30.12.04

People Get Ready


Un due tre. Ecco cosa c’è. Cioè, no, non volevo dire questo. Tutti alle prese coi loro bilanci. Non ci saranno manovre correttive nel 2005, questi sono i migliori dieci dischi che non sentirai mai. Io quest’anno di bilanci non voglio sentire parlare. Anche perché io continuo a vivere nel sistema che prevede l’inizio dell’anno nella seconda settimana di Settembre. ‘74-‘75. Una vecchia abitudine nata con la scuola, ma che continua a regolare i miei cicli e ricicli. Pensaci, cosa cambia tra quello che stai facendo a Dicembre e quello che farai a Gennaio? Poco. Ad Agosto sai che invece tutto sta per cambiare, anche se hai le tue certezze, i libri del biennio/triennio, i vocabolari, i compagni di classe.
Che senso avrebbe, d’altra parte, giudicare il 2001, il 2002, il 2003 o il 2004 se gli eventi cruciali sono ancora più o meno a metà anno come nei campionati di tutte le discipline sportive? Ha senso ricordare le riflessioni isolate del campione di scacchi alla fine della carriera (anno 2001/2002), la transizione in sospensione del funambolico giocatore di pallacanestro (anno 2002/2003), le pedalate per l’Italia dell’instancabile ciclista (anno 2003/2004) o l’anno in cui il calciatore con la faccia da ragazzino è passato dalla primavera alla prima* squadra (anno 2004/2005). Se però voi siete dell’idea che stia per iniziare qualcosa, illusi, vi lascio con un augurio prima di prendere il primo treno per Roma e andare a festeggiare il centro esatto di quest’anno al centro del paese: che possiate avere tutto ciò che non vi aspettate dal 2005. Un due tre.

*voluto e non velato giuoco di parole

Una tastiera e uno stomaco


Oggi ti parlo di un disco brutto per cui provo piacere fisico, non mediato. Cose come questa mi hanno convinto tempo fa che non sarei stato buono a scrivere di musica sul serio. Per quanto romantico possa essere un ragazzo che apre un sacchetto e dice “ehi, queste sono le conchiglie che mi piacciono, sono anche tue”, quel ragazzo prima o poi si troverà davanti a un dilemma irrisolvibile: cosa dico loro? Che è una porcata o che l’ho sentito dieci volte oggi?

Degli M83 ti avevo detto già qualcosa quand’ero dall’altra parte: un incrocio ambivalente di modernariato tastieristico massimale e distorsioni/vocifiltrate/silenzi alla maniera dei beniamini che si guardavano le scarpe. Nel frattempo in Before The Dawn Heals Us sono diventati anche peggio. Spingendo sul pedale dell’epicità hanno accentuato tutti i loro lati possibili e accentuabili. Le tastiere sono diventate ancora più pompose. Il maggiore uso delle voci ha spinto il lato sentimentale dolciastro. E nei momenti più casinisti il casino che fanno per chitarre e synth è ancora più casino.

Cosa mi attira allora? Non certo il loro lato ambientale. Delle loro canzoni “non rumorose” amo soltanto Safe, perché per quanto risenta della melensaggine dell’astronomia decadente ha un bell’inizio e una bella fine, e la splendida Farewell/Goodbye. Farewell/Goodbye ha la bellezza (sotto anestesia però) delle più orribili canzoni d’amore degli anni Ottanta, quelle che erano rimaste appiccicate come chewing gum sotto ai banchi ed erano arrivate fino alle feste che frequentavano i miei coetanei alla fine del decennio in questione. Duetto maschile femminile, lui sconsolato, lei con una non voce aspirata che aumenta di volume via via che si separano. Vattene un po’, che pace più non avrò:
Il Tempo Delle Mele se fosse stato diretto dal Lynch di quegli anni.

Vado invece matto per il loro lato rumoroso. Don’t Save Us From The Flames, Fields, Shorelines and Hunters, la seconda parte di Car Chase Terror! (una canzone per capire che secondo me ci fanno) e soprattutto la sei senza titolo, Teen Angst (How fast we…) e A Guitar And A Heart (ah, quella cassaquattro). Ai limiti del peggiore rock da stadio in certi casi, cambiano di nuovo modo di usare le tastiere e dove non le impiegano per distorcere e saturare, si servono di loro in chiave melodica alla maniera semplicistica di certo pop sintetico ancora proveniente dagli anni Ottanta (o dalla Francia se preferisci). Ma tutti questi discorsi si perdono perché il bisogno che provo verso queste canzoni non è sul piano musicale quanto su quello delle dinamiche e delle potenze. Voglio alzare il volume dello stereo, degli altoparlanti del pc, delle cuffie e sentire la vibrazione della potenza che mi scuote. Dal vivo mi era capitata questa cosa solo un’altra volta, coi Mogwai. Ne avevo sentito di concerti rumorosi da infastidire i timpani, ma i Mogwai dal vivo ti prendono la cassa toracica ai lati e te la senti scuotere avanti e indietro e provi piacere. Con gli M83 rumorosi è un po’ così, una questione di pancia e di piedi. Ma non so perché ti sto dicendo questo.

29.12.04

Sorpresa del pomeriggio



Un motivo per fare meno straordinari al ritorno al lavoro.


18 Sekúndur Fyrir Sólarupprás



31.7 secondi dopo Waking Life

27.12.04

Until The Boat Floats On, Let It Float On


Non avevo dimenticato che casa propria può essere il posto più straniero di tutti. [L’amore non guasta - Jonathan Coe]
Goonies never say die! [The Goonies]

Canyglow, canyglow, canyglow don't say nugo. Le prostitute sulla baleniera in quarantena fanno sconti ai marinai quasi al verde. Attendono il segnale di via libera per scendere e non essere arrestate dalle guardie, ma una tempesta trascina la nave in alto mare. Gli indigeni che recuperano la baleniera le vendono come schiave. Ma è subito fuga, blues andante, dal Giappone all’Artide, danze d’amore di tamburelli inuit, fino all’arrivo a Terranova, l’undici giugno.

Stavo per scrivere del cartone animato di Natale. Un fratello e una sorella, due ragazzini che raccontano storie. Poi mi sono accorto che hanno fatto di più. Quando anch’io ero un ragazzino volevo un generatore di videogiochi. Io ci mettevo la storia e il Commodore 64 tirava fuori sprite a otto bit, sfondi e livelli. The Fiery Furnaces lo hanno costruito e hanno premuto shift+run/stop.

Cursing myself cause I got there too late. La Juventus (e l’Inter) in un internet café sperduto a Damasco. Corse a bordo di macchine scassate uscite da un garage rock, da una parte all’altra per vendere di più, noi Ericsson contro voi Nokia (e via di finnici giochi di parole). Telefonini lapidati per motivi religiosi. Licenziamento e ricerca in Georgia, poi a Baku, poi in teleconferenza verso Houston. Non serve a niente perché per un venditore la via retta non è quella da preferire tra due punti.

At dawn I had a scotch and made them switch off the porn cause there’s nothing that’s dirty about the ocean in the morn. I pirati esistono ancora. Il capitano Eleanor al suo primo carico di mirtilli attraversa lo stretto di Taiwan verso la vecchia Hong Kong e controlla sul radar le navi sospette. Cambio quadro. I pirati sono beat sintetico e aggressivo fino a quando ti si avvicinano, poi sono il silenzio. Entrano in una scena in bianco e nero, film muto e pianoforte in sottofondo, invisibili alla luce del sole. Lei urla fiera prima di annegare in fondo al mare. Potrete tagliare la gola al capitano, ma non avrete mai il suo carico.


Questo disco è un quasi concept. Tutto sembra sconnesso, non legato da un tempo, da un luogo, da persone. O forse è il contrario, il segreto per ricomporre il quadro sono gli scostamenti, le immagini fantastiche che ci inventiamo perché non viviamo più sulle navi.

She makes me wanna scream. Un’operetta assurda sulle gelosie adolescenziali da high-school girata da Wes Anderson. Il college-rock è il filo conduttore e quanto più il tema diventa banale, tanto più si succedono le invenzioni (il ragazzo di Jessica che si distrae mentre le parla al telefono e la immagina come un uccellino con tanto di onomatopee). In tutto questo Chris Michaels è solo il proprietario della carta di credito rubata.

The King of Spain don’t care. La canzone è il termine di un’altra storia (Quay Cur?), una fuga è andata male e la protagonista è legata a un albero di Paw Paw in attesa di essere giustiziata. Garage blues da dead woman waiting con tanto di tamburi indigeni in sottofondo.


Si potrebbe facilmente dire che Blueberry Boat è il solito mattone progressive. Blueberry Boat invece è regressive. Nel suo riavvolgere continuamente la storia della musica, sia in maniera ironica che in maniera amorevole, non rimane vittima della Sindrome dell’Ombelico del Gigante (dal nome dell’omonimo gruppo italiano progressive della Mellow). Eppoi la disco fa schifo al prog e le vendite del prog sono destinate a crollare nei primi del 2005, come dice Disco Stu.

My dog was lost but now he’s found. Il genio. Continua dalla precedente come se fossero legate e invece no. Ho maltrattato il mio cane e lui se n’è andato come nel più classico dei classici del litigio domestico matrimoniale. Lei ha chiesto ai gatti della lavanderia, in palestra, al supermercato ma nessuno l’ha più visto. Pianoforte e chitarra la conducono in chiesa dove il cane sta recitando un sermone. Il cane aveva infatti visto la luce, in un rovesciamento acrobatico degli stereotipi del country-blues.

Came a card marked Mason City from my forwarder. Una storia di eredità (?) viene raccontata attraverso gli anni sessanta flower-power.

I wanted to be a typewriter mender. In tre atti la storia di un fallimento, la sconnessa storia del capo ispettore biancofiore. Un bambino da grande vuole fare il riparatore di macchine per scrivere ma non lo diventerà mai. Il suo disordine da mancanza d’attenzione glielo impedirà. L’iperattività selettiva è la forma della canzone. Il primo atto è un Kid-A autistico ora-sto-giocando-nella-mia-piccola-casetta. E allora è entrato in polizia. Stacco assurdo, secondo atto. In un sogno disco-bambino si immagina detective nell’Inghilterra rurale del secolo scorso, l’Inghilterra dei fattori, del thè e delle drum-machine. Il terzo atto si lega rallentando la musica, con un carrello laterale sul protagonista che corre in moto verso Springfield col fratello Michael. Dopo una bevuta scopre che Michael frequenta la sua ex, Jenny. Decide di rivederla e le dice che secondo lui vuole solo prendersi una vendetta nei suoi confronti. Poi torna a Springfield sulla macchina della moglie per ubriacarsi a un bar. Il patetico finale viene reso con un patetico assolo da un minuto e mezzo (la pateticità è nell’occhio di chi guarda, no?). Stupentemente stupendo.


Il disordine da mancanza di attenzione è il regista. Ora che il tasto FFWD non esiste più per conto suo devi tenere premuto SKIP. Ma se per sbaglio lo lasci andare troppo velocemente passi alla traccia successiva. Questo è il disco del tasto SKIP. Che tu lo prema o no il risultato sarà lo stesso.

The pain, the pain, in Spain falls mainly on me. Per immagini una ragazza americana “volontaria della ricerca” racconta il disagio della vita in Spagna, rinchiusa in una nave dal suo rapitore, costretta dalla bigotteria e alimentata con pillole che le bloccano la crescita. Il suo unico rifugio è la sua chitarra con cui storpia triste My Fair Lady.

So I ask Dad, Why can’t we ever win, ever win, once? Marinai bambini ubriachi di bit e sherry raccontano le loro sconfitte davanti al fuoco prima di andare a dormire. È il 1917.


Avanti il prossimo: tu dici che le forme strutturali sono prese dagli Who perché uno dei due Furnaces li venera, tu sottolinei il debito alle solide architetture prog nonostante le strutture vogliano rappresentare la fragilità del disordine, tu dici Beatles, tu dici Rolling Stones. E tu, giovine, vieni qui e mi dici che ti sembra che i Flaming Lips abbiano raccontato alla maniera frammentosa dei Liars le storie dei Decemberists con un pizzico di Heather Parisi. Non vi accorgete che siete contraddittori? (e dopotutto la contraddizione è il sale della vita).

I hate the livery cars that have my bird brain seeing stars, That drive my Doberman to drink in bars. Odio i treni, gli aerei e le auto perché fanno impazzire col loro rumore me e i miei cani. Ma non le navi. E non abbiamo dovuto nemmeno aspettare un duetto Bjork-Flaming Lips per scoprirlo!

Catamaran Man you’re my cousin you’re my blood you’re ten feet tall. Il marinaio sulla terraferma non può che sognare il mare in un breve intermezzo verso la fine. Il suono è un basso dub.


Alcune di queste canzoni sono come matrioske rotte. Cerchi di aprirle e sembrano incastrate, ma poi all’improvviso la più grande si svita e ne vengono fuori due e una è di cristallo, si rompe e fa un rumore che non sentirai più per tutto il disco.

Prendi la tua trombetta, la tua trombetta di plastica. Prendi il tuo tamburello, il tuo tamburello FisherPrice. Prendi la tua pianola, la tua pianola Samsung Bontempi.
Turn off your radio
shut away your stereo
put away your discman
and play me a tune today


Madame Professor says Well done.
But an electric stroboscopic frequency meter’d say otherwise.

[The Fiery Furnaces]

Credits:
Max-IBDD: perché questo disco aveva avuto una sola possibilità, distratta, su un pullman da Palermo a Bari ed era stato bollato come cervellotico. Diamo sempre più spesso un’unica possibilità ai dischi (ma anche ai film, ai libri, alle persone). A volte nemmeno quella. E invece certi dischi hanno bisogno di attenzione per poi sentirli piacevolmente disattenti.
Clap Clap: perché gran parte di questo post è fatto delle sue riflessioni e intuizioni e del suo enorme lavoro sulle strutture del disco, mai slegato dalle storie raccontate o da come sono state raccontate. La mappa del tesoro è opera sua.
Empty’s Room: per l’immagine delle matrioske rotte, che è sua.

23.12.04

Smiling (a)way home


Another Christmas Day. Metto su un lento e, ciao, a tra un po’.

Le mie cose hanno i nomi /2


La mia azienda mi vuole bene. Mi ha regalato un portatile leggero e cromato. Scriverò grazie a lui in futuro in maniera diversa, ancora una volta, perché la tastiera sembra meno resistente. Scriverò in viaggio perché la batteriaricaricabile è nuova e non è vittima della sua memoria. La mia azienda mi vuole bene e mi ha regalato un portatile con molta meno memoria di quanto mi serviva. Sanno che lavoro contro la memoria e che cerco di essere meno bravo quando gioco. Avevo deciso di chiamarlo Oblio, ma lui mi aiuta solo nel breve termine e per questo lo chiamerò Memento.

La mia azienda non mi vuole bene. Non sa nemmeno che non mi piacciono i canditi.

21.12.04

Più Scene per tutti


Sono onorato di aver ricevuto l'incarico di Ministro per gli Affari Regionali nel nuovo governo ombra. Sento insieme l'orgoglio e la responsabilità per un dicastero cruciale in giorni che cambieranno il nostro Stato. Nel mio saluto ai cittadini ho anche comunicato l'intenzione di adeguare il nome del dicastero in "Ministero delle Scene", secondo quanto proposto dall'ultima revisione della proposta di legge sul federalismo.
In fede Maxenricolaloggiacar



Candid Camera-shy


Mi ero accorto delle telecamere nascoste. Ma non sospettavo minimamente che la candid camera in cui sono capitato fosse girata da Lars Von Trier.
Lars, avanti, vieni fuori e autografami le videocassette de Il Regno.

(E lo sappiamo che questo è l’anno delle cover e potremmo fare liste dei dieci migliori dischi dell’anno scegliendo soltanto dischi di XsingsY, ma chi lo immaginava che su un auto posso montare una cover del treno posteriore.
E chi lo immaginava che dentro un auto c’è un treno.
I’ll go through all this.)

20.12.04

L’ironia della puntualità


E chi lo sapeva che illo tempore ero finito sull’Avvenire.

Rome Calling


Vuoi evitare di passare l’ultimo dell’anno al cenone del circo Medrano tanto sai che la contorsionista ha già una storia con l’arrotino del lanciatore di coltelli? Vuoi fuggire dal capodanno cortinese perché hai litigato con Marta Marzotto per colpa dei Franz Ferdinand? Vuoi disertare la festa in piazza a Valguarnera Caropepe perché ogni anno ti sporcano i vestiti con spumanti puzzoni? Roma è il posto per te, anche se ancora non sappiamo cosa fare. Rimboccati anche tu le mani e punta l’indice verso lei (so che mi pentirò di ciò (faccine sorridenti)). Per quanto mi riguarda ci sarò, anche se ancora non ho deciso se ripartire alle sette di mattina o alle undici.

Shocking my town




Mi unisco ai cialtroni che lavorano di *shop e vi risparmio l’altra coi Pixies.
E anch'io chiedo perdono a Fio.

17.12.04

Awards for russian polar bears


Una nuova fine


I testacoda capitano quando si è ubriachi, ma non lo ero.
I testacoda capitano quando si va troppo veloce, ma andavo piano.
I testacoda capitano quando piove forte, ma l’asfalto era appena umido, al massimo salmastro.
I testacoda capitano nella serata di sabato quando i meccanici sono tutti chiusi, ma questo ha scelto con ironia un giovedì notte prima di un giorno pieno di lavoro.
I testacoda spezzano i braccetti delle sospensioni, ma questo li ha soltanto piegati, quanto basta per non poter tornare a casa da solo.
I testacoda ti fanno male, ma io non mi sono fatto niente.
I testacoda ti fanno incazzare, ma io ero calmo, catatonico.
Testacoda come questi ti fanno pensare qualcosa, ed è quel qualcosa che non va.
Buon venerdì 17, per chi ci crede.

15.12.04

14.12.04

All That I Came For


Di come io, delio ed (E)Lisa prendemmo una macchina e andammo. Di come quei due giorni furono di musica, facce, parole e sapori. Di come quei momenti furono così diversi dalla prima volta a Bologna: quelle che insieme ai Radio Dept. furono esplosioni spezzate, intense e veloci, in quei giorni consacrati ai Delgados furono crescendo inaspettati, che si rincorrevano senza il desiderio di essere storici. Pronti? Get Action!


Everybody come down


Il concerto al Covo è stato aperto dai Micecars. Quando siamo arrivati ho incrociato Emiliano, che mi ha presentato il mio omonimo Massimiliano. Tutti e due sentivano la tensione di una prova importante, quella che quando ce l’hai cominci a guardare in tutte le direzioni mentre parli. Subito dopo sul palco i Micecars mi sono sembrati buoni, ben bilanciati tra pop energetico e rock fratturato. Su disco probabilmente guadagneranno anche in particolari sonori che già si intravedevano dal vivo. (Senti: Hulk Hogan (Torch Song))

I Delgados attaccano come in Universal Audio. Dal loro aspetto sembra che non si rendano conto della potenza che hanno a disposizione. Mai scomposti, anche nell’alternarsi,
Alun


ed
Emma


producono il consueto miscuglio di melodia porcellanata e ruvidezze che tanto me li fa amare. Emma tiene gli occhi sempre chiusi o semichiusi, ma si concede un’aria più rilassata per Everybody Come Down. Il set è incentrato sull’ultimo disco, anche se non mancano una buona metà di Hate e diversi classici da Peloton e The Great Eastern. I pezzi sono suonati in maniera uniforme secondo lo stile di Universal Audio, anche se qualche aggiunta campionata è garantita alle canzoni di Hate. Coming In From The Cold viene svolta in una versione acustica che non la priva di bellezza e punta molto sulla presenza scenica di Emma, più che sulle dinamiche Flaminglipsose di Dave Friedman. L’assenza di intermezzi parlati ha reso il concerto molto denso e la scelta delle alternanze ha rispecchiato i bilanciamenti tra elementi diversi presenti nella storia del gruppo. Acqua e zucchero, ne volevo ancora di più. (Senti: Coming In From The Cold (Live))

I livelli della conoscenza


La prima volta che incontro un blogger sono per lo più convenenoli, a volte complimenti, spesso silenzi imbarazzati.
La seconda volta che incontro un blogger è sempre di sfuggita, ma prima o poi ci si rivede.
La terza volta che incontro un blogger sono lunghe chiacchierate in cui non so mai cosa dire finché non lo dico.
La quarta volta che incontro un blogger sono pettegolezzi e gossip.
La quinta volta che incontro un blogger si va al cinema.
La sesta volta che incontro un blogger si spiega a un nostro/a/suo/a amico/a cos’è un blog senza nominarlo dopo la fatidica domanda “Ma voi due come vi siete conosciuti?”.
La settima volta che incontro un blogger si forma una coppia comica che se ci fosse ancora Premiatissima avremmo un posto assicurato.
L’ottava volta che incontro un blogger ci si dà all’alcool.
La nona volta che incontro un blogger non succede nulla di preciso.
La decima volta che incontro un blogger si parla della prima volta che ho incontrato un blogger.
C’est la cristallisation, anche se non comme dit Stendhal.


The Past That Suits You Best


Avevamo da poco stigmatizzato il triste fenomeno dei punkabbestia. Dopo lunghe discussioni, intricate da parentesi bibliche e analisi dei testi dei Ricchi e Poveri (la logica stringente di Se c’è confusione, sarà perché ti amo. Ma se l’amore non c’è, basta una sola canzone, per far confusione), dopo tutto ciò si era pervenuti a dare il valore di indie-humus alla Nouvelle Vague. Giacchèsicera si era parlato bene anche dell’omonimo disco. A questo punto ci rendevamo conto tra una crescentina e l’altra di come in misure diverse gli autori del movimento avevano posto le basi su cui si sarebbero mosse le nostre riflessioni, argute e unte di squaqquerone.

[Stacco brusco di montaggio]

Ragazzi e ragazze vestiti con tute antiradiazioni distribuiscono patetici volantini del nuovo disco degli U2 su marciapiedi trafficati, lo danno anche a noi. Siamo vicini a un megastore e, toh, io e delio cogliamo l’occasione per presentarci e salutare lei. Ma ci accorgiamo che è impegnatissima e non vogliamo disturbarla e allora, pervasi di improvvisa e leggera nuov’onda, trasformiamo la scena in bianco e nero. Ci fingiamo boicottatori di How To Dismantle An Atomic Bomb e ci pariamo davanti a un ripiano pieno di versioni limitate per scrivere sul volantino un saluto. Poi passiamo veloci e lasciamo il biglietto vicino alla cassa e ci allontaniamo, guardandola. Lei non lo legge, nota forse i nomi alla fine. Solleva gli occhi e ci sorride. Noi scappiamo. Totò, Peppino e la nouvelle vague.

Qui apparirà un post che ancora non ho scritto

Svizzera


I Delgados il giorno dopo erano in Svizzera. Gli Young Gods sono un gruppo svizzero. Il gruppo spagnolo in realtà è svizzero, come dice Camillo. E poi, Audrey, che si pronuncia Odrè. Audrey è di Ginevra e ti ricordavo proprio così. Audrey è da qualche mese a Bologna e studia Scienze dell’Educazione. Audrey alle tre e mezza è inseguita da qualcuno e allora si unisce a noi e fa finta di conoscerci. La accompagnamo lungo Via Sant’Isaia, in direzione opposta alla nostra per qualche metro, perché siamo dei supereroi, We can disappear, we can reappear. Audrey ride random. È già stata in Puglia (delio, gesto dell’ombrello, tiè), non è mai stata a Palermo, le piacerebbe. Io la saluto, delio le regala un sacchetto profumato. Audrey, l’ossessione del risveglio di domenica mattina.

Reasons for silence


Una bella discussione sulla bella sensazione di stare in silenzio insieme.

Russian orthodox/It feels like spying


Come già ho spiegato, scherzavo sulla storia dell’agente segreto.

Coming In From The Cold


Quest’anno non farò il nastrone di Natale per le colleghe di lavoro.

Blogtitolidicoda


Grazie e saluti a:
Ilblogdelladomenica: senza l’ospitalità di Massimo, che non sarà mai abbastanza ringraziata, non so se saremmo stati qui a raccontare da vivi queste cose. Chapeau!
Inkiostro, detto l’insegnante gossiparo.
Polaroid, anche se Enzo mi ha accusato di trattare con freddezza Jens Lekman e anche se La Laura sta per andare nel continente del 2005.
Lucio, che dove ci sono blogger, lui c’è.
Bea, che ha ballato tutto il tempo nelle nostre vicinanze e poi quando se ne stava andando Fabrizio mi ha detto che c’era anche lei e allora all’urlo di Beatroce! io e delio ci siamo fiondati per presentarci e salutare.
Gomitolo, il blogger con la chitarra in mano sul palco.
Shoegazer, che ha citato Il Principe Cerca Moglie.
Giulia Blasi, scatenata sulla pista e zoppicante il giorno dopo causa urto piede-arredamento.
Indiechi e i suoi propositi verso Emma Pollock.
Elis, che sperò riprenderà presto.
Nin-com-pop, in prima fila come promesso.
Blue Blanket, con cui abbiamo parlato di Decemberists.
Il Grande Freddo, che mi ha aiutato a ritrovare Elisa.
La Fagotta, che sono quasi sicuro di aver conosciuto ai Radio Dept. e che era incasinata alla cassa con una fila interminabile e nonostante tutto ha trovato il tempo di sorriderci.
A Day In The Life, che ci ha introdotto alle meraviglie di Beppe Maniglia.
Enver, che ringrazio per la “compila” e che vorrei presto sentire mettere i dischi (molto più che EnzoP, eh).
Pulsatilla, Livefast/Sviluppina e delio e le loro sigarette di droga che io non fumo in quanto matusa.
Tutti quelli che mancavano (gnegnegnè, pensate a quando mi sono perso Decemberists e Broken Social Scene).
Me, in quanto narciso autoreferenziale.

9.12.04

The Light Before We Land 3000


Ci si vede domani a Bologna? Ho scoperto poco fa che posso. Il mio capo mi stava precettando per una trasferta a Toronto (o Taranto, non ricordo), ma ho fatto la voce grossa. Io, mister iba e la cara amica Elisa. Io e delio poi saremmo disponibili nel dopo-serata per un simpatico spettacolino che prevederà imitazioni del cane Spank, il numero di M&D, le scimmiette acrobate, e udite udite un indieblog award per il/la mecenate. Salvate anche voi M&D dalle intemperie notturne!

Update: ma forse questo non ti basta? E allora si parte con le specialità etniche che i nostri offriranno al/la fortunato/a. Per esempio quest'esclusiva cassetta di frutta di martorana del mese scorso. Certo, è stata comprata al supermercato e non ci ha convinto il suo sapore, ma la potrai sempre utilizzare come uno sciccosissimo oggetto di arredamento indiepop, almeno fino a quando le formiche non se ne accorgeranno. Fashion, ma non victim.

Bonus track /1: Il suono della città


Il primo contatto musicale con SP è stato nel minimarket sotto casa, mentre cerco qualcosa per la colazione del giorno dopo il primo giorno. Io so come si dice latte in russo, il mio collega per ovvi motivi no e si stupisce della mia conoscenza. Mentre disquisisco di pareti, latte più e ragazzotte chiamate Roisin, i diffusori audio ripescano Tarzan Boy. Deve andare molto in Russia perché anche nel primo ristorante dove proviamo invano a cenare ci accoglie la stessa canzone. Nel secondo ristorante, Kalinka, la cameriera parla italiano e si preoccupa della quantità di grasso presente nel piatto da me richiesto. Lì pervengo alla conclusione che il mainstream russo è dominato da due categorie: house con vocetta femminile e cantante maschio piagnone.
Sbirciando le reazioni delle persone alle sonorizzazioni di negozi, caffè e strade, ho notato che le ragazze prediligono la maledetta e fastidiosa anzichenò figura del cantante maschio piagnone. Non so se dipenda dalla ruvidezza predominante nella loro società, ma i muri sono tappezzati di poster di cantanti noti solo per il loro nome, una sorta di invasione di cloni di Christian, l'indimenticato usignolo di Boccadifalco.
La musica italiana è un punto fermo, in ogni senso, come diceva l'amaro cantore. Paul McCartney avrà riempito piazze e teatri qui in Russia, ma non raggiunge i livelli di ammirazione che sono riservati a Ricchi E Poveri, Toto Cutugno e Al Bano, dei quali trovate divertentissimi bootleg nei negozietti dei sottopassaggi del centro. La traduzione stilisticamente rispettosa in russo di Parole, parole sentita nel negozio di souvenir mi aveva bendisposto, ma all'uscita la Nevskij Prospekt era allietata dal chioschetto dei cd che sparava a tutto volume uno degli ultimi Celentano. Celentano in Russia è una sorta di divinità della musica e della commedia. Ma non tutti sono rimasti ancorati a San Remo, tanto che una ragazza in un programma televisivo, durante un servizio su una qualche discoteca, indossava una maglietta con la scritta cubitale "Tu sei bellissima", dovuta probabilmente al tormentone di Neffa.
Come si sarà capito da quanto detto sugli italiani, vi sarete accorti che se siete degli one-hit-wonder o degli scarponi caduti in disuso, il posto per voi è la Russia. A tal proposito in televisione ho visto il video del nuovo singolo dei London Beat, che nel frattempo si sono dotati di capigliature bizzarre e di immagini esplicite. I russi amano poi tantissimo i Rammstein, a San Pietroburgo il primo venerdì del mio soggiorno (delio, davvero). Il St. Petersburg Times ha anche cercato di imbastire una polemica tra Rammstein e Blixa Bargeld: Bargeld nel febbraio scorso(!) aveva dichiarato a SP che i Rammstein sfruttano e assecondano gli stereotipi americani sui tedeschi. Leggendo lo stesso giornale ho scoperto che i Pram stavano suonando da un quarto d'ora al Red Club, dall'altra parte della città.
Per una descrizione delle band del momento e dei posti dove sentire e ballare musica (il sottobosco vivacchia anche lì tra Dascha, Fish Fabrique, Moloko e Red Club) vi rimando al prossimo episodio tra circa due mesi, quando mi avventurerò da solo per SP in barba alla casalinghitudine del collega.

6.12.04

Non-post: Aeroporto


È evidente che deve esserci un legame spirituale – una sacra alleanza, una solenne comunione d’idee – tra aeroporti e romanzi spazzatura. Richard, almeno, si era fatto quest’idea.
I romanzi spazzatura si vendono negli aeroporti. I frequentatori di aeroporti comprano e leggono romanzi spazzatura. I romanzi spazzatura parlano di gente negli aeroporti, un po’ perché i romanzi spazzatura si servono degli aeroporti per spedire i loro personaggi a zonzo per il pianeta, e un po’ perché gli aeroporti fanno da sfondo, nei romanzi spazzatura, ai loro distacchi, incontri casuali, convegni e appuntamenti.
Certi romanzi spazzatura parlano solo di aeroporti. Certi romanzi spazzatura sono addirittura intitolati Aeroporto o qualcosa del genere. Perché, allora, potreste chiedervi, non esiste un aeroporto chiamato Romanzo Spazzatura? I film tratti da romanzi spazzatura, naturalmente, fanno grande affidamento sull’ambientazione negli aeroporti. Perché allora negli aeroporti non ti capita mai di assistere alla trasformazione di romanzi spazzatura in film? Forse esiste davvero un intero aeroporto, chiamato Aeroporto del Romanzo Spazzatura, o magari con un nome più stiloso, come Manderley International Junk Novel Airport, dove li girano tutti. Non sarebbe un aeroporto vero ma un modello in grandezza naturale in chissà quale cinecittà, tutto bidimensionale e fatto di plastica, carta stagnola e altro pattume.
I personaggi dei romanzi spazzatura, invece, non leggono romanzi spazzatura nemmeno quando sono all’aeroporto. Differenziandosi in questo da tutti gli altri frequentatori di aeroporti. Leggono testamenti e pubblicazioni di matrimonio. Talvolta, se sono intellettuali, o raffinati intenditori, o grandi ingegni, viene loro consentito di leggere romanzi non-spazzatura. Anche se nella realtà i lettori di romanzi non-spazzatura, persino gli scrittori di romanzi non-spazzatura, quando (e solo quando) si trovano in un aeroporto, leggono romanzi spazzatura.
I romanzi spazzatura esistono almeno da quando esistono i romanzi non-spazzatura. Gli aeroporti, invece, non esistono da molto tempo. Però gli uni e gli altri hanno spiccato il volo contemporaneamente. I lettori di romanzi spazzatura e i frequentatori di aeroporti vogliono la stessa cosa: evasione, e rapido trasferimento da un romanzo spazzatura all’altro, da un aeroporto all’altro.

Qualunque cosa siano, comunque funzionino, i romanzi spazzatura sono affini alla psicoterapia; anche gli aeroporti sono affini alla psicoterapia. Gli uni e gli altri appartengono alla cultura della sala d’aspetto. Musica via cavo, linguaggio tranquillizzante e suadente. Da questa parte – sì, l’assistente di volo si occuperà subito di lei. Aeroporti, romanzi spazzatura: ti strappano la mente dalla paura della morte.

(Parole di Martin Amis, da L’informazione.

Per l’episodio ambientato all’aeroporto Pulkovo 2,
Io e la bionda del duty free shop, separati da un vetro trasparente:
musica di Adriano Celentano, Susanna.

Per l’episodio ambientato all’aeroporto Pulkovo 2,
Bagagli pericolosi:
musica di The Flaming Lips, Zaireeka – Stereo Mixdown.

Per l’episodio ambientato all’aeroporto di Malpensa,
Fissando i gradini della scala mobile dalla sala d’aspetto:
musica di The Olivia Tremor Control, Dusk At Cubist Castle.

Per l’episodio ambientato all’aeroporto di Palese,
Il Ritorno:
musica di The Go! Team, Everyone’s a VIP to someone.)

2.12.04

Let's get lost


Ipnotizzato. Per quanto possano avermi colpito i vari Picasso, Cezanne, Matisse, Renoir e via dicendo, all'Hermitage vengo accalappiato da un accademico francese e da due sue donne. Resto per minuti interi imbambolato davanti a due quadri di Delaroche che non hanno rivoluzionato, che non hanno detto 'ehi, io sono il quadro che cambierà la storia', due quadri che poteva avere tua zia a casa, quella zia che quando da piccolo la salutavi, odorava di cipolla e ti regalava caramelle alla cannella a forma di corallo azzurro.

Henrietta è un bel nome. Henrietta è il nome di Henrietta Sontag e nel suo ritratto mi attraggono i particolari contrastanti del viso. Gli angoli della bocca accennano un sorriso mentre il labbro inferiore è proteso in avanti come quello che sta per scoppiare in un pianto a dirotto. Le palpebre sembrano serene, ma gli occhi sono opachi di lacrime. Il suo viso è passato, gli occhi enormi.



La giovane martire riposa nel lago di Tiberiade. Il quadro mette da parte il sacro, l'aureola è un cerchio per capelli che galleggia vicino al corpo. Niente violenza, niente santità, solo tranquillità e i resti di una sensualità che galleggia sulla superficie dell'acqua, nei suoi capelli rossi sciolti e ancora ricci. Le sto davanti per minuti, mi ispira le canzoni dell'ultimo Elliot Smith e la fine della bellezza. Lei diceva «Per favore, rimani», io le rispondevo «E tu non andare giù, stai con me». I rumori del lago erano in sottofondo a Twilight, mentre mi allontanavo, senza distogliere lo sguardo.



Ultimo minuto


Girando per l’istituto, curioso miscuglio tra la grandezza sovietica in decadenza e il laboratorio-cantina in cui mio zio prepara soprammobili di sughero, mi colpisce un orologio. Ci si attacca a tutto pur di evitare che i silenzi con queste persone superino la durata di dieci minuti e allora dico al referente che forse l'orologio del mio computer è avanti. Lui risponde che quell’orologio è fermo. «Perestrojka», dice. E io penso, che forza. Quando Gorbaciov si è grattato la testa, ha chiamato la Pravda e il primo canale della tivvù di stato e ha detto facendo spallucce «Perestrojka», quella volta hanno tolto le batterie a tutti gli orologi degli uffici di stato. Per ricordare come in un secondo cerchi di cancellare i difetti di decenni.

Continuando a camminare incrociamo un secondo orologio e l'orario in cui si è fermato è diverso. Con l'arrivo della Perestrojka, mi ha spiegato il referente, furono necessari dei tagli. L'ente che si occupava di controllare gli orologi nelle strutture pubbliche e militari fu tagliato. Da allora gli orologi furono lasciati a loro stessi e alla loro corsa verso l'ultimo ora-minuto-secondo. Fino a quando la carica delle batterie concedeva loro vita. Gli impiegati scommettevano sulle lancette e loro per ripicca se ne andavano di notte in modo da annullare le puntate. Alcuni tondi inceppavano i loro ingranaggi con un gesto invano epico. La loro lancetta dei secondi prima o poi smise di andare avanti e indietro tra un secondo e l'altro.

30.11.04

Vocali, consonanti e altre cose che non ho capito


Ho imparato a leggere il cirillico: la C è la S, la H è la N, la N al contrario è la I, la Y è la U, la B è la V, la P è la R e la R al contrario è una IA, la O è la A ma solo se non è accentata, la D è una casetta, scrivono la M capovolta ma è la SH e la X con una I in mezzo è la J. Poi usano il 3 come Z, sostituiscono il CH con il K come negli sms e hanno dei bemolle che ti fanno sputare un polmone dopo la vocale.

Io e i grandi russi


Quella che inizia con “Io e Puskin” poteva essere una grande rubrica ma su “Io e Gogol” sono scoppiato a ridere perché sembrava la statua di Paolo Crepet. (mi fido che in foto ci sia davvero Puskin, me l’ha detto il mio collega).



Windows in the sky (non abilitare le macro)


Il mio collega macrobiotico mi ha insegnato le tre leggi fondamentali della macrobiotica, che ora vado ad elencare.

1. La prima legge della macrobiotica è che non esistono leggi della macrobiotica.

2. La seconda legge della macrobiotica dice che se desideri qualcosa, quella cosa non ti fa male.

3. La terza e ultima legge della macrobiotica dice che esistono cibi yin e cibi yang. Quelli yin tirano su, quelli yang tirano giù. Devi trovare il giusto equilibrio tra i due.

Desideroso di mettermi all’opera come novello macrobiotico analizzo la cena di stasera: la fetta di maiale in padella è yang (anche se per la pancia sarà yin/yang); la birra che bevo è yin (ma anche un po’ yang visto che è la Botchka); l’insalata del minimarket russo è yang (ma anche un po’ yin visto che i resti del mese scorso con cui è preparata ormai hanno le ali); il caffè alla fine è yin (ma anche un po’ yang visto che è atterrato con me all’aeroporto). Un equilibrio perfetto. Se volete, sono disponibile per consulenze.

Troppe zuppe


I resti spartani della ricerca e sviluppo applicata al dominio del mondo accolgono la mattina sottoforma di portiere sovrappeso vestite con tailleur di mimetica azzurra. Ogni giorno all’ingresso c’è qualcuno che ci aspetta, ma le donnone controllano i nostri nomi sul solito foglio. È la prassi, in teoria, e la ripetiamo quattro volte al giorno. Il nostro referente principale è uno dei direttori ed è una via di mezzo tra una versione invecchiata di Morelli, lo psicologo di Costanzo, e una spia del cheghebé. Geghegeghegeghegé. Il nostro referente principale indossa sempre il dolcevita sotto la giacca come Putin, parla bene inglese ed è il più furbo di tutti i russi che popolano il luogo. Il referente ha qualche problema col mio nome e mi ha chiesto se va bene per me essere chiamato alla russa, Maxim.
Ogni giorno andiamo a pranzo io, il collega macrobiotico e il referente. Abbiamo un tavolo che ci viene sempre riservato in una delle salette del caffè della Biblioteca di Lettere. Anche all’università noi di Ingegneria Elettronica stavamo accanto a Lettere e Filosofia/DAMS: ormai sospetto una strategia occulta. Il caffè funziona come un self-service ma nel nostro caso con un sovrapprezzo legato alla prenotazione veniamo serviti al tavolo. Farei volentieri a meno di questo, ma è la prassi. In teoria.
Da quando sono qui ho deciso che mangio russo. O meglio, l’avevo deciso, ma a pranzo sono obbligato e a cena non seguo il proposito (favolose pennette biologiche con sugo semplice cucinate dal collega macrobiotico: un remake ecocompanatico del vanziniano Vacanze In America). I russi mangiano le zuppe e le accompagnano con pane nero. Bevono succo di mela o di pomodoro. Usano la pasta e il riso scondito come contorno e in questo caffè chiamano i piatti di carne di maiale in maniera folcloristica: il pork à la suisse è quello al formaggio, quello à la sicilienne è quello con melanzane, quello à la spanish è quello al pomodoro e cremina di cetrioli. Io sono l’unico che chiede il caffè alla fine e un po’ mi piace pur nella sua scialaquatura. Alla fine il referente si alza e paga il conto per tutti, in modo da non intralciare la kacca con complicate divisioni che avverranno poco dopo nell’ingresso della Biblioteca.

29.11.04

Almanacco del giorno dopo


Dobr’din.
In Russia fa freddo solo dopo pranzo. Il sole sorge alle 9 e i russi non cominciano a lavorare prima delle 10 (figo, faranno tutti le ore piccole. Tutti tranne noi). Il sole tramonta verso le 16. Alle 17 interrompono per il thè. Finito il thè se ne vanno a casa. I russi hanno orari strani per i concerti rock (cominciano alle 19) e gli uomini vanno matti per le scarpe con la punta rivolta verso l’alto. In Russia molti detersivi hanno gli stessi nomi dei nostri.




Smile! /2


Ho l’impressione che qui sorridano poco. Per strada gli uomini sono perennemente imbronciati, mentre le donne hanno un’aria rassegnata. Di rado incrocio qualche ragazzo o qualche ragazza che ridono. Ma nessuno va in giro con un sorriso vero stampato sulla faccia. E allora lo faccio io, sperando che a qualcuno possa far bene il mio sorriso ebete.

Smile! /1 - Ma si può alla tua età?


Ogni volta che sto per pagare qualcosa mi viene da ridere.



When you got to St Petersburg


Arrivo a San Pietroburgo (dorainpoi SP, chevvuoldì) sulle onde della più bieca demenzialità, cantando in mente la canzone di San Francisco sostituendo al momento opportuno SP e chiedendomi se a San Pietroburgo c’è il Papaburgo. Devono essere gli effetti della carne cruda dell’Alitalia + visione di Starsky e Hutch sulla nuca del passeggero innanzi a me. Saltando qualche scena di quelle troppo viste nei film (per esempio il nostro eroe che supera i controlli dei minacciosi militari all’atterraggio), mi accorgo per la prima volta di essere arrivato in Russia quando chi mi accompagna spegne più volte la macchina durante le pause dovute al traffico.
Il palazzo dove abito ha delle scale che sembrano prese in prestito dal Bronx, ma l’accogliente bilocale mi riserva una vera camera russa con tanto di icone della Madonna di Kazan a lato del letto e una spacchiosa sega elettrica nell’armadio. Il padrone di casa continua a parlarci in russo anche se io e il mio collega non capiamo una cippa. Il mio collega in realtà sa qualcosa di russo (è qui da quasi un anno) ma il tizio forse ricorre a un complicato dialetto sanpietroburghese letto al contrario. Il mio collega è un fisico macrobiotico maniaco delle spugnette, non assume latte e derivati, spezie piccanti, carne di maiale e di vitello, bibite gasate, cocaina, zucchero, cioccolata (ma a volte sì), caffè, alcool e se ne sta lì nel suo angolino, placido e ingobbito sulla sua tisana. Dopo circa dieci secondi ho idea che a meno di avventurarmi da solo in giro per la città, non uscirò mai di sera.
Noi comunque siamo sulla Vassilievsky Ostrov fino a venerdì pomeriggio e io ho persino un posto letto vacante in camera. Per cui se volete passare a trovarmi (soprattutto se sapete mettere in moto la sega elettrica per fare a pezzi il collega), potrete riconoscere casa nostra dalla scia di Rosa Canina messa a guardia del portone.


Sta per arrivare




23.11.04

L’ultima nevicata dell’anno


Cause someday I’ll be stuffed in a museum scaring little kids

Arrivederci

Si scrivono parole e poi cambia tutto. Scrivo che un disco (non) mi piace ma poi succede qualcosa e butto tutto via. Sono circondato da cestini pieni, da file di testo appallottolati, da pensieri invecchiati male in due ore. Sono una SIM piena di bozze. E poco prima di ricevere l’avviso del nuovo viaggio desideravo il contrario, ma non era quello che volevo. Il cestino oggi è qui e butto via quel post.


The sound of settling


Ho bisogno di righe orizzontali. Anche su una maglietta, vanno comunque bene. Sul tasto dei videoregistratori le due righe sono verticali, ma solo perché sono perpendicolari allo scorrimento del nastro. Ho bisogno di istanti superflui in cui non si fanno progressi.


22.11.04

Altrove (o di un concerto che si rimpiangerà)


"But I," said the bachelor to the bride,
"Am not waiting for tonight.
No, I.
I will cover my ears
And take my tears
And leave me, leave me here
Stripped bare."


(via Red Rocket Five)



To beat the iron while it’s cold


Se fossi un discografico in vena di far soldi direi che questo è il momento buono per far riuscire in Italia video e singolo di Sudden Rush di Erlend Oye.



Le mie cose hanno i nomi


Vi presento Enrico. Il mio cappello fico.




17.11.04

The sound of music


Negli scorsi giorni Inkiostro e Il blog della domenica si sono interrogati sulle modalità di descrizione della musica. Da ciò è ritornato il dibattito su come sia possibile una forma di critica (o di giornalismo, secondo i punti di vista) che si doti di strumenti oggettivi senza tradire l’oggetto della discussione (il signor Pop).

A partire da un pezzo anche banale su critica pop soggettiva e critica classico-jazz oggettiva, Clap Clap tira fuori una visione condivisibile che propone l’inserimento di strumenti oggettivi non per pervenire a un risultato oggettivo di tipo comparativo, ma per spiegare le radici delle reazioni soggettive, evidenziare il particolare che sfugge nell’ascolto o giudicare il singolo artista, eventualmente all’interno della sua produzione. Quanto basta, perché pur sempre di pop si tratta e perché la musicologia fa a pugni col pop fin dal procedimento di creazione.

16.11.04

The russian futurists (conversazioni telefoniche)


Capo di maxcar: Driiiin
maxcar: sì?
Capo di maxcar: senti per te sarebbe un problema stare in Russia a singhiozzo per un po’ per quel progetto segretissimo di conquista del mondo?
maxcar: ehm, no di che si tratta?
[due minuti chiusi da “Questo telefono si autodistruggerà alla fine della chiamata”]
Capo di maxcar: ... e quindi pensavo che potresti partire alla fine del mese e stare a San Pietroburgo inizialmente per due settimane.
maxcar: tra due settimane? Va bene! (occazzo, il concerto dei Delgados!)
Capo di maxcar: Ok, ciao.
maxcar: ciao.

Capo di maxcar: Driiiin
maxcar: sì?
Capo di maxcar: scherzavo.
maxcar: lo sapevo.
Capo di maxcar: è un problema per te partire martedì?
maxcar: ehm, err, arr, uch, pensavo di andare fuori questo weekend (occazzo, il concerto dei Decemberists) e sarebbe un po’ complicato organizzarmi ma ehm, err, arr, uch, va bene.
Capo di maxcar: Ok, ciao.
maxcar: ciao.

Ho le farfalle nello stomaco. Lo sapevo che non dovevo mettermi la cravatta, oggi. Mi sento disorientato, mai come in passato, e mi chiedo come mai ancora non si siano accorti che sono un cazzaro.



Verismi


Se accendi la televisione, se leggi le interviste, se vai in giro e vedi gente, le frasi che senti più spesso ultimamente sono “Io sono vero”, “Quello che faccio è vero”. Essere vero è anche un complimento. Io però non me la sento di vantarmi di tanto. Al massimo io posso ritenermi verosimile.

Segnalazioni


Qui accanto manca il classico listone dei blog, ma non per questo si è smesso di leggere i tanti amati cari, né per questo si è smesso di trovarne altri, in Italia e all’estero. La segnalazione di oggi va ad un m-blog (ancoooora? ancora!) italiano, il primo a entrare nel più famoso aggregatore.

Misericordia! Dissero i grilli

15.11.04

Canta(anche)Tu di Giochi Preziosi


Sei stufo che solo i tuoi amichetti che gli piace Anna Tatangelo e Gigi D’Alessio cantano il karaoke? Da oggi anche tu puoi cantare in compagnia Modest Mouse, Yeah Yeah Yeahs, Badly Drawn Boy o i Franz Ferdinand! Scopri come qui e qui.

Home sick


Sabato sera da solo in una casa per cinque, una casa davanti al mare. Le case davanti al mare non sono progettate per l’inverno, la mia camera non ha nemmeno una serranda con cui opporsi al vento. Gli infissi in legno hanno mille e tre spifferi, ma almeno non si arruginiscono. Nel terrazzino non rimane più niente, la sedia a sdraio, lo stendipanni, persino l’immondizia si bagnerebbe di pioggia.

Una casa al mare d’inverno può renderti pazzo durante un temporale. L’energia elettrica manca per istanti così brevi che non basta essere una semplice lampada per accorgersene, devi essere un neon. E io stasera lo sono. Il precedente inquilino era un consulente finanziario e prima di essere arrestato (o rinchiuso in manicomio, non so bene) ha dipinto d’azzurro una parete in cucina. Per fortuna qui al piano di sotto non ci sono specchi.

Il cabernet novello oltre a essere una contraddizione è un carillon. Per la prima volta ascolto in cuffia con disattenzione il disco di Morrissey e, mentre un pomodorino aspro spezza il ritmo, mi accorgo che mi piace come la vecchia solita storia sbuchi a sprazzi su vestiti musicali banali, una sorta di The world is full of crashing bores fatta scelta stilistica. And I must be one. Quello che brucia tutti i ponti attorno a sé.

La cena finisce e rumori ossessivi gocciolano sui davanzali. Il mio capo è felice e venerdì avevo già finito quello che dovevo fare. Mentre tutti sono da un’altra parte, la canzone su qualcuno che ha bisogno di un luogo da desiderare finisce e la situazione è così patetica che sembra che alla mia destra una telecamera stia zoomandosene indietro come in un pessimo finale.

Homesickblues
(Cause I no longer know where home is)

Tutto è nuovo


La signora lì dietro che quando escono “Ma sono dei ragazzini!”.
La ragazza che tra il pubblico emetteva vocalizzi alla maniera di Giorgia ove i cori lo concedevano (in particolare in vece di Feist).
Quelli che sono andati al concerto senza sapere bene chi fossero.
Erlend Øye e l’allarme antincendio (If this is a fire alarm, maybe you should move to emergency exit. If this is not a fire alarm, please, turn the hell of it off.). Erlend Øye il distratto che si perde tra le sue corde più di una volta. Erlend Øye che si fa una doccia con una bottiglia d’acqua e poi prende l’acqua dalle sue braccia e bagna Eirik. Erlend Øye che ruba una macchina fotografica dal pubblico e lo fotografa, che firma autografi mentre Eirik scocciato comincia lo stesso una canzone senza di lui.
Do you want stay out of trouble or gold in the air of summer?
I quasi silenzi compressi su due o tre brividi e i boati irreali attorno alla fine.
Gli italiani battimani, loro snappy fingers.
Loro due che o sono in stato di grazia e possono permettersi tutto, o prendono in giro le troppe persone davanti alle loro navi in bottiglia, insomma come linee parallele.
L’insopportabile assenza di Winning A Battle, Losing The War.

10.11.04

Preferisco ballare con te


Venerdì scorso a Bari siamo andati a ballare indie-rock nella Villa Duplé. Il posto era abbastanza piccolo e l’atmosfera era paragonabile a quella di una festa di compleanno di un compagno ricco. Per quanto paradossale possa sembrare ballare in un piccolo locale indie-rock in Puglia (pensate per un attimo che a Torino non esiste una serata simile) non è questo il punto. Quando siamo entrati, abbiamo trovato lì i due Kings Of Convenience che gironzolavano.
Erlend, dall’alto della sua statura doppia della mia, accennava goffi passi di danza, mentre Eirik scambiava qualche parola coi vicini. A un certo punto occhialone si è imbambolato verso il muro dove proiettavano un vecchio concerto degli Smiths, ipnotizzato da una camicia fucsia di Morrissey. Incerto su cosa dire, ho voltato loro le spalle e ho pensato a una parola, un saluto, un complimento (naaa, mi sono messo a ballare).
Quando stavo per girarmi e dir loro che [...], se ne sono andati, passandomi accanto. Sono usciti da veri fighi mentre il dj passava Take me out, come quando io e una combriccola di soliti noti siamo usciti da un locale simile a Milano mentre iniziava Seven Nation Army.

La canzone del giorno


Come uno che non è riuscito a dire tutto quello che voleva dire.
Come uno che è quasi arrivato in ritardo.
Come uno che sorride in autunno.
Come uno che, boh, forse come due.

Qui si ascoltano i Kings Of Convenience che fanno gli A-Ha e si guardano gli ombrelli volare.

The fishing part of fishing


Prima che arrivi il diluvio sullo scorso week-end si parte con qualche foto.









e soprattutto lo stagediving dell’occhialone



5.11.04

3 A.M. Eternal


- Tutte le cose belle finiscono
- Sì, ma quando cominciano?


Sono andato a vedere l’ultimo spettacolo dell’ultima proiezione di Eternal Sunshine Of A Spotless Mind. Sembra una cosa pensata ma è solo un caso. Sarei dovuto andare ieri ma in Via Giannone c’era un pub, una scuola di balli caraibici, una concessionaria, non il cinema Piccolo. Ho scoperto oggi che la Via Giannone del cinema Piccolo è la Via Giannone che sta nei pressi del lungomare vicino casa mia, nella frazione di Santo Spirito. Il lungomare è finalmente autunnale e forse facevo meglio ad andare in macchina. Il titolare del Piccolo di Via Giannone in Santo Spirito è la Parrocchia dello Spirito Santo ed è strano perché pensavo non esistessero più parrocchie proprietarie di cinema. Comunque sia, non hanno tagliato il film e Il Piccolo è piccolo, nonché semivuoto.

Jim Carrey è invecchiato. No, non potete farci anche questo. Ha un pigiama uguale a quello di mio padre e uno sfregio sulla macchina antisimmetrico a quello sulla mia. Mi sono ripromesso di evitare ogni possibile visione autocoinvolta ma se partite con una disquisizione sull’aggettivo ‘carino’, come si fa, cari(ni) miei? L’inizio ha la grazia di un primo incontro, minima e svuotata di particolari. Eppure come in tutti i grandi primi incontri tutto è già (stato) lì. Dopo lo stacco dei titoli le immagini seguono le evoluzioni della sceneggiatura, la assecondano e la allontanano dalla freddezza di un esercizio di stile (Adaptation?): la confusione nervosa, la rimozione del ricordo che passa per il ricordo e poi l’esplosione giocosa della lotta di Joel e Clem contro la memo-gomma. Il tutto passando per inaspettati inserti di genere (la sala d’aspetto, espediente alla Beetlejuice. Uno strano incrocio tra la serie B di Linea Mortale e quella dei film coi ragazzi lasciati soli in casa che ballano in mutande. Gli anni Sessanta invischiati di regressione. Le situazioni dei film d’ammore. La spiaggia. Il letto. La neve. Il letto sulla spiaggia con la neve).

Nell’intervallo è partito lo show del commento alle mie spalle. Due coppie, le due ragazze chiacchieravano:
- Mamma mia, sembra di stare in un incubo. Soffocante.
- Quindi bello?
- Scherzi, non vedo l’ora che finisca.
- Io lo trovo stupendo. Anche un po’ per quello.
- E poi che c’entra la canzone di Zucchero?
- Ma non è Zucchero.
- Già, è un ubriaco. (NdBR: qui volevo alzarmi e stringerle la mano per aver dato del sobrio a Zucchero). Chissà *a chi* ha copiato questa volta.
- Forse questa volta ha fatto la versione in italiano.
- E comunque è troppo scuro. Tutto questo blu.
Le due si sono conosciute sicuramente in quanto i loro ragazzi sono amici.

Forse è anche un po’ ruffiano perché racconta di quanto dobbiamo/vogliamo/possiamo chiudere col passato e delle debolezze e dei difetti, di quanto ci piacciano in noi e negli altri e di quanto siamo disposti a sopportarle. Ma sto per andare sull’emotivo e citare le parole. E allora mi dico che Eternal è un film molto bello, misurato anche quando deborda ma guizzante. E però ha un finale carino, nonostante tutto. Le due coppie dietro rimangono per vedere chi era l’ubriaco. All’uscita hanno tolto il manifesto del film e non ho avuto bisogno di coprirmi gli occhi come altri mi dicevano di fare. Lo hanno sostituito con un altro, la targhetta OGGI sopra, ma non ricordo quale fosse.


Offlaga Disco Post


Nel mio palazzo,
c’è un bambino che si chiama Benito

31.10.04

Quattro giorni prima che le cose (ti) cambino


Giovedì, concerto: Il gruppo con gli occhiali strani
Il mio secondo concerto jazz-core in meno di un mese mi conferma che il genere riesce bene quando lo scherzo e il gioco evitano gli effetti nefasti di una miscela cervellotica. Gli Bzbzueu (se vuoi sentire, sentili) leggono da un foglietto tra un pezzo e l’altro, ma secondo me sul foglietto non ci sono i nomi delle canzoni, c’è scritto quando devono mettersi gli occhiali strani. La loro sassofonista ogni tanto suonava contro un angolo, come se fosse in castigo, dando le spalle al microfono: più che a una ricercata trovata sul rapporto artista-pubblico, mi ha fatto pensare ai ragazzini che ripetono la poesia a bassa voce prima di dirla davanti a tutti. Alla fine un divertentissimo punkabbestia barese ha cercato di riportare il gruppo sul palco per una canzone al grido di “Eddai, fatene un’altra, così la registro sul cellulare”.
Nell’antefatto del concerto si è discusso di tutto un po’. Io e un indieblogger sodale del quale non rivelerò il nome nemmeno sotto tortura abbiamo sparlato in tono cospiratorio degli Offlaga Disco Pax. Tantissime ragazze parlavano in tedesco.Ah, a proposito, quando delio parla in tedesco pronuncia le parole italiane come le pronuncerebbe un tedesco. Io invece sono quello che: mi viene presentata una ragazza di Dortmund, lei mi chiede se conosco Dortmund e io rispondo “Certo, Borussia Dortmund”.
Il giorno dopo una ragazza che lavora dove porto avanti il mio master mi ha invitato a ballare latino-americano. E invece

Venerdì, cinema: Film-acher / L’autunno del nostro discontento
Peggio di una ragazza che ti invita a ballare latino-americano c’è una ragazza che sostiene la necessità di una serata più varia, un po’ latino-americano, un po’ house e un po’ divertentismo. Il divertentismo come genere codificato esiste solo a Bari, ma se siete milanesi potete immaginarlo come il sabato sera al Loolapaloosa sul tardi (quando sono già tutti ubriachi) o il venerdì sera al C-Side ex Propaganda (lì ci vanno i trentenni-quarantenni e loro il divertentismo lo reggono anche da sobri). E invece io ho preferito il cinema etn(ord)ico disadatattato.
Alla rassegna Filmaker hanno dato dei titoli alle giornate: la prima si intitola L’inverno del nostro discontento ovvero film su gente che ha freddo e per questo se ne vuole andare da dove abita. Capita a fagiuolo, tranne che siamo in autunno e qui si gira ancora con le maniche corte. Nonostante delio abbia sostenuto via mail la spendibilità del film tagiko d’apertura in una possibile futura conversazione colta, ho preferito attardarmi a casa per una cotoletta. Non so perché ma associo alla parola “tagiko” le pernacchiette fatte con l’ascella. Venite anche voi in Tagikistan, il paese delle pernacchiette fatte con l’ascella!

Il secondo film è Lilja 4-Ever, svedese ambientato in Russia e Svezia. Avevo apprezzato in passato la mano leggera con cui Lukas Moodysson descriveva il disagio giovanile. In L4E invece Moodysson non ne azzecca una. In sintesi il film segue le vicende di una sedicenne russa fan delle T.A.T.U. non brava a scuola che viene abbandonata dalla madre, che è costretta dalla zia a vivere in un tugurio, che sniffa colla e beve sciroppo per la tosse, che inizia a prostituirsi, che viene violentata da un cliente, che trova un fidanzatino che la fa andare in Svezia non prima che la violentino alcuni ragazzi del quartiere, che in Svezia scopre di essere stata venduta dal fidanzatino come schiava sessuale per vecchi deformi e che alla fine si suicida. Per dare un’idea, a un certo punto Lilja regala un pallone da basket a Volodja, amichetto maltrattato dai genitori e futuro suicida per suo amore: il giorno dopo il padre di Volodja taglia in due il pallone senza alcun motivo. Vi giuro che a un certo punto mi aspettavo che in puro stile surrealista Moodysson facesse entrare qualcuno in sala che dicesse “Lilja, non hai pagato il biglietto, vai fuori dalle balle!”.
Lontano dalla poetica della sfiga di Von Trier, il regista in un primo tempo si affida alla cazzimma documentaristica, adottando i precetti del Dogma solo per tratteggiare i personaggi: la povertà culturale-materiale viene resa con non-recitazione, non-battute e una piattezza fastidiosa almeno quanto gli zoom sulle facce dei personaggi. Meritevoli invece le citazioni dei video di musica techno russa durante le sniffate di colla. In un secondo tempo, preso dal suo intento di denuncia, Moodysson spinge in maniera sempre più estrema la violenza affiancando a questo un binario che nemmeno l’autore medio di una fiction RAI oserebbe pensare: l’amichetto suicida che torna in forma di angelo con tanto di ali erette. Taccio sulla scritta alla fine del film. Dopo un’ora e mezza di simile strazio apprezzerei qualunque cosa.

E il qualunque cosa si presenta sotto la forma di Noi Albinoi, film islandese su un giovane albino disadattato. Se conoscete musicalmente un po’ l’Islanda, la troverete fedelmente riprodotta qui: freddo dal punto di vista visivo, ma delicato; introspettivo di minimo e superfici. La svolta finale e due o tre scene da comica lo elevano al di sopra del remake nordico di Forrest Gump. La colonna sonora originale ricalca i piacevoli dilatati di certi Sigur Rós e quando si entra in macchina con Noi troverete di tutto, dal reggae al death metal. Menzione anche per la bellezza della protagonista femminile (era una cosa che avevo sempre sognato di dire (non intendo la nonna)).

I due film avevano un nome nel titolo e descrivevano anche dei luoghi. Questo mi ha fatto pensare una cosa. Io non so descrivere le persone che ho conosciuto e i luoghi che ho visitato. Deve essere una sorta di vendetta storica del destino nei confronti della mia abilità nel giocare a nomicosecittà. Durante il ritorno a casa ho beccato su Radio3 una gustosa diretta del concerto dei Pan Sonic e ho girato a vuoto in macchina finché non è finito. Il giorno dopo la rassegna è continuata con la giornata Le Regole Dell’Attrazione, piatto forte il film La Moglie Dell’Avvocato. E invece

Sabato, discoteca: Istuest
Ma gli Zerozen li ricordiamo solo io e Red Ronnie? E invece siamo andati in un posto il cui anagramma è Zerozen a vedere Richard Dorfmeister mettere i dischi. C’è qualcosa di sbagliato in ciò, non si va a vedere il set di un dj: un dj o ti fa ballare o si occupa del sottofondo per le tue chiacchiere. I pochi che sono andati lì per vedere Dorfmeister si potevano riconoscere perché, dopo essersi salutati tutti tra di loro, stavano immobili rivolti verso la consolle, commentando ogni tanto col vicino. Intorno, gente vestita con altre (dubbie?) velocità, danzava incurante. Non so se ricordate, ma a me tutto questo rimandava al bellissimo quinto pezzo del secondo cd delle K&D Sessions, Boogie Woogie, quello che il Windows Media Player chiama in maniera incorretta Eastwest [Stoned Together]: gente che va al rallentatore circondata da mucchietti ipercinetici, come in un pessimo video musicale. Fatto sta che Dorfmeister, lì insieme a uno dei Madrid De Los Qualcosas, invece di fare Dorfmeister ha messo una selezione di piatta house music (no, delio, le ultime cagate riminesi sono ben altre cagate). A Dorfmà, ma quant’eri figo su la copertina der g-stonato e quanto ce pari un chiatto turista austriaco in vacanza, mo’. Il dramma però è che io avrei anche ballato se non fosse stato lui (ehm, c’ho lo stomaco un po’ forte, forse). Il giorno dopo c’è stato il concerto di Patti Smith a Bitritto, che sarei andato a vedere perché non sono l’indieblogger che mi dipingono, signora mia. E invece

Domenica, treno: Meet Next Life
E invece ho preso un treno. Quando vuoi essere conscio e sicuro di fare una scelta, prendi un treno. Sembra lo slogan di una pessima pubblicità, anche perché potresti prendere benissimo un aereo, una nave o la tua macchina per quella cacchio di scelta. Però il treno è funzionale alla scelta perché non ti fa dormire, perché dilata le distanze e ti vengono in mente i pro e i contro. In aereo è diverso, forse è simile soltanto quando non danno i cracker e il succo d’ananas a metà viaggio. Sul treno però non sono riuscito a fare niente di quello che avevo in mente: la lucetta personale del compartimento era rotta e non ho letto quello che volevo leggere. Ho dimenticato le batterie ricaricabili nel caricatore e non sono riuscito a canticchiare Ticket Out Of Town di Styrofoam prima di partire (phew che fortuna, non ho ancora capito quello che dice).

Lunedì, colloquio: Epilogo
Sono diventato un progettista elettronico e in contemporanea un uditore esterno del master che stavo frequentando. Posso decidere se fare per un’ora lo straordinario o no. Starò a Bari per un po’, forse ogni tanto mi potrebbe capitare di fare un salto a Torino. Mi hanno fatto fare anche il passaporto per ogni evenienza. Perderò qualche concerto che avevo in mente di vedere durante novembre e dicembre. Io però i Decemberists me li vado a vedere lo stesso, a Firenze.

20.10.04

Il lamento del legionario / Ho combattuto una guerra


Qualcuno diceva che la diaristica è il rifugio del pessimo scrittore. Va bene all’inizio, ma se poi non hai una vita elevata a forma d’arte tendi ad annoiare e se non annoi è solo perché la peste dei nostri giorni è il riconoscersi nei personaggi, nelle canzoni, persino negli oggetti a volte.

È ipocrita la frase ‘scrivo per me’: sono in pubblico e se vado sul personale non sono diverso dagli ospiti di C’è Posta Per Te. Uso il mio personale, con molta o poca grazia, per uno scopo. Quale scopo? Fare apprezzare quello che apprezzo? Raccontare la mia immagine distorta a chi non mi conosce? Diventare ricco con tutto ciò? Il vero unico diario è quello conosciuto alla morte dello scrittore.

In tutto questo si inserisce la due giorni che aprirà la prossima mia settimana. Si va a crescere un po’ di più di quanto si è cresciuti, si spera. Si prende un bestione di ferro che toccherà in maniera scaramantica tutti i luoghi importanti di questi mesi, Baribolognamilanotorino, accompagnati dalla scimmietta che suona la musette e che ondeggia la testa a destra e a sinistra. E poi si ritorna indietro in attesa di una risposta, come sempre. Si.

Andrò senza la cravatta che volevo. Volevo una cravatta che non fosse più larga del mio viso, che potessi indossare tuttiigiorni e che non si comprasse in uno di quei negozi con Prada scritto sull’insegna. Non l’ho trovata. Andrò e quella sera non potrò vedere Patti Smith al Palatour di Bitritto. Peccato. Ero così eccitato dall’idea di raccontare un giorno ai miei nipoti di aver visto un concerto al Palatour di Bitritto. Be back again.

19.10.04

Expectations or exploitations?


Lisa, il ragazzino del circo, la volpe nella neve e tutti gli altri nei fumetti dei Belle And Sebastian?

18.10.04

Gabbiani svedesi


Un giorno perso a cercare l’mp3 di Ett Liv I Solen di Anni-Frid Lingstad. E ho trovato solo i trenta secondi iniziali.

15.10.04

Incompreso


----- Original Message -----
From: EIDOS
To: ffwd76@vene.ws
Sent: Friday, October 15, 2004 12:00 AM
Subject: Corso Gratuito per maxcar.blogspot.com

eidos

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Lo staff di Eidos Communication

Dieci piccoli post figli dello scazzo: #10


Niente. Non è successo niente. […]. O qualcosa del genere.

Dieci piccoli post figli dello scazzo: #9


Nell’appartamento vuoto suono la seconda canzone che ho imparato. The world is full of noise, yeah

Dieci piccoli post figli dello scazzo: #8


Potevo sentire i Kings Of Convenience nella mia città, in un ambiente raccolto, insieme a un numero discreto di persone, pagando 3 euro. Li sentirò qui, in un palasport con l’acustica di un palasport, circondato da gente vociante, pagando 20 euro. Not exactly The Luckiest Guy On The Lower East Side.

Dieci piccoli post figli dello scazzo: #7


C’è chi ha la maglietta dello scazzo. Io invece ho proprio la faccia dello scazzo.

Dieci piccoli post figli dello scazzo: #6


L’altro ieri non sono andato al cinema a vedere il film di Almodovar e alle undici mi sono rifugiato sotto i miei plaid anni settanta. Ieri non sono andato al concerto di Black Forest/Black Sea e alle undici mi sono rifugiato sotto i miei plaid anni settanta. Oggi non andrò a vedere Hero e i miei plaid anni settanta mi reclamano già dalle undici di mattina.

Dieci piccoli post figli dello scazzo: #5


Curioso come ragazzi tra i ventisei e i ventinove ripetano dinamiche fantozziane nell’organizzazione del tempo libero.

Dieci piccoli post figli dello scazzo: #4


I’m never gonna dance bad music again. (seee, non ci crede nessuno)

Dieci piccoli post figli dello scazzo: #3


Tarda mattina di domenica: un mio vicino di casa ricarica il camper dal suo appartamento.

Ricarica

Dieci piccoli post figli dello scazzo: #2


Tardo pomeriggio di domenica, non chiamiamolo tramonto. Abbasso i finestrini e respiro il co2 della marmellata di traffico all’uscita del parcheggio dell’Ipercoop. Il silenzio di Thalia Zedek è stato qui e se n’è andato (tnx delio).

Dieci piccoli post figli dello scazzo: #1


Oggi: Pane e spleen.

13.10.04

El Mariachi


Ieri ho deciso di imparare a suonare. Non ho deciso di imparare a suonare uno strumento, ho deciso di imparare a suonare le canzoni di un unico disco. Uno dei miei coinquilini, Marco, ha una chitarra classica Eko ed è rinomato perché sa suonare bene i primi quaranta secondi di tutte le canzoni che conosce. Tra i soprannomi che gli ho affibbiato l’ultimo in ordine di tempo è falò interruptus. Marco è un traviato, ascoltava già buona musica ma adesso gira in macchina con i cd dei Radio Dept., dei Kings Of Convenience, di Belle & Seb e si interroga su come possano essere le versioni originali dei pezzi meno noti di Nouvelle Vague. In casa abbiamo anche la chitarra acustica Ibanez di Fabrizio, il coinquilino ispanocentrico di sinistra dell’Opus Dei. Fabrizio vuole imparare a suonare solo La Canzone Del Sole e ha chiesto aiuto pure lui a Marco.

In una mattinata rilassata ho trovato soltanto tre tablature, contenenti peraltro anche qualche imprecisione. Forse è difficile e anche inutile distillare dal magma gli accordi, ma sono testardo e credo che quelle canzoni siano fatte per essere suonate anche in altri modi, anche ispanocentrici: nella fatta ispecie l’altro modo in questione è “seduti in due con le spalle appoggiate sull’intonaco grezzo e la notte intorno”. Le corde appena sfiorate. Lo sguardo che saltella sui mattoni ruvidi, sul punto più distante che riesco a vedere e sulle mani, non le mie perché non devo vederle mentre suono.

Avevamo solo cinque minuti prima di uscire e ho imparato ad avere tra le mani una mitragliatrice. So suonarla nonostante la mia idiosincrasia verso il barrè: quando arriva quel momento suono solo le corde centrali, almeno finché non supero il mio odio verso quella forma di tortura al dito indice. Mettere le mani sulle corde ti svela lati nascosti delle canzoni che ami: la mitragliatrice è fatta di dita che scelgono una posizione e poi una si alza e va via o cambia posto.

Di sera uno dei tizi del posto che bazzico per vivere inaugurava casa. Dopo la pizza due chitarre celebravano il trito rito che appesta le spiagge nelle notti d’agosto, senza il conforto venefico della puzza di bruciato. Con lo sguardo sbarrato assistevo all’esecuzione dell’intero songbook di Ligabue sulla chitarra che aveva visto muovere i miei primi passi. In un solo colpo si vanificava il mio proposito di evitare per il futuro tutto ciò che va contro i miei gusti (anche se il proposito contemplava una seconda parte che lo completava). Era come se, nella stessa serata, avessi perso la verginità e mi fossi beccato l’AIDS.

11.10.04

Le Immagini Mentono: Caldobagno


[Inserisci titolo del disco] è come una doccia in un bagno dove l’acqua calda arriva da uno scaldabagno. L’acqua scende calda e tu sei lì sotto, nudo come un verme. Ma l’acqua calda finisce, ottanta litri, e per quanto lo scaldabagno provi a riscaldare altra acqua, i rubinetti chiedono troppo. Tu chiedi troppo, lì da trenta minuti. E allora la temperatura si abbassa, non lo senti subito, te ne accorgi dalla pelle che a poco a poco si arriccia e dalle gocce che solcano la condensa sulle pareti del box doccia. E quando tremi è troppo tardi, perché hai chiesto troppo a [inserisci titolo del disco], ma la colpa è un po’ anche sua.

Una campagna di inutile sensibilizzazione:
‘Le Immagini Mentono’


Non ho tempo per scrivere perché scrivo altro e, forse, se lo avessi avuto non lo avrei impiegato. Il tutto si incrocia col mio, momentaneo spero, risentimento verso tutto ciò che mi circonda: in un’ottica pan-di-stelle (visto che panteistica mi sembra esagerato) il risentimento verso gli altri e verso la città che ora mi accoglie non è altro che una proiezione del risentimento che provo verso me stesso.
Nello splendore della condizione che mi pervade e che, per mia iniqua e gratuita cattiveria, non risparmia chi mi ha incrociato negli ultimi due giorni – ma domenica ho scelto di non vedere anima conosciuta per ventiquattrore – sono stato colto da un ripple nichilista. Ora, molti di voi ignoreranno il significato tecnico di ripple e si chiederanno perché non ho utilizzato il termine italiano. Credo che non ci sia. E visto che stiamo sviando, la derivata del jerk non ha un nome codificato e tutti la chiamano con un monosillabo differente.

Comunque.

Comunque sto facendo i conti col piacere di scrivere e con le mie cattive abitudini. Una di queste è lo smodato uso di immagini per descrivere la musica. Non dico che sia sbagliato, ma è un trucco che rende tutto più facile e che a volte ci allontana dalla musica, se non ci rende ridicoli. Per questo quando mi verrà in mente un’immagine con cui potrei descrivere un suono la getterò via, la brucerò come una fotografia.

1.10.04

Waves At Play


I just lost it for a while

Today Futures (M-eno male che c’ho gli m-blog)


Faster than they did yesterday

Costretto da una connessione iper-veloce, con barriere architettoniche. Che poi ci sono riuscito e Soulseek ha superato tutte le protezioni e scarica alla fantasmagorica velocità di 0.1 Kb/s (= any decent socks5 proxy?). E allora ci si rituffa nel mondo degli m-blog e capita che in mezz’ora scarico mezz’ogiga di mp3 di gruppi fino a quel momento sconosciuti o di nuggets. Mi chiedo se sentirò mai il disco intero di questi carneadi, mi chiedo anche se sentirò il singolo mp3. Un altro livello, forse anche oltre quello del p2p: è l’esplosione del sistema. Ho vicini di casa che suonano in cantina, in cameretta o in parrocchia persino a Turku. Io alzo le mani e mi arrendo.
In tutto questo spesso rimane attaccata alla rete a strascico solo la fuffa. E forse è giusto così, mi sono pure stufato di decidere. Controllo ogni giorno le cover strane. Accolgo con un sorriso mattutino la citazione australiana di Gianni Nannini su Fat Planet. E vorrei che fosse già Natale, anzi Capodanno, per chiudere un mio set con Miracle On Threadneedle Street. E tutti che ballano.

30.9.04

Lost in open space


Recharged?

O.P.C.


Quello che suona il mio autoradio sul lungomare. Ho tutto il vento del mondo nei miei capelli.

Some Things Last A Long Time


Ho rigiocato a pallavolo. E il dubbio è: cosa fai nelle pause tra un punto e la successiva battuta. Dopo che festeggi o commenti l’azione. Dopo che riprendi la tua posizione. Guardi qualcuno oltre la rete? Scambi una frase-in-ascensore con l’alzatore/alzatrice dell’altra squadra? Fissi qualcuno o saltelli con lo sguardo? Ti giri verso chi batte e segui la palla finché non viene ricevuta dall’altra parte? Mi rende troppo nervoso la pallavolo, quasi quasi dalla prossima settimana cambio sport.

Niente bassi sulla bocca


La nascita di un bacio. (via Catchdubs)

24.9.04

La vita è una sit-com


L’altro giorno, a pranzo coi coinquilini, mi chiedevo: ma la nostra vita cambierebbe in meglio con le risate finte preregistrate in sottofondo?

Speaker’s corner


Domenica scorsa sono andato al Nazionale a vedere Fahrenheit 9/11. La cosa che mi ha sorpreso di più è che l’impianto audio è parzialmente saltato per circa un quarto d’ora e nessuno si è lamentato. E poi dicono che Michael Moore è apprezzato solo dalla sinistra incazzosa.

22.9.04

Lunedì, 20 Settembre 2004


You should always tell cities you love them in case you never see them again

Questo non è il racconto di un arrivederci a Torino. Questo è l’ultimo lunedì a Torino prima di lasciarla per un po’. Voglio che questo sia un giorno diverso, voglio vedere strade e raccogliere particolari insignificanti da ricordare. E così prendo le mie cose e a metà pomeriggio esco dall’aula dove siamo abbandonati da due settimane. Nel lettore partono i sognni inguaiati del piano magico. Sono in modalità “loop directory”.

Scendo le scale correndo e chiudo la porta dietro di me. Il cielo grigio delle sedici e trenta mi sembra fuori stagione. Nessuna foglia cade e io varco il cancello con passo sonnolento. Il volume riduce la velocità delle immagini e si mischia ai rumori di fondo, non voglio perdere nemmeno quelli. Attraverso le strisce pedonali che nessuno rispetta su Via Rivalta, poso la borsa del computer nel portabagagli e mi spettino un po’ i capelli come faccio ogni volta quando il vento li rimette a posto. L’interminabile chitarra viene raggiunta dalla batteria. La macchina parte. Poggio un angolo della testa sul finestrino e osservo obliquo il paesaggio veloce di Corso Allamano: le corsie che diventano ora tre ora quattro, le persone nelle altre auto, il liceo Curie, gli inutili controviali che non ho mai imparato a usare, l’enorme torre dell’acqua dell’Azienda che diventa sempre più piccola.

La legge non scritta. Esco dal residence per comprare pochi generi di conforto al minimarket dietro casa. Capisci la partenza anche dal fatto che eviti la spesa a Le Gru, l’enorme centro commerciale sede dei tuoi tramonti del lunedì per tanto tempo. Lungo gli angoli di Via Saffi due vigili urbani multano le auto posteggiate agli incroci o sulle strisce. Una Fiat Panda ha la targa polacca. Ripenso alle leggi non scritte del parcheggio selvaggio. La terza fila a Palermo. Le macchine sul marciapiede a Milano. Le auto al centro della strada mentre di notte tornavo a casa, a Torino. Il palazzo delle Pagine Gialle è largo nove finestre e alto quattro: secondo me contiene i volumi di tutte le città e di ogni anno. Capisci la partenza anche dall’ultimo scontrino del DxD: due mezzi litri di latte, mini-mozzarelle, quattro birre. Avevo già tutto il resto.

Passeggio per Corso Francia e salgo sul primo autobus che passa, tanto tutti portano allo stesso posto. Piazza Statuto schiude nuvole grigie e riflessi arancioni. Ho scritto un racconto nei miei ventanni, nonostante non lasciasse mai la mia testa. Tutti percorrono Via Garibaldi in direzione opposta e la campana di una chiesa, forse quella di San Dalmazzo, annuncia le sette post-meridiane. Mio padre è mai stato un poeta senza sapere di esserlo?

Il mercato di Porta Palazzo ha già sbaraccato e in Piazza della Repubblica resta soltanto l’odore forte dei pomodori da sugo spiaccicati per terra a creare pozze di sangue finto. La gente guarda con uno sguardo che ti dice “affretta il passo”. Ancora una volta scelgo la direzione opposta, verso la Dora. Corro nell’ultimo tratto, accelero mentre attraverso, sempre più veloce sul ponte. Mi giro quando arrivo dall’altra parte. Davanti a me non vedo che fantasmi di fantasmi di fantasmi.

Fuori, l’estate non è ancora andata. Aspetto seduto alla fermata deserta. Dentro, l’autunno non è ancora andato. L’autobus va da (Via) Catania a (Via) Frejus.

Sull’autobus mi si abbassano le palpebre. Il 68 è una specie di giro turistico per Torino. Torino è fottuta dai lavori. Il traffico è quello della fine di un giorno scuro e stanco.

Live their lives through diaries, live their lives through diaries, live their lives through diaries. La parola diaries ha troppi significati e mi aggrappo a quello per non sentire alle mie spalle i discorsi idromassaggiati delle due woman della business class.

Lei sale alla mia penultima fermata o quasi, più o meno quando il lento scorrere su Corso Vittorio Emanuele II viene rotto dall’infrangersi della chitarra sui segnali di deviazione degli scavi per la metropolitana. È alta, pallida e leggera e insospettabilmente bella per passeggiare a Torino, anche se su un autobus. Ha lunghissime treccine sottili, come Corona, quella che cantava The Rhythm Of The Night. Qualcuno mi ricorda che devo andare a casa. Scendo e costeggio i giardini di Via Revello, deserti per l’ora di cena.

Sono venuto a Torino per trovare me stesso, ma con un milione di persone da dove cominci? Tu mi hai chiesto se ero qualcun altro e io ti ho detto “Sì, se ti aiuta non sarò me stesso”. Come bravi blogger che catturano l’estate in tre sole righe, vorrei raccontarti, ma ci vorrebbe tutta la notte. Come per le comete potrebbe essere l’ultimo lunedì (non lo sarà, lo so). L’ascensore senza specchio del residence mi porta al primo piano.

Telefon Tel Efilm


Poi succede che guardi O.C., il telefilm dei tonni ammaestrati, dei quali uno ipertricosopracciliaco, e senti in prima serata l’ultima canzone del giorno. E, subito dopo, la provvidenziale voce della coscienza la definisce “musica demenziale”. Gloria gloria al primo telefilm anti-indie.

21.9.04

Ora Zero (A Ray Bradbury Short Story)


Sono affascinato dall'idea di batteria ricaricabile. Le ho comprate per il mio lettore cd-mp3: sarebbe stata diversa la mia infanzia insieme a loro. La batteria del mio portatile invece ha un'autonomia di circa un'ora. Non posso vederci nemmeno un film sul treno.