roba che lascia insieme interdetti come da uno spot pubblicitario troppo veloce e a bocca aperta come una meraviglia perfetta e fuori posto.
Kode9 taglia corto e accoglie sul palco il fido Spaceape. Io ho un problema con Spaceape: capisco l'hardcore continuum e tutti quei fatti, ma su disco la voce da caffettiera intasata giamaicazza mi urta e mi impedisce di apprezzare la musica di Kode9. Fortunatamente dal vivo, complice un pitch reale più alto, Spaceape è molto meglio che su disco e il live fatto per gran parte di Memories Of The Future e dei vari singoli sparsi tra ep e compilation ormai è oliato e solido. Certo l'impressione è quella che tutto ciò si trovi nel posto sbagliato, lontano dalle radio pirata e dai capanannoni industriali in disuso. Mentre l'operazione Tristano, von Oswald, Craig trovava un senso sul palcoscenico teatrale (o a memoria anche le contaminazioni warp/musica contemporanea dell'auditorium di qualche anno fa), qui purtroppo al di là dell'ottima musica l'effetto era quello del king kong incatenato.
Se l'ottima sequenza della prima ora pur non soffrendo di inferiorità, semmai risultava limitata e ingessata dalla cornice formale, il bello doveva ancora venire. Per un attimo ho rimpianto di non aver preferito, nel lontano 2008 a Londra, (un dj set? live? de)i Darkstar che all'epoca erano un duo dubstep elettronico col solo singolo convincente di Need You / Squeeze My Lime a una divertentissima serata disco con la cricca ormai scomparsa della Dissident. Invece forse i Darkstar avrebbero fatto schifo anche nel 2008. Allineati come dei Kraftwerk? no degli Alphaville (metafa fregata a fede) e in mezzo Jay di Jay e Silent Bob a cantare, mettono in sequenza i pezzi di North in quasi totale base registrata, se si eccettua appunto la pianola sempre con lo stesso suono e due o tre beat cadenzati alla sinistra. Si parte con Dear Heartbeat. Il vocalist poi, chiaramente su di giri, comincia a fomentare il pubblico che decide di allontanarsi, si incazza coi fonici e rompe le righe innervosendo i due Darkstar originali. Gold arriva subito, su Aidy's Girl viene cantato qualcosa, c'è anche la cover dei Radiohead e ormai rimangono pochi entusiasti, tra la voce che non ci arriva e i proclami per cui cazzo se avessimo avuto un volume decente vi avremmo fatto vedere. Io rimango nella speranza che sbrocchino completamente e in fondo per il meraviglioso interrogativo di questi Darkstar che sono un gruppo elettropop che fa di tutto per farsi mandare a fanculo e invece viene pubblicato da un'etichetta con due palle così, viene chiamato a esibirsi pur non avendo niente da dire dal vivo e in fondo trattiene qualcuno fino alla fine con la sua strana fragilità.
(che suona un po' come young guns, young ones, young unz, young gones)
Giovedì scorso, serata di apertura di Club To Club X-ima edizione
Trascuro il live al Carignano dei Plaid coi suonatori inglesi di pentole indonesiane (video esplicativo) e comincio direttamente dal Mirafiori Motor Village.
Andrea Frola apre la serata con un set di carezze disco-house e cede la scena a Floating Points con il rallentamento orgasmico di Lil Louis. Se avete letto un qualsiasi articolo su Sam Shepard, saprete bene che tutti puntano sul fatto che mentre vorrebbe tanto diventare il Moodymann inglese, tra hittoni digitalnegri e jam session funk suonate e cantate è impegnato in un PhD in farmacologia sul tema regolazione del dolore a livello di microRNA. Il caro vecchio luogo comune che sai i musicisti elettronici sono tutti un po' scienziati pazzi. Floating Points sembra invece il prototipo del ventenne rosso inglese che non pensi possa esistere fuori da un pub con la pinta in mano o dalla curva del Manchester (City? Utd? E invece nessuno dei due, in un'intervista ha dichiarato "Sono cresciuto in un quartiere di Manchester vicino al vecchio stadio Trafford (ahah per la traduzione), assistendo a molta più violenza di altri ragazzini. Quindi ho sviluppato un'antipatia per il calcio e sono rimasto a casa a suonare il pianoforte."). Per farla breve apre e chiude un set ultravinylistico con lo stesso pezzo brasilian-saudade con voce femminile che purtroppo non riconosco, per più di metà del tempo mette in sequenza un misto di crostoni e b-side funk, soul, jazz e garage con mixato netto e/o non in battuta e inspiegabili togli-tutte-le-frequenze tranne i 70khz rimetti-tutte-le-frequenze e solo dopo aver creato un'atmosfera strana ma feelgood, comincia a iniettare prima della house primigenia e poi dei pezzi techno tondi e a loro modo neri tra i James Brown meno noti, i pezzi afrojazz e gli Scott Groovoni. Una dichiarazione ovvia di giovinezza e di amore per le radici, che purtroppo ha messo in secondo piano il suo ruolo nel filtare quelle cose con freschezza.
Subito dopo sfoggiando una sagoma e un ciuffo a suo modo nazistoide, Joy Orbison prende il possesso del mixer e lancia Gipsy Woman di Cristal Waters (sì, la ra li la ra la, mo m'pighhj' a Nicolett', ca m' suonn' la trombett'). Tutta la prima parte del suo set è farcita di house ultra funky al limite della step inglese. Poi purtroppo si incattivisce e la funky house diventa quella cafona inglese odierna coi synth scorreggioni-rave e le ritmiche che mi innervosiscono. Fortunatamente il finale è tutto nelle sue corde di produttore, con ritmiche spezzate, bassi e synth profondi e i suoi pezzi migliori. Il sorriso ritorna e si è pronti ad affrontare il giusto riposo in vista del tour de force dei due giorni successivi.
Le premesse sono enormi. Prendete il decennale del miglior festival elettronico italiano, ammantatelo di scaramanzia e raccogliete il meglio di bassi, tchktss, droni, voci, campanelli e fantasmi e il risultato sarà Club To Club: The X Superstition. Anticipato dalle anteprime milanesi e quest'anno in parallelo a Istanbul (con tanto di nazar boncuğu augurale, si vede che ho passato mezzo agosto in Turchia e indosserò apposita t-shirt), il Club To club percorrerà tutta Torino dal 4 al 7 Novembre.
Giovedì 4 si parte dal grembo del Teatro Carignano ripieno dei suonatori di gamelan che accompagneranno i Plaid e si proseguirà al Mirafiori Motor Village con Floating Points, Joy Orbison e Andrea Frola.
Venerdì 5 il Carignano sarà infestato dalla Hyperdub, dal fantasma di Burial "suonato" dal suo capo Kode9 e dal bass-pop sconfitto dei Darkstar. La notte partirà come al solito in parallelo con tutto il corollario di scelte difficili: all'Hiroshima accompagnati dagli italiani DJ Pandaj, Sweet Life Society, Les Fleurs USB e Loser toccheranno ferro legno e tutto il resto i live di Four Tet, Caribou e Kings Midas Sound; al Supermarket aleggerà il mascherato Olof dei Knife as Ony Ayhun che precederà o seguirà le quattro ore del nuovo progetto di Jeff Mills; al Gamma il Po farà da sottofondo a Jamie Jones, Marcelo Tag, Step & Rills.
Sabato 6 al Museo di Scienze Naturali di pomeriggio i live bordercomunicanti di Luke Abbott, Kate Wax e Vaghe Stelle faranno da preludio al gran finale al Lingotto con i live di Modeselektor, Shackleton e Shed e i djset di James Holden, Marcel Dettmann, Cassius, Jamie degli XX, Riva Starr, Giorgio Valletta e Patrick Di Stefano.
Domenica 7 infine si zombeggierà col dj set di Rob Hall e i droni di Oneohtrix Point Never.
Completeranno il tutto il finale del concorso Musica 2061, l'ospitata turca di The &, gli aperitivi in giro per la città e la conferenza sui festival di musica elettronica Electronic PIL.
Portatevi i corni e giocatevi questi numeri al lotto: , , , , .
Ieri sera al Madison Square Garden di Nuova York chi è andato a vedere il live dei Phoenix sul quasi-finale di If I Ever Feel Better forse era distratto, o preso dal ritmo, ma non poteva non stropicciarsi gli occhi quando le luci si sono abbassate e hanno puntato sulla sagoma dei Due Robot che raccoglievano la coda del pezzo. I Daft Punk si sono materializzati sul palco con una solenne Harder Better Faster Stronger a cui si sono uniti presto i Phoenix per una rilettura we're with the band del mashup con Around The World. Il gruppone ha quindi suonato insieme 1901 alla fine della quale si è ripreso l'intro ravvicinato del terzo tipo degli indimenticabili live per terminare con una coda sfasciona della stessa 1901 con tanto di stage diving e abbraccione finale. Ok che sono amicici che uno dei Phoenix suonava nel primo gruppo dei Daft Punk, ma io lancerei una petizione perché compaiano random all'interno di concerti altrui finché non si decidono a tornare con un nuovo live.
Pur non parlando quasi mai di musica italiana e ritenendomi dunque inadatto, pur avendo un'opinione, ahem, composita sul disco intitolato con bestemmia politeista ("Dei Cani"), pur dovendo passare il tempo a comprendere North dei Darkstar, trovo necessario spendere due parole su una canzone a cui tengo dei Non Voglio Che Clara. Pur non avendo mai vissuto niente di simile negli anni dell'università, pure. Circa tre anni fa non riuscivo a smettere di sentire un mp3. Non si capiva se si trattasse di un demo coi suoni imperfetti (gli ultra riverberi, la tastiera con le scossette statiche, alcuni sgusci di elettronica liquida quasi impercettibili), un live registrato con l'inganno, un malefico tarlo virale che non avrebbe mai visto altra luce. Qualcuno disse che partiva da Minghi e da Fabiò/Giuliò e arrivava ad un dolore contenuto che non sbracava mai e dignitosamente diventava sconfinato - parafraso. Oggi, quella canzone è uscita su disco, prodotta coi suoni giusti e i sospiri voluti. Tutta la prima metà, però, mi urta. Lo so, la canzone non ha niente che non va, è solo un'impercettibile sensazione che a stento che del tutto capisco, ma si può riassumere nei troppi ascolti di quel demo/live/tarlo. La voce che prima mi faceva venire voglia di mettere una mano sulla spalla al cantante, ora ha delle piccolezze recitate artefatte o forse la tristezza è solo un po' più calcata e io sopporto poco la tristessestrinsecata. Tutto cambia però, a volte in meglio, e la recitazione viene sepolta dalla musica. A 2.38 un coro ovattato di riverberi e letti separati e i fuzz che irrompono sigurrosi vengono strozzati col silenzio prima di mostrare il fianco. E così, Monicà, ora partono alte frequenze e poi quelle liquidità e poi i cori spiritualizzati e fridmannici e uno sgranchio chitarroso che chiude il tutto e sembra quest'intervista del boss di Ryanair al Guardian.
Il ragazzo londinese bianco con la chitarra in mano è un cantante soul anche se non sembra. Burial lo aveva remixato alle prese con lo standard Wayfaring Stranger. I due non si sono persi di vista e hanno collaborato a un singolo. O per meglio dire questo è diventato quanto si sente sopra: un fantasma amichetto di Burial si avvicina e riesci a sentire un suo discorso compiuto? Northern soulful house? Burial farebbe suonare così pure Toto Cutugno? Se Benga ci ha provato con Katy B, questo è il momento di occupare RTL102.5. Ad ogni modo a completare la confezione arriva anche un funzionalissimo refix di Ramadanman che per Halloween si traveste da Four Tet.
Tutti gli stick, spat, toc dell'inedito di Apparat per il suo DJ Kicks mi ipnotizzano nella loro nettezza che risalta sul mare di washing e riverberi piatti che va per la maggiore. Fiati fagotti nasalità d'ottone e pentolini sono organizzati con la ormai irritante maestria dal signorino Motor City Drum Insieme per l'anteprimo estratto da quello che si preannuncia come lo stellare disco di remix di Caribou (triplo Koze, Ikonika, Fuck Buttons, Holden, Gavino Russom, Gold Panda et al). Vincent Oliver zompetta con la sua orckestrina, il SignorBanjoNo, Ludovico Pellegrini. I Margot ci sono. James Blake affronta finalmente il suo lato pianolo, mi hanno spedito il inoltrato i link del promo del nuovo Mount Kimbie (il live al Berghaine di Maybes echeggia come risate in un cupo stanzone vuoto non ho ancora sentito il nuovo di Shed), ma non nascondiamoci che l'attesa è tutta per North dei Darkstar. Alla voce techno nera disperata travestita da dubstep invece esploro Jack Sparrow. I paesaggi, quando faccio finta che le Alpi non esistano, me li confeziona CFCF. L'ep sudanese della Innervision con guest il tipo dei Knife non si può sentire, ma è divertente. Tanto roboamore per Squarepusher roborock col primo Shobaleader.
Quando faccio la spesa al supermercato, il mio momento preferito è un piccolo ritaglio. Un pizzicotto. Separato dal freddo reparto carne di plastica (pollo di plastica, maiale di plastica, bovino di plastica, vitello di plastica) c'è un rimasuglio di infanzia, di corporeità, di calore. In quell'angolo, ogni settimana, spero di trovare un pezzo nuovo. Delle volte è cuore, polmone o banalmente fegato. È un piccolo box refrigerato separato dalla carne sostenibile, quella che non ha più niente di animalesco che è nata e morta fettina in formato famiglia, sceltissima. In quel rettangolo convivono specie, piedini di maiale, code di bue e teste di coniglio. Il vicino di scomparto ha stranezze più sottili, lo struzzo (proteina del terzo millennio che non riesce a conquistare), il cavallo con prezzi assurdi (we're not in Bari) e le quaglie (a loro modo sexy, anche se irregimentate in un ordine che urla allevamento). Mi chiedo da dove provengano tutte quelle lingue, se siano in qualche modo correlate alla tranquilla carne trita o al carpaccio per i fighetti fuori tempo. Mai ho incrociato i granelli. Non faccio testo, rincorro il pane con la milza anche qui a Torino, mi sono commosso per la ricetta del piccione di Pronti Al Peggio, quand'ero piccolo i miei compravano il coniglio solo se aveva la pelliccia, anelo alle stigghiole e agli 'nghimiridd' e per me la carnezzeria non può non avere una testa di bue appesa all'ingresso.
La carne accettabile rimuove la colpa dell'assassinio, non cola nemmeno sangue ed è pronta per il freezer. Come una cover sintetica tracciabile che sostituisce le nostre urla a quelle delle vacche.
(Prossimamente il banco del pesce: rane! razze! pescatrici! granchi azzurri! fasolari da mangiare vivi!)
In un certo senso la negazione del dubstep wonky di Joker o di quello giocoso à la Mount Kimbie e persino dei grilletti / accendini / treble di Burial. Non è dubstep, non è techno (sebbene sembri techno rallentata), non è witch-house perché nel nome non c'è nemmeno un \▲/. Il primo EP della neo%nata? Blackest Ever Black ad opera di tal(i) Raime è una tripletta di dreampop mortifero che fa strame degli Enigma, rimette in funzione asportatori di truciolo senza lubrorefrigerarli e ribolle di frequenze avvolte dalla pece. Non resta che aspettare il remix di Regis di This Foundry per poter ballare tutto questo.
Prendete il fetomeno Justin Bieber e rallentatelo dell'800%: tre minuti ignobili nascondono nelle loro pieghe trentacinque minuti di maestoso rapimento psichedel4ADico. Ragazzo Di Periferia, non sei più solo!
Questo è Sergio Giorgini che sbadiglia. Sergio Giorgini è una specie di Paul Simon che sbadiglia su pezzi techno che suonano come una discoteca di Graceland grazie al compare Bruno Pronsato (che col singolo su DFA si conferma definitivamente come uno dei più geniali cazzoni finto-ignoranti degli ultimi anni). Bonus track l'altro suo progetto in cui sbadiglia perverso a una ragazzetta francese su una roba che sembra una marcetta techno joydivisa prodotta da Gisus'n'Merypersemprechain, se mai G'nMxsmpr avessero prodotto techno.
Quando venerdì scorso alle 4, più o meno dopo un'ora di set, il buon Robag Wruhme ha liberato l'inciso originale e la voce di Shara Nelson dalle pastoie funzionali e inutili del trascurabile remix dei Kamouflage ho avuto i brividi e mi sono commosso, non solo perché mette i brividi e commuove sentire quel pezzo dei Massive su una pista da ballo, ma perché in qualche modo quel "You're the book that I have opened and now I've got to know much more"/"I'm missing every part" riassume benissimo la necessità di andare oltre e insieme la malinconia per quello che sono stati i Wighmony Brothers davanti ai piatti. Ho sollevato le braccia e ho cantato, tanto sicuramente qualcun'altro avrebbe fissato il momento per sempre, magari in una delle ultime esibizioni dei Wighnomy nello scorso dicembre con Robag a coprire Monkey Mafia che doveva andare in bagno.
La grande curiosità immagino che sia quel "Ma come sta X dopo che si è lasciato con Y?" e giocoforza si tende ad interpretare in modo morboso ogni comportamento e atteggiamento, quand'anche questo comportamento o atteggiamento sia semplicemente il risultato della giornata, storta o bella che sia stata. Evito, dunque. La data allo Spazio 211 non è stata affollatissima. Al di là dei discorsi sul fatto che ogni organizzatore viva di fedelissimi, che i posti che attirino l'utenza "casuale" sono giocoforza concentrati in due-tre zone centrali, che lo Spazio 211 sia lontano da quegli spazi e ci sia stato pure un temporalone in serata, che il nome di Gabor non sia esattamente modaiolo né tra i grezzi né tra i connoisseur, al di là di tutto ciò il pubblico si divideva tra la zona esterna, dove c'è aria si fuma si beve lo stesso la musica si sente e si può pure chiacchierare, e l'interno in cui fino alle tre l'atmosfera era più quella del pre-concerto che quella di un club nel pieno della sua serata - indovinate dove potevo essere. Gabor, che come suo solito una mezzora prima ama sedersi da qualche parte e prendere le misure alla situazione, sembra perplesso.
Poi sale sul palco – il mixer è stato spostato per l'occasione sul palco – e comincia un set da ultim'ora. Sulle ritmiche a lui care, minimali ma zompettanti, sono adagiate melodie ed echi di voci morbide. Poi è la volta di qualche intermezzo electro, acido talvolta. La pista si vuota e si riempie come un polmone ma già dopo mezzora ci sono i primi abbandoni. Unfinished Sympathy e poi un'altra quarantina di minuti con sprazzi di voce tra il soul e il sognoincubo (Lisa Gerrard!). Dopo un'ora e quaranta chiede il back to back al resident e sebbene si sciolga mentre siamo quaranta, siamo trenta, siamo venti, prendendo in carico i pezzi più romantici e cantati (e ce ne fosse uno che riconosco), il mio ricordo corre a quella magica serata e al fatto che per quanto sia stato soddisfattissimo a volte non basta che tu sia coinvolto o che il dj sia emozionante, ma serve quella specie di enorme amplificatore che è il pubblico, specie quello ruspante. Poi il finale che non è nemmeno questa volta "until the telephone started ringing ringing ringing ringing ringing off" ma una bordata di pingpongdelay su "cold nights wrapped in ecstasy". Comunque c'è tanto amore in quei dieci che "signori l'uscita è da quella parte", un attimo prima stringo la mano a Gabor. Scusate l'urlo da gallina sgozzata alla fine del video.
Il disco nuovo di Trentemøller è da latte alle ginocchia. Voleva essere il Badalamenti (Angelo) electro e invece la sensazione è quella dei film remake per la tv di Hallmark (Carrie ex sguardo di Satana passato all'ammorbidente era un caposaldo, ma qui si è più dalle parti di un Lynch nella prateria con gli spiegoni e senza i coniglioni). Unica eccezione che strappa il sorriso è quando si ricorda che faceva il puzzone bastard'ø (do you remember Chris Isaak?) e tira fuori quella che sembra una cover della colonna sonora di Pulp Fiction ad opera di DJ Shadow con la spudoratezza di un Blackeyedpeaoneeyedjackrabbitslims. Pompa.
Speravo ancora in un annuncio in extremis dei Chemical Brothers o degli Orbital al venerdì e dei Gorillaz al sabato per il Traffic Festival (Torino, metà luglio) e invece tutto quello che mi danno è Erol Alkan, gli Aeroplane e Giorgio Gigli a far compagnia a Tiga e Klaxons al venerdì e Daniele Baldelli e Dj Ebreo ad africare col figlio di Fela Kuti e Afrika Bambaataa.
The kisses of the sun were sweet I didn't blink I let it in my eyes like an exotic drink the radio playing songs that I have never heard I don't know what to say oh not another word
Domenica pomeriggio, collinetta verde del Parco del Valentino a Torino, il tempo è clemente. Io ho l'orticaria. Il ritardo strategico di un'ora non è abbastanza per evitare un'interminabile ora di attesa nel pratello indiepopabestia (tutti coi cuccioli/cani di compagnia poi) con aggiunta di famigliole e di BONGHI. In più chi riceve solitamente i miei messaggidasolitarioaiconcerti™ ha pensato bene di passare la domenica pomeriggio davanti a un Lago Dei Cigni del Bolshoi. In fine gli Iori's Eyes sono la mia morte, non tanto per il pop acustico con la solita voce frognucolosa che aveva senso coi Mercury Rev e i fratelli Pace e meno con Yuppie Flu e sempre meno viavia, quanto perché a chiusura della loro mezzora fanno partire un preset di drum machine e dell'elettronichina a cazzo che mi fanno piangere lacrime silicee: lasciate stare il bit e i beat poverini che non hanno niente a che vedere col vostro mondo.
Dice: cazzo ci sei andato a fare su una collinetta indiepop primaverile DI DOMENICA POMERIGGIO? Sono andato a vedere una tipa svedese che fa il karaoke sulla collinetta indiepop di domenica pomeriggio. Prima di fare la figura del pazzo ci tengo a dirlo: non è come sembra. Sono andato per i JJ, creatura debosciata di casa Sincerely Yours (gloria gloria a The Tough Alliance) che infiltra l'amato (anche se solito) pop balearico svedese con allusioni di gangsta rap, dance tamarra, celebrazione calcistica e droghe. Una specie di Truzzi&Emo For Africa, una sola cosa col il Padre e con i tuoi, dato che nel pratello ci sono anche alcuni immancabili pellegrini della Sindone, tutti col cappellino arancione. Quando la giovane strappona palesemente ubriaca imbraccia la chitarra, il suo cocktail al limone e i milioni di secondi di delay sulla sua voce, col compare che non sente nemmeno la necessità di muoversi dal pratello sul palco, My Life spezza l'armonia cosmica delle birrette sull'erbetta con la dolenza di The Game e A Touch Of Class. Per tre pezzi fino a una spettrale Ecstasy - bienvenido al Mi Ami ahah – temo la deriva cantautorale per quanto sfattona, fuoriposto e con le ragazze che continuano a urlarle brava mentre sotto sotto pensano grassa e brutta ("trote"). Invece arriva il colpo di genio per le prossime canzoni e, rischiando di cadere dallo sgabello, la tipa si dirige verso un pc e fa partire il karaoke: Things Will Never Be The Same Again, My Life, My Swag, From Africa To Malaga, My Hopes And Dreams, mi sembra, scorrono uguali su disco. Lei finisce il cocktail e continua a succhiare la scorza di limone perché nessuno gliene porta un altro – vorrei farlo io, ma desisto, evito sempre gesti che richiamano troppo l'attenzione – ed è visibilmente poco a suo agio e quello scarto tra pratello fighello e karaoke malinconico ubriaco da baretto di spiaggia di provincia viene amplificato di non so quanti decibel, e sta per finire un altro weekend, se ne va coi cori in tele il weekend, anche se non si sono portati appresso Ibrahimovic. Poi stacca il karaoke e chiude con Let Go acustica e se ne va dai Tough Alliance e dal compare genio che probabilmente le dirà "brava ma se avessimo messo il cd ti saresti presa il sole pure tu".
In teoria ci sarebbe stato anche il dj set dei Tough Alliance, ma sono andato a farmi dare del negro da Horas (per i non Torinesi, sono andato a prendermi un kebab in un luogo vicino alla collinetta) e quando sono tornato la musica era bassissima e l'idea di aspettare un tempo indefinito non mi allettava certo. In fondo la domenica mi aveva soddisfatto. Era cominciata con Radiation Ruling The Nation, ché il disco della Thorn mi ha deluso e guardo Luther per riconciliarmi con i Massive Attack e i JJ sono disco da domenica mattina così come da quindici anni a questa parte No Protection e anche i dubboni successivi del cofanetto dei singoli, e avevo pranzato con The Hangover pensando che al massimo il risultato di un mio hangover è che non mi ricordo che pezzi ha messo Kode9 nel suo dj set due settimane fa. Una bella domenica e, come Mourinho, non mi sento a casa.